2. Il fare artistico
Prima di determinare la posizione e il significato del fare
artistico Vattimo analizza il fenomeno del proliferare delle
poetiche nel 900: esse non sono precettistiche stilistiche,
ma hanno piuttosto di mira proprio la determinazione di
quel significato dell’arte che stiamo carcando; le
poetiche del novecento, d'altronde, hanno uno spiccato carattere
ontologico: considerano l’arte come il luogo in cui
la verità è raggiunta o istituita; ed hanno
anche un significato epistemologico: intendono determinare
la condizione disciplinare e le pretese che l’arte
può rivendicare entro lo spazio della cultura e,
più ampiamente, della vita. Perché gli artisti
sentono il bisogno, quasi al punto di soffocare il loro
fare artistico, di munirsi di un apparato epistemologico
che li protegga e li giustifichi? Una prima spiegazione
potrebbe essere che l’artista, mutato il rapporto
con il proprio pubblico nella società industriale
e di massa, e avendo perso un contatto immediato con i committenti,
tenta di recuperare una propria visibilità rivendicando
il diritto alla sua esistenza; una seconda spiegazione potrebbe
essere che l’artista, trovandosi di fronte all’impellenza,
quasi ossessione, di produrre un‘opera originale,
non veda altro mezzo che la fondazione di un linguaggio
completamente nuovo che non si rifaccia a nessuna tradizione
precedente, un linguaggio che per dirsi tale ha bisogno
di un quadro teorico-epistemologico di natura, daccapo,
giustificativa. Vattimo vuole andare al di là di
queste spiegazioni che, a suo parere, non colgono l’aspetto
decisivo e muove da una considerazione elementare: le opere
d’arte contemporanea, per essere fruite, hanno bisogno
di un cappello critico che le introduca e le spieghi: il
linguaggio dell’arte necessita della mediazione del
linguaggio-parola, non è più autosufficiente:
le poetiche aprono proprio quell’ambito di comprensibilità
che dischiude l’intelligibilità del linguaggio
dell’opera d’arte e colma la sua insufficienza
comunicativa. Sorge un’altra domanda: perché
il linguaggio dell’arte deve essere supportato dal
linguaggio-parola? La risposta a questa domanda ci porterebbe
direttamente alla discussione sulla fruizione artistica;
per quel che fin qui interessa occorre notare che l’artista,
nel 900, è portato a farsi epistemologo di se stesso:
il fare artistico sembra così legarsi alla giustificazione
di se stesso.
Veniamo ora alla determinazione più diretta del fare
artistico, il quale ha che fare con la novità, con
il bello, con la verità e con l’essere. La
trama concettuale in cui si iscrivono queste quattro parole
è decisiva. Cominciamo dalla prima. In riferimento
alla teoria della formatività del suo maestro Luigi
Pareyson, Vattimo sostiene che l’opera d’arte
è sì nuova, ma non è un fatto arbitrario:
essa possiede infatti una legalità rigorosa. C’è,
in altri termini, una legge che decide della struttura dell’opera
e che la trascende: tale legge però non può
precedere il farsi dell’opera, pena il venir meno
la novità dell’opera. Ecco che fa la comparsa
la categoria del formare, cioè un fare che nel suo
farsi inventa la regola, la legge, del suo fare. La novità
dell’opera è salvaguardata dal fatto che la
legge è istituita dall’opera stessa; accanto
a questa novità, che quindi ben lungi dall’arbitrarietà,
sta la legalità dell’opera, carattere indispensabile
per dare senso al giudizio estetico e alla categoria del
bello.
L’opera sarà, infatti, giudicata proprio in
riferimento alla legge che porta con sé: se è
ciò che la sua legge impone che sia, essa sarà
giudicata bella. La bellezza è quindi la riuscita,
la conformità dell’opera alla legge.
I concetti di novità come istituzione di una nuova
legge e di bellezza come riuscita, rinviano entrambi al
radicamento ontologico dell’opera d’arte. L’opera
d’arte, in quanto istituente una nuove legge, sarà
atto fondativo di un mondo, sempre da intercedersi, non
come totalità del dato, ma come orizzonte di senso
entro cui gli enti sono ordinati ed hanno significato: ed
è proprio la legge istituita a garantire la legalità
del nuovo mondo. La novità dell’opera diventa
così l’originarietà di un nuovo mondo,
che non ha nulla alle sue spalle perché è
a partire da esso che si costituiscono tutte le relazioni,
a cominciare da quelle linguistiche tra segno e significato.
