GIANNI VATTIMO

A cura di Diego Fusaro



OLTRE L'INTERPRETAZIONE

Oltre l'interpretazione uscì nel 1994, a seguito di una serie di conferenze organizzate dalla fondazione Sigma-Tau: quell’iniziativa fu per Vattimo l’occasione per fare il punto sul significato dell’ermeneutica e precisare, oltre gli equivoci e le cattive interpretazioni, il senso della sua proposta teorica di pensiero debole che, come egli stesso nota nella prefazione, è stata intesa in senso troppo ristretto e letterale, in termini di mero ‘debolismo’ relativistico. Ed in questo clima di generico relativismo l’ermeneutica ha assunto lo statuto di koinè filosofica: fatto, purtroppo, tutt’altro che positivo; scrive al proposito lo stesso Vattimo: "una tale pervasività dell’ermeneutica mi sembra essersi realizzata a prezzo di una diluizione del suo originario significato filosofico"(p.4); di conseguenza, difficilmente essa avrà delle conseguenze o enuncerà tesi filoficamente rilevanti. Nella sua forma di koinè, insomma, l’ermeneutica incarna un sentire comune al limite della banalità. Riscattarla da questa mala condizione è uno degli scopi per cui è nato il libro. In altri termini, si tratterà di mostrare che il pensiero debole, propriamente, non è così debole come si vorrebbe, tanto da saper resistere alle facili tagliole scolastiche bofonchianti "se tu dici che tutto è relativo, anche questa tua frase è relativa, quindi…". Ma com’è, allora, questo pensiero-debole-che-non-è-debole? Vattimo lo precisa in due momenti: uno programmatico e uno applicativo. Al primo sono dedicati un breve saggio in appendice e il primo capitolo che si occupano, rispettivamente, di determinare la concezione di verità dell’ermeneutica e il significato di essa; al secondo i capitoli centrali del libro che applicano il programma generale a diversi ambiti disciplinari, quali la scienza, l’etica, la religione e l’arte.

1. La verità dell’ermeneutica

Iniziamo con il primo tema, quello della verità dell’ermeneutica che si pone in termini particolarmente gravosi poiché, una volta rifiutato – come l’ermeneutica deve fare se vuole dirsi minimamente tale - il paradigma corrispondentista, sembra difficile proteggersi dalla barbarie dello scetticismo, la quale conduce direttamente all’abdicazione del pensiero. Per rispondere al problema Vattimo non oppone al corrispondentismo il coerentismo, per la semplice ragione che il secondo porta dritto al convenzionalismo e, di qui, allo scetticismo, col il che saremmo punto e daccapo: la strada da percorrere è ben più lunga e ardua.

Rifacendosi a Heidegger, Vattimo intende la verità in termini di apertura di orizzonti di senso, entro i quali sono stabiliti i criteri di verificazione e rese possibili le forme di verità come corrispondenza, il che già fin d’ora spazza via la pretesa supremazia di quest’ultima. D’altra parte, se non ho criteri per verificare come faccio a sapere che la mia conoscenza corrisponde alla realtà? La verità come corrispondenza, insomma, appare indissolubilmente legata e dipendente rispetto ad un orizzonte di verità, per così dire, alla seconda potenza che la ospita e la rende possibile. Questo superiore orizzonte va, secondo una nota metafora, abitato, al fine di far propri i criteri di verità, così da far accadere la verità-corrispondenza. Abitare, però, non è un semplice subire, adeguarsi ai criteri che l’orizzonte impone: se così fosse l’adeguazionismo, buttato fuori dalla porta, rientrerebbe dalla finestra, e non ci si adeguerebbe più ad una presunta realtà delle cose in sé, ma ad una struttura di senso in cui si è gettati.

