“Ciò che intendo sostenere è: a) che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; b) che essi caratterizzano questa società non come una società più ‘trasparente’, più consapevole di sé, più ‘illuminata’, ma come una società più complessa, persino caotica; e infine c) che proprio in questo relativo ‘caos’ risiedono le nostre speranze di emancipazione”.
L’inizio della fine della modernità è segnato – come abbiamo visto – dallo spegnersi dell’unitarietà della storia e del suo monopolico punto di vista: nel passaggio al post-moderno, non c’è più un unico punto di vista universalmente valido e accettato, ma, al contrario, vi è un’autentica esplosione di prospettive, di concezioni e di idee che rendono impossibile pensare la storia come un lineare corso di eventi che scorre unitariamente. Questo proliferare di visioni del mondo trae origine dal ruolo dei mass media e della comunicazione generalizzata, cui Vattimo riconosce il grande merito di aver reso la società non più trasparente e cristallina, ma, viceversa, incommensurabilmente più caotica e irriconducibile ad un centro, ad un punto di vista unico. L’asserto di Nietzsche – in “Così parlò Zarathustra” –: “ora che Dio è morto vogliamo che vivano molti dei”, si concretizza nella società postmoderna, in cui “radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo”: non più una sola visione del mondo, ma un’esplosione di immagini. Sono stati i mass media a permettere la dissoluzione dei punti di vista centrali, ossia di quelli che – prendendo in prestito le parole di Lyotard – potremmo definire “i grandi racconti”: ne segue che proprio l'apparente caos della società postmoderna - la quale, lungi dall'essere una società “trasparente”, cioè monoliticamente consapevole di se stessa, è piuttosto un “mondo di culture plurali”, ovvero una società “babelica” e “spaesata” in cui si incrociano linguaggi, razze, modi di vita diversi - costituisce la miglior premessa a una forma di emancipazione basata sugli ideali del pluralismo e della tolleranza ossia a un modello di umanità più aperto al dialogo e alla differenza. Si attua una presa di parola da parte di un numero crescente di sub-culture che, prima d’oggi, erano sempre state messe a tacere e condannate come “diverse” e quindi “non-vere”. In tale prospettiva, risulta inaccettabile la posizione di Adorno e degli altri membri della Scuola di Francoforte, che nei mass media tendevano a leggere un terribile strumento di appiattimento e di imposizione di un dominio unitario; il proliferare di “immagini del mondo” porta con sé la paradossale conseguenza che diventa sempre meno concepibile l’idea di un mondo, di una realtà data unitariamente, cosicchè pare avverarsi la profezia nietzscheana del mondo vero che alla fine diventa favola: non c’è più una realtà data, ma vi sono una miriade di realtà o, meglio, di punti di vista diversi, di diverse interpretazioni che rendono incredibilmente babelica la società, generando un diffuso effetto di spaesamento e confusione: “si fa strada un ideale di emancipazione che ha alla propria base, piuttosto, l’oscillazione, la pluralità, e in definitiva l’erosione dello stesso ‘principio di realtà’”. Fluttuando in questo mare di interpretazioni che rendono impossibile gettare una luce unitaria sulla realtà, si possono trovare vie emancipative, soprattutto partendo dal presupposto che, venendo a mancare un’interpretazione unica, ciò significa che la realtà post-moderna, segnata da un indebolimento dell’essere, non è interpretabile univocamente, ma si fan strada più punti di vista, tutti ugualmente validi. In questo modo, “l’importanza dell’insegnamento filosofico di autori come Nietzsche e Heidegger sta tutta qui, nel fatto che essi ci offrono gli strumenti per capire il senso emancipativo della fine della modernità e della sua idea di storia”. La società postmoderna può dunque essere fatta coincidere con la società dei media, i quali non sono lo strumento diabolico di