Se la legge è la struttura di legalità del
nuovo mondo, l’opera d’arte che è conforme
alla legge, rappresenta il primo ente di questo mondo: la
relazione di conformità e di bellezza non è
di esaurimento, ma di avvio di una generazione di enti che
prenderanno senso del mondo appena istituito.
Quanto alla relazione tra opera e verità, con Heidegger
Vattimo propone che l’opera d’arte sia la messa
in opera della verità, ma non nel senso che essa
manifesti o rispecchi la verità: se così fosse
continueremmo ad “assumere la verità come conformità
ad un dato che può garantire la validità della
conoscenza e delle manifestazioni della verità proprio
in quanto è dato una volta per tutte, stabilito,
sottratto all’eventualita”(p.123). La verità
va pensata, invece, come evento: “è l’aprirsi
degli orizzonti storici entro cui gli enti vengono all’essere”;
essa non è nulla al di fuori del suo accadere come
prospettiva di mondo. Per cui l’opera d’arte
mette in opera la verità, in quanto è nel
mondo da essa fondato che la verità si mostra: il
rapporto tra opera e verità non è quindi estrinseco,
perché la verità non è se non il suo
accadere secondo prospettive di mondo aperte.
La verità potrebbe sembrare, in questa prospettiva,
la semplice formalità legislativa e di mondo istituita
dall’opera e la fedeltà ad essa: non bisogna
però dimenticare il radicamento ontologico dell’opera
d’arte, collocata, secondo una metafora heideggeriana,
nel Riss(scissura) tra Welt(mondo) e Erde(terra). Il mondo
è il sistema di orizzonte degli enti; la terra è
“la riserva permenente di questi significati, la base
ontologica del fatto che l’opera non si lascia esaurire
da nessuna informazione”. (p.124). L’opera d’arte
istituisce un mondo e, come tale, dà inizio alla
storia delle sue inesauribili interpretazioni, delle sue
abitazioni, secondo un senso che sarò chiarito tra
poco: per rendere ragione di questa inesauribilità
dobbiamo ammettendo che il mondo dell’opera si radichi
nella terra, in uno sfondo ontologico che lo precede; ci
si potrebbe a questo punto domandare: che cos’è
questo sfondo ontologico, questa terra, se non quell’essere
già dato, già posto, della vecchia tradizione
metafisica? In realtà quello sfondo ontologico è
“una riserva di significati”, la pura possibilità
del loro essere esibiti in un mondo: in quello sfondo ontologico
le cose non stanno, se non nella loro disposizionalità
ad esser nel mondo, unico luogo in cui propriamente stanno.
L’essere, conviene ribadirlo, non è la presenza
posizionale del dato, visibile da diversi mondi-orizzonti,
ma è solo i suoi mondi, orizzonti di illuminazione
entro i quali gli enti ricevono l’essere; l’apertura
di una nuova prospettiva di mondo, evento in cui consiste
il fare artistico, non è un evento ontico, cioè
di riprospettazione degli enti entro lo stesso mondo, ma
è un evento dell’essere, segna una nuova epoca
dell’essere.
3.La critica d’arte
La critica si è sempre mossa nella fedeltà
alla categoria dell’Aufhebung, cioè della spiegazione-riduzione
dell’opera d’arte a qualcosa che la preceda
o la fondi: si può ridurre l’opera alla situazione
storico-economico-sociale in cui si colloca, alla situazione
psicologica dell’artista, oppure si può leggerla
badando esclusivamente alle sue strutture stilistiche. In
entrambi i casi, e per la critica che riduce l’opera
a uno sfondo che la precede e per quella stilistica, l’opera
è un punto di arrivo, una conclusione individuante
di fatti economici, psicologici, storici o tecnico-linguistici.
L’opera è così sistemata, demitizzata,
razionalizzata, è ridotta ad un evento del passato:
sia questo passato la situazione storica o l’orizzonto
tecnico formale che l’opera si impegna ad esprimere
al massimo grado.
Vattimo cerca invece un approccio all’oggetto, in
questo caso all’opera d’arte, che non lo riduca
ad un orizzonte più ampio, e così facendo,
lo distrugga. E’ posto così il problema di
un’ermeneutica che si metta a disposizione del suo
oggetto, che lo lasci essere. Va ribaltato, secondo Vattimo
e sulla scia di Heidegger, il rapporto tra opera e lettore
di essa: il lettore deve stare dentro l’opera, deve
provare ad abitarvi, e non viceversa l’opera abitare
nella coscienza fruente del lettore. Proprio perché
l’opera è istituente un mondo, in tale nuovo
mondo il lettore deve provare a vivere. Esempi di questo
vivere ed abitare del lettore e della critica nell’opera
possiamo ritrovarli nell’atteggiamento della cultura
occidentale nei confronti della Bibbia, tanto che “la
storia dell’Occidente – scrive Vattimo - è
la storia delle interpretazioni della Bibbia”(p110).