Due sono, quindi, gli atteggiamenti da evitare: il primo è quello che parla di una verità come apprensione adeguata del dato, il secondo è quello che santifica e idolatrizza il contesto della nostra apprensione. Entrambi ricorrono, quale criterio epistemologico di legittimità, all’esperienza dell’evidenza: l’uno la localizza nella sensazione soggettiva di certezza, l’altro nel senso di pienezza e soddisfazione raggiunti, ad esempio, nell’adeguazione ad una comunità secondo la ‘bella eticità’ hegeliana, nella quale l’orizzonte è assunto come fatto bruto, come nuovo Grund della tradizione metafisica, che fa tacere ogni domanda e ogni dialogo con l’incontrovertibilità della sua presenza.

L’autentico abitare "implica piuttosto un’appartenenza interpretativa, che comporta sia il consenso sia la possibilità di articolazione critica"(p.104). Vattimo fa uso, a questo proposito, di una metafora: " la verità dell’abitare è la competenza del bibliotecario, che non possiede interamente, in un puntuale atto di comprensione trasparente, la totalità dei contenuti dei libri tra i quali vive, e nemmeno i principi primi da cui tali contenuti dipendono;[…]la competenza biblioteconomica […]sa dove cercare perché conosce le collocazioni dei volumi e ha, anche, una certa idea del catalogo a soggetto".

Ma, in sostanza, i confini e i luoghi di questo abitare, che dev’essere critica, dialogo, continuo domandare e consenso consapevole, come vanno pensati? Si deve guardare non ad "uno spazio naturale pensato in fondo come spazio astratto, geometrico, ma a un paesaggio segnato da una tradizione" (p.113). Il volto di questa tradizione sarà la storia: non una storia hegeliana, strutturata, compiuta, bensì "una rete di riferimenti mai conclusa, una rete che è costituita da molteplici voci della Uber-lieferung, del tra-mandamento"(p.133). Dunque, storia come tra-mandamento, ma senza degenerare nel "confusivo sovrapporsi di prospettive": la molteplicità non è dissoluta e astratta, ma assurge alla dignità del Ge-shick, secondo struttura ereditaria, rammemorante. Il Ge-schick – precisa Vattimo – "conserva così qualcosa del Grund metafisico, e della sua capacità di legittimazione; ma solo nella forma paradossale, nichilistica, della vocazione al dileguamento"(p116). Destino, allora, come sfondamento-sfocamento e dissoluzione dei caratteri forti, in una prospettiva "ben al di là della pura e semplice affermazione della pluralità dei paradigmi"(p.117).

La posizione di Vattimo potrebbe essere confusa con il relativismo se si dimenticasse la componente rammemorativo-storica; potrebbe essere, per altro verso, confusa con un hegelismo storicista, se si dimenticasse il carattere dileguante della storicità vattimiana, ove il dileguare, proprio come la debolezza, non va presa troppo alla lettera: tenere insieme hegelismo e relativismo potrebbe aiutare, seppur grossolanamente, a non confonderla o fraintenderla.

Dopo questo lungo giro argomentativo, viene spontaneo chiedersi, se davvero siamo salvi dallo scetticismo. Parrebbe di sì: infatti la prospettiva di Vattimo tiene insieme criticismo non dogmatico e universalità, in riferimento ai modi dell’abitare. E tale abitare è critico, perché l’evidenza e i criteri di adeguazione vengono riportati ad un orizzonte di fondazione e, ad un tempo, di sfocamento; in secondo luogo esso è universale, non perché accede all’astrattezza dell’essenza, del genere e della specie, ma alla struttura rammemorante del Ge-schik che permette di percorrere un’infinita rete di parentele, proprio come nelle ricerche etimologiche di Heidegger. Ed in più: criticità ed universalità sono salvaguardate senza ricorrere al paradigma adeguazionista della verità, poiché non si ha mai che fare con un dato definitivo a cui adeguarsi, ma solo con rinvii, trame di rapporti, sfociamenti e movimenti trasgressivi

E se questo discorso non fosse ancora sufficiente a convincere della possibilità di non-essere scettici senza affermare una verità stabile; per rispondere a chi ancora si ostini ad applicare la trappola dell’autoreferenzialità al pensiero di Vattimo si può dire che bisogna " rifiutare la tranquilla identificazione delle strutture dell’essere con le strutture della nostra storica grammatica e del linguaggio effettivamente dato; dunque anche l’identificazione immediata dell’essere con ciò che è dicibile senza contraddizioni performative nell’ambito del linguaggio che ci troviamo a parlare"(p.97). Ulteriori perplessità forse si potranno chiarire se inserite nella prospettica globale del significato dell’ermeneutica che ora affronteremo.