un'inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera del Grande Fratello di Orwell), ma il presupposto in atto del possibile avvento di un'umanità spaesata capace di vivere in un “mondo di culture plurali” che – poiché non depositarie della “Verità” in nome della quale dichiarar guerra alle altre – possono avvicinarsi e collaborare pacificamente. In altri termini, rifiutando l'equazione adorniana “media = società omologata” e insistendo sul nesso fra i media e l'assetto pluralistico della società “complessa”, Vattimo ha finito per sostenere che grazie al “mondo fantasmagorico” dei media si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti, al punto che la realtà, per i postmoderni, coincide ormai con le “immagini” che tali mezzi distribuiscono. La perdita di centro e l'erosione del principio di realtà (che attuano, sul piano tecnologico, ciò che Nietzsche e Heidegger avevano profetizzato sul piano fìlosofico), implicando la distruzione degli orizzonti chiusi, pongono le premesse sia per un tipo di uomo che non ha più bisogno di recuperare nevroticamente le figure rassicuranti dell'infanzia, sia per quella liberazione delle differenze che è propria del post-moderno. E così, “se con la moltiplicazione delle immagini del mondo perdiamo il ‘senso della realtà’, come si dice, forse non è poi una gran perdita”: mettendo sulla bilancia ciò ch’è perso e ciò ch’è guadagnato, pare proprio che essa penda a favore del guadagnato, poiché è sì vero che ci troviamo di fronte ad un dilagante nichilismo che non è più “alle porte”, ma che è tra noi, ad un’impossibilità di afferrare in maniera decisiva il significato dell’essere, ma da ciò deriva la fine dei “pensieri forti”, convinti di avere in pugno la Verità, pronti ad esser chiusi alle “culture altre” perché prive di tale Verità, nasce un “pensiero debole” che – consapevole dei propri limiti e dell’indebolimento dell’essere – si apre a tali “culture altre”. L’emancipazione che deriva dalla moltiplicazione all’infinito delle immagini del mondo finisce così per coincidere con lo spaesamento babelico in cui ci troviam gettati nel mondo pluralizzato: assistiamo ad un’autentica liberazione delle differenze, il che è particolarmente apprezzabile se prendiamo in esame il caso dei dialetti, ossia delle lingue locali che sfuggono ad ogni determinazione univoca e dettata dall’alto e riportano immagini del mondo ognuna diversa dalle altre. Certo, anche i dialetti sottostanno a regole grammaticali e sintattiche – è evidente -, ma il potenziale liberativo in essi presente riposa sul fatto che possono dar parola a “culture altre”, diverse e plurali, che si fanno araldi di prospettive e di visuali sul mondo.
“Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non è la sola ‘lingua’, ma è appunto un dialetto fra altri. Se professo il mio sistema di valori - religiosi, estetici, politici, etnici - in questo mondo di culture plurali, avrò anche un'acuta coscienza della storicità, contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mio”.
Questo atteggiamento, coincidente con quello nietzscheano del “continuare a sognare sapendo di sognare”, è quello proprio dell’Oltreuomo zarathustriano, che – morto Dio – crea nuovi dei, in un caleidoscopio infinito di immagini del mondo e di valori sempre rinnovantesi. Il potenziale emancipativo che scaturisce dai dialetti è rintracciabile, pur con le dovute differenze, anche nell’esperienza estetica, dove – come nota Dilthey - ci troviamo catapultati a vivere in altri mondi possibili, capendo come, in definitiva, il mondo reale in cui siam chiusi è contingente, relativo, non definitivo. Vivendo l’esperienza estetica, fluttuiamo spaesati tra appartenenza e spaesamento, cogliendo il vero senso della libertà e della pluralità. Scrive Vattimo:
“Caduta l'idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità "locali" - minoranze etniche, sessuali religiose, culturali o estetiche- che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti”.
