GIANNI VATTIMO
A cura di Diego Fusaro
"Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non è la sola "lingua", ma è appunto un dialetto fra altri. Se professo il mio sistema di valori - religiosi, estetici, politici, etnici - in questo mondo di culture plurali, avrò anche un'acuta coscienza della storicità, contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mio". ("La società trasparente").
DOPO LA CRISTIANITA'
Attraverso la morte di Dio e la secolarizzazione del sacro si è aperto lo spazio per una nuova vitalità della religione, prospettiva che Vattimo affronta in una serie di saggi, nonché nelle Lezioni newyorkesi, ciclo di conferenze sulla religione nell'epoca post-moderna tenute dall'Autore all'Università di New York.
L'introduzione, che ripropone il titolo di un precedente lavoro dell'Autore (Credere di credere, Garzanti, Milano 1996), presenta la forma che il cristianesimo assume nell'epoca del post-moderno nei termini di un "credere di credere", laddove il primo "credere" ha il significato di "opinare", "pensare con un certo margine di incertezza", mentre il secondo termine sta per "convinzione", "certezza di qualcosa", aver fede nel senso forte del termine. E' attraverso Nietzsche ed Heidegger e la loro critica al fondamento ultimo – il rifiuto della metafisica caratterizza gli inizi del XX secolo – che, paradossalmente, si approda a questo nuovo senso del cristianesimo. La società si ribella all'"organizzazione totale" impostale dalla razionalizzazione del lavoro e dalla tecnologia, mentre lo sviluppo delle scienze storiche e dell'antropologia culturale determinano la crisi dell'eurocentrismo e la maturazione di una coscienza pluralista, la quale non può essere ingabbiata all'interno di un unico e per di più antidemocratico criterio di verità. Nella coscienza della contingenza e della storicità del nostro essere, sul quale si incentra il messaggio di salvezza della Sacra Scrittura, il consenso può essere raggiunto solo attraverso il dialogo, indispensabile di fronte ad un annuncio della salvezza, affidato alla continua reinterpretazione della Chiesa. In Dio non si può credere più nel senso forte del termine: si tratta di un Dio del quale si è "sentito parlare".
Nella prima delle Lezioni newyorkesi (pp. 15-28) l'Autore approfondisce il tema nietzscheano della "morte di Dio", nella convinzione che tale annuncio non significhi affatto la fine di ogni discorso sul religioso, ma abbia, al contrario, aperto la strada per una nuova vitalità religiosa vissuta all'interno di quella che l'Autore definisce la "Babele del pluralismo tardo moderno". Quest'ultimo cancella la possibilità di distinguere il linguaggio metaforico dal linguaggio proprio, il quale nasce dall'ineguale distribuzione del potere sociale. A tale liberazione della metafora Vattimo collega il ritorno della religione. Nel passaggio dall'essere come struttura all'heideggeriano essere come evento l'Autore individua, in questa "vocazione all'indebolimento", la condizione imprescindibile per la rinascita del sacro nel suo intimo spirito, proprio perché tale indebolimento – che si attua come secolarizzazione del sacro stesso – è paradossalmente il nerbo della storia della salvezza.
Il legame tra l'indebolimento dell'essere e la secolarizzazione del sacro viene analizzato nella seconda delle Lezioni newyorkesi (pp. 29-43). La morte di Dio è per Vattimo effetto della "religiosità": come Nietzsche egli è convinto che sono stati i fedeli stessi ad aver ucciso Dio. Tale concezione della secolarizzazione trova voce nella profezia di Gioacchino da Fiore e dei suoi discepoli spirituali quali Novalis, Schelling e Schleiermacher. Laddove la teologia contemporanea vede nella secolarizzazione, nella scomparsa di Dio dal mondo, la prova della totale alterità di Dio – che viene così a configurarsi come il vecchio Dio della metafisica – per l'abate calabrese Dio si è fatto uomo, rivelando la sua parentela con il finito e attuando la crisi e la dissoluzione della sua trascendenza. Non si è più di fronte al "Dio tappabuchi" di Bonhoffer che si staglia contro la finitezza dell'uomo, ma nell'ascolto della profezia di un'età in cui saremo amici di Dio. Con Gioacchino, per Vattimo, la Rivelazione non è qualcosa di definitivo e, dunque, di metafisico, ma la storia della salvezza è in corso. Ciò significa coinvolgere la storia del mondo, rispondendo così a quella esigenza ecumenica che caratterizza la pluralista epoca post-moderna.