2. Significato dell’ermeneutica

"Che ogni esperienza di verità – scrive Vattimo – sia esperienza di interpretazione è quasi una banalità nella cultura di oggi"(p.8). Nel pensiero novecentesco, infatti, la fenomenologia , l’esistenzialismo, il neokantismo e la filosofia analitica condividono "l’idea del legame o della identità di verità e interpretazione"(p.9). Il che comporta che ermeneutica non significa questo, o meglio non significa banalmente solo questo. E che cosa d’altro? L’ermeneutica non pretende di fornire "una descrizione finalmente vera della (permanente) struttura interpretativa dell’esistenza umana" (p.9), ma si limita ad essere una verità storica che si configura come "risposta ad un invio, a quello che Heidegger chiama Ge-Schick"(p.10). Bisogna escludere tre facili e contraddittorie versioni dell’ermeneutica, intesa come: "meta-teoria del gioco delle interpretazioni"(p.13), "scoperta del fatto che ci sono diverse prospettive sul mondo, o su l’essere"(p.12), interpretazione tra le altre interpretazioni. Tutte queste tre versioni vanno respinte perché, rispettivamente, esse implicano: un fantomatico sguardo da nessun luogo, tipico dell’illusione metafisica; l’affermazione di un fatto di cui l’ermeneutica sarebbe il rispecchiamento, anch’esso tipica della metafisica e della sua versione corrispondentista della verità; il ridurre l’ermeneutica a mera scelta di gusto, di opzione tra le altre, escludendo ogni sua propositività argomentativa.

Se, quindi, l’ermeneutica non pretende di porsi come tesi vera, nel senso corrispondentista nel termine, non rinuncia però a motivarsi e farsi cogente sul piano dell’argomentazione filosofica. In che modo? "L’ermeneutica, se vuole essere coerente con il proprio rifiuto della metafisica, non può che presentarsi come l’interpretazione filosofica più persuasiva di una situazione, di un’epoca, e dunque, necessariamente, di una provenienza"(p.15). Detto altrimenti: se l’epoca in cui ci troviamo ha determinati caratteri, l’ermeneutica è quello sguardo globale che meglio rende ragione ed esplicazione di quest’epoca come proveniente dal passato. Il valore argomentativo della tesi ermeneutica sta, quindi, nella sua "capacità di dar luogo a un quadro coerente e condivisibile, in attesa che altri propongano un quadro alternativo più accettabile"(p.16). Fa capolino, qui, la parola "coerenza", che fa pensare ad una concezione di verità di matrice coerentista: se così fosse il discorso di Vattimo vacillerebbe; ma, evidentemente, non può essere così: bisogna infatti compiere un passo ulteriore e condursi alla vocazione nichilistica dell’ermeneutica.

Nichilismo va inteso in senso nicciano, come la "svalutazione dei valori supremi e la fabulizzazione del mondo"(p.17); esito impersonato dalla morte di Dio. La storia del nichilismo sarà la storia dell’indebolimento della verità come evidenza perentoria e oggettiva, in contrasto con la categoria metafisica della presenza e dell’atto. Questa è d’altra parte proprio la storia dell’essere, "di un lungo addio, di un indebolimento indeterminabile dell’essere"(p.18). Questa storia è una interpretazione, e lo è pure il nichilismo: la risposta esplicativa migliore a questa storia è l’ermeneutica, e di qui viene la sua vocazione nichilistica. L’unico modo che abbiamo per parlare dell’essere è la sua storia nichilistica di declino e indebolimento: ma questo è possibile perché questa storia è narrata dalla filosofia dell’interpretazione e sarebbe inenarrabile da una metafisica della presenza e della corrispondenza tra fatto e proposizione che la descrive.