E interpretare un’opera significa approfondire le
direzioni di significato che il mondo che essa istituisce
ci offre: essa crea il mondo, noi, suoi interpreti, dobbiamo
viverlo, costruirlo, svilupparlo, prendercene cura, abitarlo
appunto. L’opera, quindi, più che costituire
un punto di arrivo, è un punto di partenza per nuove
costruzioni-abitazioni: è rivolta al futuro nei suoi
sviluppi, e segna, in quanto atto istitutivo di mondo, l’escaton,
l’orizzonte confinale, di questi sviluppi. Solo tenendo
conto di questo una ermeneutica non riduzionistica può
lasciar essere l’opera.
A questo punto Vattimo si trova a dover affrontare una delicata
difficoltà: come può l’opera essere
intesa quale fondazione di un mondo e come si può
pretendere che il compito del critico sia dar voce alla
necessità del suo abitarlo? Non è questo statuto
dell’opera una mitizzazione dell’opera? Certo,
non tutte quelle che consideriamo opere d’arte posso
essere aperture di nuovi mondi, ma ciò non toglie
che la peculiarità dell’opera d’arte
sia proprio questo istituire nuovi mondi: come a dire che
l’istituire nuovi mondi è un carattere regolativo
di ogni opera d’arte, anche se non tutte riescono
a realizzarlo.
4.La fruzione artistica
Nella storia dell’estetica l’incontro con l’opera
d’arte è definito in due modi: contenutistico
o formalistico. Tale opzione sottende altrettanti modi di
intendere la verità: quello corrispondentista del
vero come conformità al dato, e quello coerentista
del vero come correttezza sintattica. L’arte, nella
tesi contenutistica, manifesterà il vero e l’incontro
con l’opera sarà proprio questa manifestazione;nella
tesi formalistica, l’opera si imporrà nella
sua coerenza di struttura sintattica. In entrambi casi si
pongono alcuni problemi problemi: per la tesi contenutistica
l’opera è un tramite di verità e, concluso
il suo compito di metterci in contatto con la verità,
diviene inessenziale, laddove l’arte, per evidenza,
si impone sempre come sporgente su quella verità
che comunica; per la tesi formalistica la fruizione si risolverebbe
nella comprensione dei meccanismi sintattico-formali che
sottendono al dispiegarsi dell’opera: eppure, anche
qui, la comprensione dei meccanicismi non fa cessare il
nostro interesse per l’opera, il che sta ad indicare
che essa non è solo i suoi meccanismi. Si deve quindi
evitare, da un lato, di rendere estrinseco il rapporto opera
e verità e, dall’altro, di ridurre l’opera
alla pura fedeltà formale a se stessa.
Se la concezione di verità non è più
quella di rispecchiamento, ma di accadimento di mondi, secondo
quanto sopra detto, l’opera d’arte, proprio
in quanto apertura di un nuovo mondo, intrattiene con la
verità un rapporto non estrinseco: solo nel mondo
dell’opera la verità si mostra ed è
possibile, e non fuori ed indipendentemente da esso. D’altra
parte la verità dell’opera non può essere
la fedeltà alla struttura legalistica del mondo istituito:
il legame con l’essere, con la terra, non deve essere
dimenticato; l’opera d’arte è il punto
di partenza per infinite interpretazioni, per infinite visioni
del suo mondo perché è in contatto con la
riserva di possibilità significative in cui l’essere,
nella sua forza originante, consiste.
Fruire un’opera d’arte significherà,
quindi, vivere nella sua luce, “riorganizzare la propria
esistenza e la propria visione del mondo in base all’apertura
dell’essere che nell’opera è accaduta”(p.127);
in una parola: dialogare con essa. L’opera stimola
e suggerisce percorsi di approfondimento del suo mondo e
diventa così una entità dotata di personalità
e di capacità di mondo, mostrando singolari parallelismo
con il dasein.
E’ così anche chiarita la domanda lasciata
in sospeso sul perché le opere hanno bisogno di un
linguaggio-parola che fondi il loro linguaggio: ne hanno
bisogno non in quanto quest’ultimo vada ricondotto
ad un altro linguaggio, ma in quanto istituiscono un nuovo
mondo, un nuovo plesso di significati e suscitano attorno
a sé un dibattito. Il proliferare delle poetiche
nel 900’ è il segno di questo dibattito e della
implicita consapevolezza del carattere fondante di mondi
dell’opera d’arte.