Come per Gioacchino anche per l'Autore la storia della salvezza passa attraverso la storia mondana, non, però, quella propugnata dall'egemonia storicista, madre dei regimi illiberali: il regno dello Spirito, per Gioacchino come per l'Autore, si realizza come "alleggerimento" e "poetizzazione" del reale, nei termini in cui Vattimo li analizza all'interno della terza lezione newyorkese (pp. 45-59). La storia del mondo va vissuta esteticamente perché essa ha perso i rigidi contorni metafisici. Questa "fruizione estetica dei significati" raccoglie il senso dell'interpretazione spirituale che l'abate calabrese applica alla Bibbia e che Vattimo estende al processo di indebolimento del senso del reale. L'Autore chiarisce ulteriormente la sua concezione della secolarizzazione nei termine di questa spiritualizzazione e, sulla scia di Weber, mostra la continuità tra storia sacra e storia profana: senza la carità non sarebbero spiegabili la democrazia, il ripudio della guerra, la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, l'ecumenismo stesso non può fare a meno di questo approccio interiore.
Con la dissoluzione di ogni metafisica si fa avanti l'idea di una "produttività" ermeneutica (pp. 63-73), laddove ciò che si cerca non è più l'unica interpretazione valida, ma una "continuità di discorso" e un "ascolto della voce della comunità": l'interpretazione, come la salvezza, hanno una storia. Questa idea di ontologia ermeneutica, che Vattimo interpreta come una ripresa del sogno di Gioacchino da Fiore, rimanda al secondo Heidegger, ma ancor più, e proprio attraverso quest'ultimo – per quanto fin qui analizzato – al messaggio biblico. Nonostante la venuta di Cristo sia fatto ermeneutico per eccellenza, egli dopo la sua resurrezione ha lasciato un compito ermeneutico infinito, il cui argine è solo l'amore inteso come possibilità di comunicare all'interno di una "comunità di interpreti".
Il secondo saggio (pp. 75-88), che compare nella seconda parte del testo, affronta il problema del rapporto tra cristianità ed "Occidente" nei termini in cui esso viene interpretato o come aut aut o come sive. La prima interpretazione viene ricondotta dall'Autore a due diverse teorie: quella dell'integralismo cattolico e quella dell'autonomia radicale della modernità rispetto alla tradizione cristiana. Nel primo caso, l'"Occidente", sebbene in precedenza alleato contro la minaccia comunista, è stato rifiutato come sinonimo di consumismo, edonismo, pluralismo babelico. Nel secondo caso è Blumenberg a sostituire all'uomo tolemaico, la cui posizione si sosteneva sulla potenza del Creatore, l'uomo copernicano che ha perso ogni riferimento ad un centro ed è passato all'organizzazione del reale privo del sostegno di qualsiasi autorità. Il programma dell'integralismo cattolico si rivela reazionario ed inattuabile perché richiederebbe un'uscita dalla modernità per mezzo di una moralità precedente e ciò, nella sua impossibilità, spesso porta ad ignobili compromessi, come accaduto nelle recenti vicende della politica italiana. La tesi di Blumenberg ripone, invece, un'eccessiva fiducia nella creatività, nella libertà dell'uomo e nella sua possibilità di creare un nuovo assoluto e ciò sa molto di mito moderno. Contro queste due posizioni che separano irrimediabilmente mondo moderno e cristianità, Vattimo prospetta la concezione del sive: "Occidente" e cristianità si appartengono reciprocamente. E' questa l'idea della circolarità ermeneutica in cui si trova collocata ogni esistenza: è l'ermeneutica a mostrare l'inadeguatezza dell'aut aut e a portare sulla löwitiana strada della secolarizzazione, la quale, anziché annullare, conserva gli elementi costitutivi tanto dell'Occidente quanto della modernità. Sulla scia di Weber e di Novalis, Vattimo evidenzia la continuità fra i due momenti: le vicende politiche della lotta contro il comunismo e la spinta verso l'Europa unita esigono il formarsi di una coscienza e di un'identità culturale che trova le sue radici nelle comuni origini cristiane. Lo stesso consumismo, inteso come voglia di nuovo, deriva per Vattimo, con Cambpell, dalla secolarizzazione dell'al di là religioso, in forme di mondi diversi, anche se non più ultraterreni. L'"Occidente" rappresenta oggi l'inveramento del cristianesimo.
Nel saggio intitolato Morte o trasfigurazione della religione (pp. 89-97) Vattimo approfondisce il tema del ritorno della religione nell'epoca post-moderna, erroneamente considerata post-religiosa, affiancandolo a quella della crisi delle ragioni filosofiche dell'ateismo. La rinascita della religione nella cultura comune si verifica intorno a problemi legati all'ecologia, alla bioetica, rispetto ai quali il pensiero dogmatico della Chiesa sembra l'unico in grado di fornire criteri stabili. Significativo è anche il ruolo svolto dal pontefice nei confronti della caduta del comunismo dell'Est asiatico; per non parlare, poi, del bisogno d'identità che attraverso il recupero dei fondamenti religiosi sfocia spesso nei fondamentalismi e nel fanatismo. La filosofia, dal canto suo, vive, con il tramonto dei metaracconti delle filosofie sistematiche, la caduta delle ragioni forti per un ateismo filosofico. L'incontro fra queste due realtà avviene spesso per mezzo della cosiddetta "cultura di destra" dei paesi occidentali: si assiste al rifiuto dell'eredità culturale della modernità e all'alleanza con il fondamentalismo ed il comunitarismo. Ma è necessario, per Vattimo, assumere una posizione fortemente critica nei confronti di queste ideologie liberticide ed irrazionalistiche.