Ma la libertà derivante dall’esplodere
della comunicazione generalizzata è dunamiV
non enteleceia può
passare in atto, ma può anche degenerare nella voce
del “Grande Fratello” e della “banalità
stereotipata”, del “vuoto di significato”;
sta a noi far sì che proceda in una direzione anziché
nell’altra, a noi che siamo ancora legati agli orizzonti
chiusi e unitari e che non siamo forse ancora pronti ad
una cultura “plurale”, a noi che “oggi
non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto
perché siamo ancora troppo poco nichilisti”
(“Filosofia al presente”). In quest’ottica,
i nostri punti di riferimento devono essere Nietzsche e
Heidegger soprattutto, ma anche pragmatisti come Dewey o
Wittgenstein, i quali ci hanno mostrato che “l’essere
non coincide necessariamente con ciò che è
stabile, fisso, permanente, ma ha da fare piuttosto con
l’evento, il consenso, il dialogo, l’interpretazione”
e che ci hanno resi “capaci di cogliere questa esperienza
di oscillazione del mondo postmoderno come chance di un
nuovo modo di essere (forse: finalmente) umani”. Il
secondo capitolo dello scritto si intitola “Scienze
umane e società della comunicazione”, avente
come tesi portante lo stretto rapporto che intercorre fra
scienze umane e società della comunicazione: il tratto
comune sta nel fatto che sia le scienze tecniche e sperimentali
sia le scienze umane “costituiscono il loro oggetto
più che non esplorino un ‘reale’ già
costituito e ordinato”, il che si inquadra perfettamente
con il discorso condotto da Vattimo nel capitolo precedente,
in cui si insisteva, appunto, su come nella società
postmoderna il mondo “vero” tenda nietzscheanamente
a diventare una “favola”, a cedere il passo
ai tanti mondi fatti venire a galla dai mass media. Vattimo
sostiene che le cosiddette “scienze umane” -
dalla sociologia all’antropologia, anche se il termine
oscilla nel vago - sono rese possibili, anche se in un rapporto
di reciproca determinazione, dal “costituirsi della
società moderna come società della comunicazione”:
esse sono, al contempo, l’effetto della nascita della
società postmoderna e l’elemento che contribuisce
al suo incessante sviluppo. Il risultato è che –
per dirla con l’Heidegger dei “Sentieri interrotti”
– ci muoviamo in un’ “epoca delle immagini
del mondo”, ossia in un’epoca in cui, grazie
ai supporti tecnici e ai mass media, il mondo si riduce
ad immagini, viene svuotato nella sua realtà, non
è più consistente come in passato. La tecnica
stessa (o, meglio, le tecniche) si esplicitano pertanto
soprattutto nel mondo dell’informazione, riducendo
il mondo stesso ad immagini, più che nel dominio
della natura (secondo quel che invece credeva una tradizione
che da Bacone giungeva fino a Marx), cosicchè la
società tecnica che oggi impera è essenzialmente
la società delle scienze umane, quella che è
conosciuta e studiata da esse e che in esse si esprime.
Ciò, se non può essere dimostrato, può
tuttavia essere avvalorato da esempi: primo fra tutti, la
centralità assunta dalle tecnologie informatiche,
che – come la mano secondo Aristotele – sono
organon twn organwn
“strumento degli strumenti”. In secondo luogo,
possiamo soffermare la nostra attenzione sulla nozione di
“contemporaneità”, con la quale dobbiamo
soprattutto intendere “la tendenza alla riduzione
della storia sul piano della simultaneità”
(la telecronaca diretta, le informazioni via internet in
tempo reale, e così via), una tendenza orientata
a raggiungere quella che Vattimo chiama “utopia della
assoluta autotrasparenza”. Questo atteggiamento programmatico
è venuto chiaramente alla luce nell’età
illuministica, quando l’uomo ha sentito l’esigenza
più che mai di conoscere ogni cosa, riconducendola
alla scienza; ma non lo troviamo solo nell’età
dei Lumi: ancora Hegel, quando parla di “Spirito assoluto”,
o quando i Positivisti parlano di “progresso”,
si muovono fermamente lungo questa direttiva; anche Habermas
e Apel, se letti attentamente, non sfuggono a questa prospettiva.