3. Scienza

Come corollario applicativo, e di ulteriore conferma, alla concezione programmatica Vattimo procede visitando alcuni luoghi disciplinari. Il primo di questi è la scienza.

L’ermeneutica ha sempre privilegiato le scienze dello spirito a scapito di quelle naturali: non a caso, per Heidegger, il luogo della verità autentica, cioè delle verità come apertura, può essere l’opera d’arte, la fondazione di uno stato o l’interrogazione del pensiero, ma mai l’indagine scientifica, che è semplicemente "l’elaborazione di un dominio di verità già aperto". Di qui la famosa affermazione per cui "la scienza non pensa": affermazione pronunciata da Heidegger ma condivisa da Gadamer e Ricoeur; la scienza non pensa perché in essa non accade la verità originaria. Ma – nota Vattimo – si potrebbe ipotizzare che i paradigmi kuhniani siano strutture assimilabili alle aperture di verità di Heidegger: accettato questo suggestivo parallelismo ne verrebbe che anche la scienza, nella sua fase straordinaria, cioè di transizione da un paradigma all’altro, si costituirebbe come apertura di un nuovo orizzonte-paradigma e quindi come accadere di autentica verità. Affermare che nella scienza la verità autentica non accade sarebbe come dire che la scienza è solo scienza normale, cioè di approfondimento di un singolo paradigma: ma, come ha finemente mostrato Kuhn, la scienza è non solo normale, è anche straordinaria.

Queste considerazioni possono condurre ad una rivalutazione delle scienze della natura come luoghi di verità: ma perché è necessario rivalutarle, al di là del rispetto disciplinare che si dovrebbe sempre tenere? La tesi di Vattimo consiste in questo: la vocazione nichilistica dell’ermeneutica, cioè il suo carattare più autentico, viene in chiaro proprio considerando gli ultimi risultati delle scienze naturali. Di conseguenza la dimenticanza della vocazione nichilistica è strettamente legata all’atteggiamento antiscientista dell’ermeneutica. La scienza, e con essa la tecnica, configurano un mondo "ricondotto a una sistema generale di cause ed effetti, a una immagine della quale il soggetto scientifico dispone tendenzialmente in modo totale"(p.33): ed un mondo ridotto ad immagine – come, del resto, suggerisce lo stesso saggio di Heidegger L’epoca dell’immagine del mondo – è tale perché agisce la trasformazione nichilistica del senso dell’essere, secondo il principio per cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni: se si dimenticano i risultati delle scienza si dimentica la storia dell’essere come storia nichilistica. E’ chiaro, allora, che "la critica che l’eremeneutica può e deve assumere nei confronti del mondo tecnico-scientifico è diretta a far sì che esso riconosca il proprio senso nichilistico e lo assuma come filo conduttore"(p.35), senza, come invece comunemente succede, volere porre limiti al trionfo della scienza e della tecnica in nome della cultura umanistica, ipotetica Lebenswelt che ci salverebbe dall’impero della ragione calcolante.

4. Etica

Ma se la scienza sembra confermare la necessità di un esito nichilistico dell’ermeneutica, una ontologia nichilistica, assunta in etica, sembra portare a conseguenza pericolose. Il pericolo, nota Vattimo, non sta nel nichilismo, ma anzi in ciò che gli si oppone, il pensiero forte.