In seguito alla crisi dell'eurocentrismo e dei metaracconti il rischio è, dunque, quello dell'intolleranza e dell'illibertà: se il cristianesimo vuole sottrarsi a tali esiti perversi della secolarizzazione è necessario che esso entri nella Babele del pluralismo post-moderno come portatore dell'idea di laicità. Vattimo affronta (pp. 99-108) il problema del rapporto tra religione e politica e tra religione e cultura. Nel primo caso egli evidenzia l'ingannevole pretesa del liberalismo di isolare il cristianesimo dalla vita politica relegandolo nell'ambito del privato – e se ciò in qualche modo è riuscito è proprio sulla base di una comune, sebbene non riconosciuta, appartenenza religiosa. Per quel che riguarda il rapporto tra religione e cultura, Vattimo evidenzia come, da elemento civilizzante e pacificante quale si presentava all'interno del colonialismo e dell'imperialismo, il cristianesimo viene oggi vissuto come uno dei termini in conflitto, con la minaccia costante di cadere nel fanatismo. L'unica alternativa possibile è quella di "viversi in uno spirito debole", attraverso la carità, ritrovando la propria "vocazione laica" in modo da proporre spazi di libera discussione e di dialogo interreligioso ed interculturale. Laddove il cristianesimo resti legato alla tradizione metafisica – alleanza questa che nasce soprattutto a partire dalla responsabilità della Chiesa quale unico potere dopo la dissoluzione dell'Impero romano – esso si pone addirittura come violento (pp. 119-127). L'etica naturalistica, in quanto pretesa di possedere i principi primi rende necessario l'uso della forza – ciò corrisponde alle analisi di Girard sul sacro naturale come violenza – in difesa di queste stesse verità indubitabili, al punto che il giusnaturalismo diventa una forma di legittimazione dell'"uso ragionevole" della forza.
L'Autore passa ad analizzare (pp. 109-118) il rapporto tra l'idea metafisica di verità – che deriva dalla linea classica del cristianesimo: "ego sum via, veritas, vita" - e la verità come interiorità – è il paradosso di Dostoevskij della scelta di Cristo anche contro la verità. Vattimo, attraverso Dilthey, dimostra come sia stato proprio il cristianesimo a sostituire al pensiero – che coglie oggettivamente l'essere, basti pensare a Platone – l'interiorità e la volontà, mettendo così in crisi il pensiero metafisico. Ed ecco che allora il cristianesimo viene riconosciuto come il principale fautore della crisi del fondamento, sulla cui scia si porranno Nietzsche ed Heidegger. Non più "amicus Plato sed magis amica veritas", ma il ricorso all'amicizia e, dunque, al dialogo di fronte ad una verità che è diventata caritas e ad un essere che è Ereignis. Ed al rapporto tra la filosofia heideggeriana e cristianesimo è dedicato l'ultimo saggio (pp. 129-142), nel quale Vattimo individua all'interno dell'esperienza religiosa cristiana, vissuta come evento, il modello della temporalità autentica. La parusía, di cui Paolo parla, e vissuta con la tensione escatologica tra il "già" e il "non ancora" che spezzano la temporalità storicistica denunciata da Heidegger in quanto responsabile di ridurre eventi e cose al rango di oggetti – stessa accusa rivolta alla metafisica. L'esistenza del Dasein, come quella del cristiano paolino, sono caratterizzate dalla thlípsis per la mancanza di certezze oggettive ed, in ultima istanza, per la rinuncia al senso. L'os mé paolino e assai vicino alla deiezione di Heidegger al punto da poter ritenere che l'ontologia di quest'ultimo abbia le sue fonti proprio nel messaggio evangelico delle origini – ben distinto da quel pensiero rappresentativo che si è sviluppato con l'oblio dell'attesa escatologica e che Heidegger stesso definisce storia dell'Anticristo. A buon diritto l'Autore può, dunque, ipotizzare una forte connessione tra questo oblio dell'escatologia e l'oblio dell'essere, nel loro comune atteggiamento metafisico ed oggettivante.
Attraverso un costante richiamo ad Heidegger e Nietzsche l'Autore delinea i tratti della religione post-moderna, la quale può essere vissuta solo nei termini di una fede senza dogmi, senza contenuti, senza senso, condizioni imprescindibili per aprirsi al nuovo senso ecumenico e pluralista che caratterizza la nostra epoca. Si tratta di accogliere l'autentico messaggio cristiano dell'incarnazione come kénosis, "umiliazione", "indebolimento" di Dio. Il fatto, poi, che la filosofia sia arrivata a concepire l'essere come evento "è un segno che nella filosofia vive ancora l'eredità del messaggio ebraico cristiano".
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