5.Poesia e ontologia
Siamo così finalmente giunti al capo di tutte le
questioni: che cosa hanno che fare poesia e ontologia? Per
porre ontologicamente il problema dell’arte e della
poesia, sostiene Vattimo, bisogna “sviluppare un discorso
che non dimentichi quella che Heidegger ha chiamato la differenza
ontologica, ma anzi assuma tale differenza a proprio tema
centrale” (p.9). Differenza ontologica è il
rapporto che separa l’essere e gli enti: Vattimo individua
due caratteri di tale differenza, l’uno negativo e
l’altro positivo, sintetizzabili così: l’essere
non è l’ente e l’essere è solo
l’essere dell’ente.
L’essere non è l’ente, perché
fornendo l’orizzonte entro cui gli enti vengono ad
essere, si dà e si cela ad un tempo: è questa
l’epocalità dell’essere, il suo sospendersi
per lasciar essere gli enti. L’essere, ciò
per cui gli enti sono, non va mai confuso con gli enti stessi,
la loro somma o il massimo ente tra di essi. Tale carattere
negativo del rapporto essere-ente fa sì che qualsiasi
indagine determinata sulla struttura degli enti non possa
dire nulla dell’essere. Ma esiste anche un lato positivo
del rapporto: il celarsi o sospendersi dell’essere
“non è certo concepibile come un essere-presente
in qualche luogo che non sia il mondo dell’ente, come
se davvero l’essere fosse qualcosa o qualcuno che
c’è, in qualche luogo, ma che si nasconde”(p.21);
possiamo quindi affermare che l’essere è la
sua epochè, è “l’illuminazione
dell’ambito entro cui gli enti appaiono”(p.23):
la forza illuminante dell’essere è solo nel
mondo degli enti, l’essere è solo essere dell’ente.
Dall’accentuazione dell’aspetto positivo della
differenza ontologica possono venire, secondo Vattimo, numerose
indicazioni per caratterizzare una estetica come ontologica.
Se l’essere non è “una struttura tutta
realizzata, facente da supporto, da sostanza, agli enti”(p.22),
la ricerca filosofica dell’essere consisterà
nell’individuazione “dei modi di accadere attualmente
degli enti nell’orizzonte dell’essere”.
E analogamente la ricerca estetica consisterà nel
descrivere i modi di accadere attuali del fenomeno estetico.
L’estetica ontologica non sarà quindi una posizione
che si sostituisce a quelle delle estetiche della tradizione
filosofica, e neppure che tenta, hegelianamente, di dialettizzarle
nel tutto dello sviluppo storico. Non si tratta di accedere
all’essenza del fenomeno artistico ed estetico al
di là dei suoi modi concreti di accadere e neppure
di cogliere olisticamente la totalità di questi modi
di accadere. L’essenza che l’estetica di Vattimo
cerca ha carattere eventuale, nel senso di una perenne rideterminazione
della sua struttura: è sufficiente descrivere tutto
ciò che ha che fare con l’arte, teorizzazioni
estetiche, ma anche poetiche, manifesti, singole riflessioni
su singole opere, come rappresentativo dell’essenza
dell’arte, nella consapevolezza che essa non è
nulla al di fuori delle sue incarnazioni accadute. In questo
senso si può fare estetica non solo in sede di riflessione
filosofica, ma anche in altri ambiti, poiché tutti
illuminano l’essenza dell’arte: pretendere che
l’estetica sia solo filosofica è pretendere
che l’essere e il sapere abbiano una struttura gerarchizzata,
definitiva, sistematica; l’essere è invece
stratificazione di esperienze e di modi, tra i quali sta
anche,,ma tra gli altri, la riflessione filosofica estetica.
Fin qui si è fatta valere l’esigenza di considerare
l’arte come evento la cui a essenza non è restituita
da una singola posizione, ma da ogni posizione, filosofica
e non. Questa esigenza deve però accompagnarsi alla
consapevolezza dell’apertura all’essere di ogni
riflessione estetica: si tratta di mostrare che a tutti
i livelli della descrizione l’essere si fa presente,
e questo è il carattere eventuale ed epocale dell’essere.
6.