Una possibile declinazione del nichilismo è quella per cui il mondo è conflitto di interpretazioni: se c’è conflitto viene naturale pensare ad una situazione di violenta barbarie. Ma il conflitto c’è, e con esso la barbarie, solo se le interpretazioni non si riconoscono come tali, se intendono le altre come inganni ed errori: questa situazione è tipica del pensiero forte, fermo nella convinzione della unicità della sua verità. Al nichilismo, quindi, la violenza sarebbe estranea. La violenza piuttosto sarebbe propria della tradizione metafisica forte: "le motivazioni originali - scrive Vattimo – delle rivoluzione heideggeriana contro la metafisica […]hanno un carattere essenzialmente etico piuttosto che teoretico,[…]rifiutano la metafisica – il pensiero dell’essere come presenza e oggettività – in quanto la vedono anzitutto come pensiero violento"(p.38). La critica heideggeriana al pensiero dell’essere come presenza-oggetto sarebbe mossa anzitutto da esigenze etiche: l’essere, allorché si dà come perentoria presenza, fondamento incontrovertibile di fronte a cui si deve tacere, diventa personificazione di una violenza metafisica. Occorre però fare una importante precisazione: "che davvero il pensiero del fondamento – scrive Vattimo – sia pensiero violento non è un dato oggettivo che a sua volta si possa provare in maniera incontrovertibile (contraddicendosi, dunque). E’ ciò che risulta dalla narrazione-interpretazione della storia della metafisica"(p.41).

L’esito nichilistico dell’ermeneutica avrebbe, quindi, tutt’altro che funzione di legittimazione della violenza: ma prima di affrontarne le implicanze etiche, Vattimo si sofferma su tre proposte etiche all’interno del pensiero ermeneutico. Un’etica ermeneutica dovrà, in linea generale, proporsi come "risposta del pensiero al rapporto uomo-essere"(p.42) secondo la situazione storica di riferimento, che attualmente si configura, per la scienza e la tecnica moderne, come epoca dell’immagine del mondo.

La prima teoria etica considerata va sotto il nome di etica della comunicazione; i due autori di riferimento sono Apel e Habermas. Soffermiamoci sul primo il cui discorso riassumiamo così: (i) non è possibile esperienza del mondo se non come uso del linguaggio;(ii)l’uso del linguaggio implica una responsabilità nei confronti dell’interlocutore: per tenere ferma l’esigenza comunicativa devono essere rispettate le regole del gioco linguistico;(iii)dato il nesso tra linguaggio e responsabilità, tramite il principio delle comunità illimitata della comunicazione, cioè il dovere di garantire la possibilità di una comunicazione illimitata, si possono ricavare le norma etiche fondamentali. A fondamento di questa teoria sta la considerazione dell’orizzonte linguistico come trascendentale e la necessità di definire una situazione di totale trasparenza comunicativa; entrambi questi elementi sembrano però estranei all’ermeneutica: il primo per la sua trascendentalità, il secondo perché l’ermeneutica sottolinea proprio l’impossibilità della trasparenza comunicativa. L’etica della comunicazione non sembra, quindi, genuinamente ermeneutica.

La seconda teoria è risultante da una lettura etica delle posizioni di Rorty, il quale sostiene, a differenza di Apel, che ciò che tiene viva la comunicazione è la differenza di paradigmi tra interlocutori: perché la comunicazione continui è necessario che gli interlocutori abbiano da offrirsi nuovi orizzonti e visioni. Applicando queste considerazioni all’etica ne viene che il dovere morale consisterà nell’inventare "nuove tavole di valori, nuovi stili di vita, nuovi sistemi di metafore per parlare del mondo e della propria esperienza"(p.45): "ciò che vale – conclude Vattimo – sembra identificarsi con il nuovo, l’inedito, la proposta geniale"(p.47). Assistiamo qui ad una ripresa della filosofia del genio creatore romantica e ad una esaltazione vitalistica della creazione di nuovi mondi: questi aspetti sono contrari all’ermeneutica se con essa intendiamo "la risposta a un appello che proviene della gettatezza storico-destinale in cui l’esserci è collocato"(p.47); detto altrimenti: non si tratta di creare arbitrariamente nuovi mondi, ma di ‘servire’ attivamente quello in cui siamo gettati. Anche questa tipologia etica, che Vattimo chiama ridescrittiva, si rivela estranea all’ermeneutica.