Se le scienze umane muovessero verso una rigorosa scientificità
tale da abolire ogni motivo di parte, ideologico, di interesse,
e se la comunicazione ad esse si adeguasse, allora probabilmente
la società sarebbe trasparente, come auspicavano
gli Illuministi: ma, al contrario, “lo sviluppo intenso
delle scienze umane e l’intensificarsi della comunicazione
sociale non sembrano produrre un accrescimento della autotrasparenza
della società, ma anzi paiono funzionare in senso
opposto”; prova ne è l’esplosione di
visioni del mondo, di punti di vista diversissimi, che ha
colorato lo sviluppo della comunicazione generalizzata,
spingendo in direzione di una società meno trasparente
e più caotica, sì, ma proprio per questo più
propensa da essere un terreno fertile per lo scaturire di
un’emancipazione e di una libertà per tutti.
Così, se la radio, se la televisione, se internet
divulgassero informazioni univoche, appiattite, tutte simili
fra loro perché provenienti da un unico punto di
vista, la società sarebbe trasparente, ma refrattaria
ad ogni forma di emancipazione e di libertà, sarebbe
cioè dominata da un gruppo che pretenderebbe di imporre
a tutti il proprio punto di vista, fatto passare per “Verità”;
così in passato – quando non c’erano
i mass media – si sono potute affermare “Verità”
quali l’inferiorità della donna e dei neri,
l’esser contro natura degli omosessuali, e così
via. E il mondo attuale – nota Vattimo – sembra
oggi procedere in direzione diametralmente opposta all’autotrasparenza:
sembra essersi avviato verso la “fabulazione del mondo”,
ossia al fatto che il mondo reale venga sostituito da un
caotico pulviscolo di immagini del mondo, tutte diverse
tra loro, per cui – nietzscheanamente - il mondo vero
diventa favola e ad esistere non sono più i fatti,
ma le interpretazioni. Con ciò Vattimo non intende
certo abbandonarsi a nostalgici rimpianti idealistici, per
cui il mondo reale non esisterebbe, ma sarebbe una mera
produzione del soggetto: al contrario, vuol semplicemente
mettere in luce come “ciò che chiamiamo la
‘realtà del mondo’ è qualcosa
che si costituisce come ‘contesto’ delle molteplici
fabulazioni”. Respingendo l’idealismo, Vattimo
si discosta anche, in qualche misura, dallo scetticismo
e dal relativismo, avvicinandosi invece ad “una disponibilità
meno ideologica all’esperienza del mondo, il quale,
più che l’oggetto di saperi tendenzialmente
(ma sempre solo tendenzialmente) ‘oggettivi’,
è il luogo della produzione di sistemi simbolici,
che si distinguono dai miti proprio in quanto sono ‘storici’
– e cioè narrazioni che prendono criticamente
le distanze, si sanno collocate in sistemi di coordinate,
si sanno e si presentano esplicitamente come ‘divenute’,
non pretendono mai di essere ‘natura’”.
Naturalmente, in questo groviglio inestricabile di “visioni
del mondo”, o – per riesumare un’antica
espressione leibniziana - di “punti di vista”,
le scienze umane non possono fare affidamento sul metodo
scientifico, ma devono trovar rifugio in quello ermeneutico,
mirante ad una verità reperibile nel dialogo, nel
confronto, nella corrispondenza, e non nella fantasmatica
corrispondenza ad un presunto stato di cose. E, poiché
tale via ermeneutica sa bene che i punti di vista, in quanto
tali, sono vessilliferi di porzioni di verità, mai
di una Verità data una volta per tutte, ma, ciononostante,
guarda al brulicare di tali punti di vista come ad un forte
potenziale emancipativo, essa può essere accostata
ad un altro concetto nietzscheano (ripreso dallo stesso
Ricoeur): quello di “scuola del sospetto”; è
vero che non possiamo far strage di ideologie e visioni
di parte, sgombrando definitivamente il campo, ma ciò
ci permette di capire come la realtà non abbia una
sola chiave di lettura, ma, al contrario, si presti a mille,
a duemila, a infinite possibili letture, senza che nessuna
di esse sia “Vera” e possa arrogarsi il diritto
di combattere le altre in nome della propria “Verità”.
