GIANNI VATTIMO

A cura di Gianni Commessati


"'Veritatem facientes in caritate', il motto paolino che peraltro echeggia, e forse non tanto da lontano, lo 'aletheuein' dell'aristotelica 'Etica nicomachea', significa, tradotto nei termini della filosofia di oggi, che la verità nasce nell'accordo e dall'accordo, e non, viceversa, che ci si mette d'accordo quando tutti abbiamo scoperto la stessa oggettiva verità " ("Nichilismo ed emancipazione", p. 6)

NICHILISMO ED EMANCIPAZIONE

"Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto" (2003) è una raccolta di quattordici saggi, tratti da conferenze e da precedenti pubblicazioni di Vattimo, che affrontano il tema dell’emancipazione umana dal punto di vista del paradigma ermeneutico. Pertanto, se “nichilismo” è sinonimo di “ermeneutica”, così come l’Autore lascia intendere sin dall’introduzione, ciò che questo testo si prefigge è di presentare il ruolo stesso della filosofia ermeneutica nei confronti di quell’emancipazione umana che si vorrebbe perseguire nei tre campi dell’etica, della politica e del diritto. L’insegnamento di Nietzsche e Heidegger viene rielaborato da Vattimo allo scopo di una definizione della disciplina ermeneutica che si configuri come qualcosa di costruttivo all’interno di quella condizione umana, sociale e filosofica denominata “post-modernità”. Qui, infatti, dove ogni fondazionalismo sembra essere soppiantato dalla tragica situazione dell’annuncio della “morte di Dio”, il pericolo di un nuovo irrigidimento metafisico (cioè la credenza di aver raggiunto una nuova verità) è in conflitto con gli intenti più profondi dell’ermeneutica, ovvero la pluralità delle interpretazioni e il rispetto della libertà di ciascuno. Compito del filosofo sarà allora di far valere le ragioni dell’ermeneutica su quelle del “nichilismo negativo”, che si ostina a propugnare l’idea di un fondamento (una verità, un valore, un’idea) naturale: “[…] già tentare di modellare leggi, costituzioni, provvedimenti politici ordinari, sull’idea di una progressiva liberazione di norme e regole da ogni preteso limite “naturale” (e cioè ovvio solo per chi detiene il potere) può diventare un progetto politico positivo.” (p. 8). Il filo conduttore che caratterizza ognuno dei quattordici saggi è, allora, la ricerca di una condizione di equilibrio della proposta ermeneutica: da un lato, infatti, tale pensiero deve tenere ben presente la fine dei fondamenti ultimi che hanno guidato la filosofia in tutta la sua storia; dall’altro, deve essere in grado di proporre se stesso in una maniera diversa, non come verità ultima, ma come una della interpretazioni possibili della modernità e della post-modernità che renda conto di una prospettiva di emancipazione umana. Ovviamente, articolato in questi termini, il compito si fa arduo: come si può parlare di etica, di politica e di diritto se non si ha dinanzi a sé un principio regolatore o fondativo che indirizzi la riflessione? Il pensiero dell’Autore, forte di una teoresi che nel corso degli anni ha raccolto molti consensi da più parti della comunità filosofica, si dispiega nei tre campi suddetti con notevole lucidità critica, non abbandonando mai quel sostegno concettuale che dell’ermeneutica ha fatto una disciplina in grado di comprendere e sviluppare vari campi dello scibile umano. Partendo dalle considerazioni heideggeriane sulla problematicità del superamento della metafisica, ovvero sulla maniera di rapportarsi ai pensieri universalistici che hanno connotato le epoche storiche a noi precedenti, Vattimo cerca di far vedere come una radicale assunzione della propria condizione di abitanti di un Occidente al tramonto è l’unica via per affrontare la situazione post-moderna: “Il contributo della filosofia alla razionalizzazione e all’umanizzazione della nostra esistenza, nel mondo tardo-industriale, è scarsa. I filosofi che si ostinano a fare discorsi fondativi – la linea che prosegue la ricerca trascendentale di Kant – ci sembrano vivere in un mondo che non è il nostro, che ignora gli aspetti teorici e anche pratico-politici del tramonto dell’Occidente; i filosofi che celebrano la dissoluzione delle pretese universalistiche della ragione, d’altra parte, appaiono troppo tranquillamente partecipi di questa dissoluzione e li sospettiamo, in fondo, di ridurre la filosofia e la razionalità a puro gioco estetistico. E se ci facessimo guidare di più dall’idea del tramonto, ancora una volta, ripetiamolo, senza alcuna simpatia per Spengler e il suo biologismo?” (p.41). In quest’ottica, i problemi tematizzati dalla filosofia verrebbero affrontati nei termini di una secolarizzazione di ogni principio ultimo, allo scopo di mostrarne la natura “indebolita” e di collocare il fulcro di