La terza proposta, di impronta gadameriana, sembra l’unica capace di tenere fermi i propri assunti ermeneutici. La proposta di Gadamer ha due concetti cardine: continuità e dialogo. "Il compito morale è per lui – scrive Vattimo – quello di realizzare qualcosa come l’eticità hegeliana, l’inserimento delle singole esperienze di ciascuno in una continuità di esistenza individuale, che non si regge se non sulla base di una appartenenza a una comunità storica"(.p48). Tra il singolo e la comunità si dà una mediazione interpretativa che non si conclude mai, in riferimento alla mobilitaà sia del singolo che della comunità nel quale è collocato.

E’ proprio a partire dalla tesi di Gadamer che Vattimo intende condurre la propria radicalizzazione nichilistica dell’etica. Bisogna sottolineare che l’ideale della continuità è esso stesso storico: "è qui ed oggi che l’etica si esprime come imperativo della continuità"(p.50). La storia che si deve continuare, a cui si deve cor-rispondere, è la storia del progressivo indebolimento delle strutture forti dell’essere. L’istanza della continuità, unita alla consapevolezza del destino nichilistico dell’essere, si tradurrà eticamente nell’atteggiamento per cui ci si riconosce eredi di una tradizione di indebolimento dell’essere. "Eredi – continua Vattimo – e perciò parenti, figli, fratelli, amici, di coloro dai quali ci provengono gli appelli a cui vogliamo cor-rispondere"(p.52). Di qui si svilupperà "un nuovo senso della responsabilità, come disponibilità e capacità, alla lettera, di rispondere agli altri da cui, in quanto non fondato sulla eterna struttura dell’essere, si sa proveniente"(p.53). Fa così capolino la parola carità che dice della fedeltà alla propria provenienza: ma non sarà questo, daccapo, un concetto metafisico – si chiede lo stesso Vattimo? Sembra invece di ritrovare una parola interna alla stessa tradizione nichilistica che bisogna essere capaci di riscoprire: ma per farlo è necessario far i conti con la tradizione religiosa dell’occidente, che si rivelerà essa stessa nichilistica. Se il nichlismo, poi, ci ha portati alla carità, sembra ormai ben chiaro che nichilismo e violenza non potranno essere posti in equazione, come comunemente si crede.

5. Religione

Il rapporto dell’ermeneutica con la religione sembra, a prima vista, segnato da un paradosso. L’ermeneutica è legata nei suoi inizi all’esegesi biblica e può trovare spazio con il diffondersi del principio luterano della "sola scriptura"; essa all’inizio "si sviluppa su un robusto sfondo razionalistici"(p.54), proprio perché dà luogo soprattutto a interpretazioni razionalistiche, nell’intendo di emancipazione dal dogma. D’altra parte, però, l’ermeneutica nella sua critica della verità come corrisponde colpisce le pretese razionalistiche del positivismo e fornisce così "una rinnovata plausibilità alla religione, o anche al mito"(p.57). Come spiegare che, da un verso, l’ermeneutica si lega al processo di razionalizzazione e secolarizzazione della religione e, per un altro, dà man forte alla religione come fonte conoscitiva, di contro allo scientismo positivista? Questo fatto, in realtà, non presenta contraddizione, se solo pensiamo che la religione in questione è il cristianesimo: secondo Vattimo il cristianesimo esige la sua secolarizzazione, in virtù dei suoi nessi con il nichilismo, il quale poi costituisce l’autentica vocazione dell’ermeneutica.