Ecco perché “il sistema dei media-scienze umane
funziona, quando funziona al meglio, come emancipazione
solo in quanto ci colloca in un mondo meno unitario, meno
certo, dunque anche assai meno rassicurante di quello del
mito”. Il capitolo successivo è appunto dedicato
al mito, nella convinzione che sia necessario definire in
che rapporti si trovi con esso l’uomo postmoderno.
E Vattimo nota, in prima analisi, come propriamente non
sussista nell’epoca contemporanea una soddisfacente
teoria del mito, seppure esso rappresenti uno di quei concetti
più ricorrenti: secondo Sorel, il mito era quel complesso
di immagini spontanee ed istintive che, a differenza dell’utopia
(che è una rappresentazione intellettuale razionalmente
esaminabile), ha un effetto pratico dirompente, è
l'espressione immediata per immagini della volontà
che attende di tradursi in azione. Secondo Lévi-Strauss,
invece, il mito è l'espressione dell'attività
inconscia dello spirito umano e si struttura come un linguaggio.
Proprio muovendo dall’analisi condotta da Lévi-Strauss,
Vattimo interpreta il mito come una forma di pensiero anti-scientifico,
che non fa ricorso alla dimostrazione e al rigore, ma, piuttosto,
alla fantasia, alla narrazione e al coinvolgimento, con
minore (se non addirittura nulle) pretese di obiettività.
La scienza stessa, nel suo costituirsi, si pone come demitizzazione,
ossia come disincanto del mondo: ma ciò significa
che il mito viene cronologicamente prima della scienza,
poiché quest’ultima nasce appunto come superamento
del mito stesso. Su questo punto si trovano d’accordo
anche Lévi-Strauss, Cassirer e Weber: ma di fronte
a quest’attenzione per il mito non può non
destarsi in noi un senso di “disagio” per il
fatto che la sua sopravvivenza è legata a filo doppio
all’esistenza di una concezione metafisica che oggi
pare scomparsa. Come può esistere il mito se manca
la metafisica? Da questa insanabile contraddizione risulta
evidente come il mito appaia qualcosa di arcaico e inattuale,
che non ha cittadinanza nella società attuale e che
risulta collocabile solo in un lontano passato dai contorni
indefiniti. Proprio sulla nozione di “arcaismo”
Vattimo si sofferma diffusamente, spiegando come l’atteggiamento
“arcaico” che guarda con sospetto al mondo scientifico
possa in qualche misura anche essere detto “apocalittico”:
leggendo il mito alla luce della categoria dell’arcaismo,
se ne evince che esso non è un qualcosa di ormai
superato, ma è anzi una forma di sapere più
genuino e autentico rispetto a quello proprio della scienza,
e che anzi può permettere un distanziamento dalla
scientificità imperante. Non è un caso che
la critica della scienza in nome dell’arcaismo e il
conseguente recupero del mito e della sua funzione liberatrice
stiano alla base della posizione di Nietzsche e di Heidegger,
anche se, ad onor del vero, non è possibile far riferimento
ad una corrente filosofica dai confini adeguatamente delineati
che si proponga di porre al centro il mito: è sì
un’alternativa, ma che tende a schizzar via, a non
trovare i giusti limiti che la contengano e la regolino,
cosicchè non può portare a nulla di certo,
e anzi può capovolgersi in un nostalgico e reazionario
attaccamento per il passato (sfociando così verso
posizioni di estrema “destra”). Accanto all’arcaismo
come elemento qualificante il mito, Vattimo prende in esame
il relativismo culturale di cui è intrisa la nostra
cultura e a cui, in fondo, il “pensiero debole”
non riesce completamente a sottrarsi: alla base del relativismo
sta la convinzione che “i principi e gli assiomi fondamentali
che definiscono la razionalità, i criteri di verità,
l’etica e in genere che rendono possibile l’esperienza
di una determinata umanità storica, di una cultura,
non sono oggetto di sapere razionale, di dimostrazione,
giacchè da essi dipende ogni possibilità di
dimostrare alcunchè”. Di questo tipo sono,
ad esempio, la teoria dei paradigmi nella formulazione di
Thomas Kuhn o l’ermeneutica che si richiama a Heidegger.