Non possiamo trattenerci, in sede critica e conclusiva,
dal sottoporre alcune perplessità in merito alle
tesi del libro. La prima riguarda il rapporto tra poetiche
e opere d’arte: il proliferare delle poetiche nel
900, si è detto, è il segno del dibattito,
del dialogo che sorge intorno all’opera, proprio in
quanto istitutiva di un nuovo mondo; a noi sembra, invece,
che il fenomeno delle poetiche fondi e disponga le circostanze
nel contesto del “vecchio mondo” per creare
il nuovo mondo che l’opera inaugurerà: il fenomeno
delle poetiche non sarebbe tanto un modo dell’abitare
e del dialogare con l’opera, ma ciò che rende
possibile, oltre il mondo dell’opera, la fondazione
del suo mondo. Se così è, il linguaggio-parola
assume un carattere super-eventuale, sottratto alla relatività
dell’ambito di mondo e diventa ciò che domina
la pluralità dei mondi e li mette in comunicazione:
una conclusione simile che assegna al linguaggio un valore
trascendentale e meta-mondano, peraltro, non dispiacerebbe
allo stesso Vattimo; si tratta di capire in che termini,
però, giacché se l’essere-liguaggio
è dimensione trascendentale, dovrà essere
semantizzato in termini di struttura permanente, immutabile,
il che è ben lontano dagli intenti di Vattimo. La
seconda perplessità riguarda l’apparente contraddizione
tra la risposta data al filosofo e quelle date all’artista,
al critico e al fruitore: al primo si risponde che ogni
fenomeno o posizione artistica è rivelativa dell’essenza
cercata, in quanto eventuale e non permanente; ai secondi
si risponde determinando l’essenza permanente dell’opera
d’arte e del rapporto con essa: dobbiamo forse ritenere
che le risposte date ad artisti, critici e fruitori, proprio
in quanto date a non-filosofi, si siano limitate a determinare
provvisoriamente l’essenza permanente del fenomeno,
salvo poi precisare, filosoficamente, che una essenza tradizionalmente
intesa non può esserci? Questo significherebbe, allora,
che solo al filosofo può essere consegnata una essenza
nel suo carattere autentico, cioè eventuale, mentre
con i non-filosofi si deve procedere nel modo tradizionale
di determinazione dell’essenza: ma questo non significa
una gerarchizzazione del sapere, un imperialismo della filosofia
come sapere universalmente fondante, tutti caratteri che
si volevano eliminare?
La terza perplessità è stata già formulata
in termini di mitologizzazione dell’opera d’arte.
Vattimo, per rispondere a questa obiezione, sostiene che
poche opere d’arte possono essere considerate come
fondatrici di mondo, e tra queste ritroviamo, ad esempio,
la Bibbia o la Commedia di Dante. Ma nemmeno queste possono
essere considerate fondatrici di mondo: se proviamo ad abitare
il mondo della Commedia ci rendiamo subito conto di essere
circondati da un tessuto simbolico che non possiamo capire,
vivere, utilizzare, se non in riferimento a qualcosa di
esterno al mondo dell’opera, cioè il contesto
storico. Vattimo ci taccerebbe di sociologismo spicciolo,
ma si tratta allora di capire in che termini un’opera
è abitabile e se essa può costituirsi anche
come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario
a qualsiasi tentativo di ermeneutica: non è un fatto
secondario che un’opera sia più abitabile in
un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare
che il mondo di ogni opera sia inscritto sempre in un mondo
più ampio secondo una geometria concentrica di mondi.
Tuttavia, la definizione dell’opera come fondazione
di mondo ci sembra calzante, in via del tutto eccezionale,
a proposito di opere collettive, vere “enciclopedie
tribali”, come i poemi omerici o la Bibbia: in questo
caso l’opera rappresenta la genesi culturale di una
civiltà e di un popolo, la struttura del suo ethos.
L’ultima perplessità riguarda la semantizzazione
dell’essere che Vattimo propone. Per un verso sembra
che l’essere sia solo il suo eventualizzarsi, ma per
l’altro l’essere è identificato con quella
riserva di significati, con la forza originante della terra.
Se nel primo caso è fatta valere l’esigenza
di distaccarsi dalla tradizione metafisica che intende l’essere
come presenza data, nel secondo caso sembra che non ci si
possa staccare da questa prospettiva presenziale, tanto
che per rendere ragione del divenire delle interpretazioni
entro il mondo, si deve postulare una possibilità
permenante di significati oltre l’accadere dell’evento
e del mondo: certo questo “oltre” non ha i caratteri
della attualità presenziale, ma quelli della possibilità
presenziale, il che non toglie che sia necessario ammettere
un già-dato,un già-posto, pur nella sua accezione
di posizione di possibilità.
Marcello Di Bello