Per cogliere il nesso tra ontologia nichilista e cristianesimo bisogna soffermarsi sul concetto di kenosis: un Dio si abbassa, si fa uomo, si incarna, e si fa crocifiggere; questa è una narrazione possibile della storia dell’indebolimento dell’essere. Ma non basta: la stessa secolarizzazione è una deriva iscritta del destino della kenosis. Conclude Vattimo: "il nichilismo somiglia troppo alla kenosis perché si possa vedere in questa somiglianza solo una coincidenza, una associazione di idee"(p.65). La kenosis è, dunque, lo stesso indebolimento delle strutture forti dell’essere. E che non si tratti si sola coincidenza risulta dal fatto che la pluralità delle interpretazioni di cui parla l’ermeneutica risulta meglio comprensibile entro il destino del kenosis. Esiste una storia di un Dio incarnato, crocifisso, e di qui secolarizzato, che ha liberato la pluralità dei miti, e tale pluralità ha senso non come strutturale carattere dell’essere, ma come esito di una storia, a cui noi apparteniamo e cui siamo chiamati a cor-rispondere. E’ chiaro, allora, che l’ermeneutica è imprescindibile dal cristianesimo: "essa può essere quello che è – scrive Vattimo – solo in quanto erede del mito cristiano dell’incarnazione di Dio"(p.68).

6. Arte

Ultimo ambito applicativo da trattare è quello estetico. Tra il precedente, quello religioso, e questo corre un legame da non rescindere, tanto che "il significato dell’esperienza estetica, una volta che lo si voglia cogliere nella sua specificità, rimanda ad un ambito che non si lascia definire se non in riferimento all’esperienza religiosa e del mito"(p.82). Questa posizione si colloca in netta antitesi con quella dell’estetica moderna che, detto molto sommariamente, intende l’arte come gioco ed emancipazione dalla solennità veritativa della religione.

Nella vulgata dell’ermeneutica contemporanea l’arte è luogo privilegiato di verità: ma una simile posizione non può che portare ad esiti generici e innocui filosoficamente; si tratta "di assumere posizioni più esplicite e impegnative circa il rapporto che scopriamo tra opera d’arte e il vero che ricerchiamo filosoficamente"(p.77). Questo rapporto può essere reso fecondo se consideriamo l’arte come momento del processo di secolarizzazione, e quindi come esito implicito del cristianesimo. La verità, quindi, che risuonerebbe nell’opera d’arte non è tanto una versione filosofica in prosa di concetti espressi poeticamente, quanto piuttosto "il significato ontologico, per la storia del senso dell’essere, che si può cogliere nel destino dell’arte e della poesia nell’epoca della metafisica". Significato, dovrebbe essere chiaro, che consiste nel nichilismo: arte e religione sono così entrambi momenti che narrano la storia dell’indebolimento delle strutture forti dell’essere.

Che cosa ne verrà per l’estetica quando essa diverrà consapevole del suo destino nichilistico? Di fronte alle trasformazioni della produzione artistica, essa non si limiterà ad invocare un perduto senso del bello, ma si farà più attenta agli aspetti e significati ontologici dell’arte di massa, che ad una considerazione estetica tradizionalistica sembra essere mera degenerazione del bello. La discriminante nel giudizio estetico, il criterio del bello, sarà deciso dalla "maggiore o minore fedeltà al filo conduttore del nichilismo (riduzione delle violenza, indebolimento delle identità forti e aggressive, accettazione dell’altro, fino alla carità)"(p.91). E tutto questo è un esito della secolarizzazione, la quale a sua volta lo è del cristianesimo: e secolarizzazione – precisa Vattimo – "consiste palesemente nel fatto che non più un unico orizzonte condiviso, e dunque che l’esperienza dell’arte come mitologia e religione razionale è essenzialmente un’esperienza plurale". Tenendo conto di questa pluralità, come emerge dall’interpretazione nichilistica dell’arte, si può pensare diversamente la stessa esperienza religiosa, "in termini meno dogmatici e disciplinari, più estetici". Ma, occorre precisarlo ulteriormente, questa pluralità, quale cifra comune dell’ermeneutica, non è affermata astrattamente da un meta-orizzonte speculativo, ma è il destino, la storia dell’essere, o meglio è l’interpretazione risultante, più plausibile e cogente, di un destino dell’essere che accade e in cui siamo gettati.

Marcello Di Bello



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