ogni ulteriore riflessione all’interno della propria condizione storica, sociale, esistenziale. “Se la fine della metafisica è un fenomeno di secolarizzazione, e non la scoperta della verità vera che smentisce le menzogne delle ideologie, il problema della razionalità si pone in modo nuovo, ma non nei termini disperati del relativismo. La storia della dissoluzione della metafisica, e in genere della riduzione del sacro a dimensioni umane, ha una sua logica, alla quale apparteniamo e che fornisce, in assenza di verità eterne, l’unico filo conduttore per argomentare razionalmente e per orientarci anche nelle scelte etiche.” (p. 44). Così, per quanto riguarda la sfera morale, il netto rifiuto di ogni trascendentalismo rende l’etica “[…] un’etica della negoziazione e del consenso invece che un’etica dei principi immutabili, o degli imperativi categorici che parlano nella ragione di ciascuno.” (p.76), che ben si confà ad un mondo multietnico e multiculturale. La fine della metafisica e delle cosiddette “strutture forti”, come i totalitarismi e i colonialismi che hanno caratterizzato il mondo moderno, trovano poi il loro parallelo nella sfera politica con l’affermarsi della democrazia. Questo modello di organizzazione della società è, secondo l’Autore, il corrispettivo istituzionale di un’etica della negoziazione: la democrazia, infatti, non ha una verità alla quale conformarsi, deve solamente lasciarsi guidare dalle negoziazioni che il gioco delle maggioranze e delle minoranze fa sorgere dal consenso democratico. Così, resa impossibile un’identificazione tra politica e verità, l’argomentare di Vattimo suggerisce un percorso della politica odierna che avvicina la tradizione della sinistra e del socialismo alle teorie ermeneutiche: “Una sinistra nichilistica non-metafisica, non potrà più fondare le proprie rivendicazioni sull’uguaglianza, ma dovrà invece porre alla base la dissoluzione della violenza. E’ chiaro perché: l’uguaglianza è sempre ancora una tesi metafisica che si espone a essere confutata come tale, in quanto pretesa di cogliere una essenza umana data una volta per tutte.” (p.104). Ovviamente, la dissoluzione della violenza non rappresenta un ulteriore presupposto metafisico, in quanto è la condizione stessa, agli occhi dell’analisi ermeneutica, in cui l’Occidente si trova e dalla quale deve partire per ripensare se stesso attraverso un’ottica di emancipazione. Il diritto infine, è il terzo campo d’indagine che l’Autore esplora attraverso la lente filosofica della sua ontologia ermeneutica: se parlare di giustizia nei termini canonici suona ancora una volta come un richiamo a qualche valore metafisico a cui ci si appella per giustificare l’origine del diritto o delle pene, va rivisitata la natura del rapporto che lega l’uomo a tale istituzione, nella direzione di un indebolimento della sua natura fondativa. Anche qui, allora, l’ermeneutica risulta un ottimo strumento per delineare una relazione più disincantata con il diritto, dove non c’è un principio regolatore se non quello dell’interpretazione, volta per volta, della legge e dell’applicazione al singolo caso in questione. L’unica giustizia possibile è perciò quella dell’interpretazione “[…] come applicazione che indebolisce la violenza dell’origine, “fa giustizia del diritto”: gli rende giustizia contro chi lo accusa di produrre solo summas iniuras, lo rende giusto da violento che era e anche lo giustizia in quanto lo consuma nelle sue pretese di perentorietà e defitività, ne smentisce la maschera sacrale.” (p.149-150). L’emancipazione a cui ci si riferisce nel titolo dell’opera, quindi, è l’emancipazione che una condizione post-moderna conferisce a chi fa del nichilismo, e quindi della teoria ermeneutica, una chiave di lettura degli eventi storici e sociali. Vattimo trova in questa raccolta di saggi una via ‘pratica’ alle proprie riflessioni e propone al lettore una vera e propria filosofia della storia che vede nella disciplina ermeneutica il suo fulcro. Ovviamente i limiti di una tale concezione risiedono nell’accettazione dei suoi fondamenti teorici: se non si condivide la visione d’insieme che l’A. dà, sulla scia di Heidegger e Nietzsche, della parabola evolutiva del mondo occidentale, ben difficile sarà accettarne le proposte etiche, politiche e di filosofia del diritto. In ogni caso, tali proposte sono un ottimo contributo ai dibattiti di varia natura che il mondo contemporaneo deve affrontare: un contributo, questo, che trova la propria forza teorica nel proporsi come interpretazione, modificabile, migliorabile, di un discorso filosofico e sociale che, per fortuna, non può trovare una conclusione stabile e definitiva.

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