La connessione tra il mito e il relativismo risiede nel
fatto che quest’ultimo tende a considerare tutti i
princìpi primi - generalmente riconosciuti come razionali
– come mitici, ossia oggetto di un sapere sotto forma
di mito, esulante dai dettami della ragione. La stessa razionalità
scientifica, in definitiva, finisce per assumere la veste
del mito. Infine, ancora altra cosa rispetto all’arcaismo
e al relativismo è quello che Vattimo definisce come
“irrazionalismo temperato” (o anche “razionalità
limitata”): secondo la prospettiva dell’irrazionalismo
limitato, il mito non si distingue dal sapere scientifico
perché ormai sorpassato (“arcaismo”)
o perché fa del sapere scientifico stesso un mito
(“relativismo”), ma piuttosto perché
intende come peculiarità del mito il suo carattere
narrativo, del tutto assente nel procedere della scienza.
Questa prerogativa – peraltro già perfettamente
individuata a suo tempo da Platone – fa sì
che al procedere argomentativo e serrato, per dimostrazioni
e formule, della scienza si opponga il periodare fluente
e narrante del mito, che – nota Vattimo – investe
soprattutto tre ambiti del sapere: la psicoanalisi, la storiografia
e la sociologia dei mass media. Ciò non toglie che,
nella loro specificità, queste tre forme di intendere
il mito (arcaismo, relativismo, irrazionalismo temperato)
condividano un importantissimo aspetto: nascono dalla dissoluzione
delle filosofie metafisiche della storia e, al contempo,
non riescono a porre rimedio a tale dissoluzione, configurandosi
in tal modo inadeguati e, spesso, contraddittori. Se il
pensiero metafisico, che Vattimo altrove designa anche come
“pensiero forte”, proponeva come rimedio a tutto
ciò una concezione della storia come Aufklärung
e emancipazione della ragione, ora questo è divenuto
assolutamente impossibile nel momento stesso in cui si è
verificata quell’esplosione - provocata dai mass media
e su cui ci siamo ampiamente soffermati in precedenza –
in virtù della quale hanno preso la parola una miriade
di gruppi da sempre ritenuti marginali e, perciò,
tacitati, cosicchè ora la storia ha cessato di configurarsi
come un corso unitario mirante ad un teloV
e si è invece trasformata in un caotico, babelico
e spaesante guazzabuglio di immagini portate alla luce da
ciascun gruppo. Se prima d’oggi essa era come uno
specchio nella sua unitarietà, ora tale specchio
è caduto, si è spezzato in un’infinita
molteplicità di frantumi che rispecchiano realtà
diverse e contrastanti: il progetto portante dell’Illuminismo,
del Positivismo e dello stesso Idealismo si è dunque
arenato, poiché “la realizzazione dell’universalità
della storia ha reso impossibile la storia universale”
e la “demitizzazione è stata riconosciuta essa
stessa come un mito”. Da ciò deriva una nuova,
inquietante domanda: mostrata la miticità della demitizzazione,
sono legittimati i tre atteggiamenti - poc’anzi tratteggiati
- verso il mito? Dopo aver compreso che l’idea di
sbarazzarsi dei miti era essa stessa mitologica, siamo autorizzati
a riprendere il mito come prima? Vattimo risponde –
quasi giocando la carta dell’Aufhebung hegeliano –
che “una volta svelata la demitizzazione come un mito,
il nostro rapporto con il mito non ritorna ingenuo, ma rimane
segnato da questa esperienza”: ritorniamo al mito
come colui che sogna sapendo di sognare, e tale atteggiamento
può essere etichettato come “secolarizzazione”.
Sul versante religioso, questo si esprime come scoperta
degli errori e delle mistificazioni della religione ma,
al contempo, come sopravvivenza di tali errori: si è
scoperta la loro natura di erramenti, ma non si ha il coraggio
di lasciarli alle spalle, quasi come se il progresso rimanesse
magicamente vincolato ad essi da un rapporto di nostalgia.
Allo stesso modo, – leggendo Max Weber – il
capitalismo non è abbandono, ma trasformazione del
cristianesimo. Da ciò deriva che “quando anche
la demitizzazione è svelata come mito, il mito ricupera
legittimità, ma solo nel quadro di una generale esperienza
‘indebolita’ della verità”: nell’eredità
del pensiero debole, dunque, accanto al precetto cristiano
della non-violenza, c’è anche posto per il
mito, il quale però ha carattere indebolito perché
passato sotto il giogo della demitizzazione demolitrice,
la quale, a sua volta, si è rivelata come mera mitologia.
Proprio in ciò, nella demitizzazione della demitizzazione,
- oltrechè, naturalmente, nella fine dell’unitarietà
della storia - si può leggere il passaggio dal moderno
al postmoderno: un passaggio inaugurato da Nietzsche che
porta alla conclusione che la verità cessa di essere
un fundamentum absolutum et inconcussum, per cui l’uomo
moderno che ispeziona il proprio animo non rinviene la certezza
irremovibile del cogito cartesiano, ma, piuttosto, “le
intermittenze del cuore proustiane, i racconti dei media,
le mitologie evidenziate dalla psicoanalisi”. Nell’età
post-moderna, dunque, il mito torna a fiorire, ma profondamente
mutato nella sua essenza: non è più un qualcosa
fortemente contrapposto alla razionalizzazione, ma quasi
un superamento tra la scissione apertasi tra razionalismo
e irrazionalismo, una sorta di punto di sutura tra i due
tale da riaprire “il problema di una rinnovata considerazione
filosofica della storia”. Continuando il nostro percorso
tra i sentieri de “La società trasparente”,
ci troviamo improvvisamente di fronte al problema estetico,
cui Vattimo più volte aveva alluso (pensiamo a quando,
riprendendo Dilthey, scorgeva nelle opere d’arte possibili
“mondi altri”): tratto che accomuna il moderno
al postmoderno è appunto l’esperienza estetica
come annunciatrice dei “tratti salienti dell’esistenza”
(il “senso dell’essere” heideggeriano).
A tal proposito, Vattimo prende in esame lo scritto di Benjamin
“L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica” (1936), mostrando
come – al di là dei clamorosi fraintendimenti
a cui è stato soggetto – esso ci abbia aperto
gli occhi, mettendo in chiaro la sostanziale modificazione
a cui è andata in contro l’arte nel suo incontrarsi
coi mass media e, più in generale, con la società
di massa. Un tempo, l’opera d’arte era avviluppata
da un’“aura”, ovvero da un alone di unicità,
originalità, irripetibilità e sacralità
che è stato spazzato via dall’avvento dei mass
media: questi, infatti, introducendo la “riproducibilità
tecnica” (pensiamo al grammofono, alla TV, alla radio),
hanno fatto sì che l’opera d’arte cessasse
di essere un unicum, un qualcosa di irripetibilmente sacro,
facendo di essa un “sempre uguale” , un qualcosa
di fruibile in ogni istante e in ogni luogo. Questa grande
intuizione benjaminiana – alla quale Adorno, Horkheimer
e l’intera “Scuola di Francoforte” non
ha aggiunto nulla di veramente innovativo – deve essere
sviluppata in maniera tale da fornire un’interpretazione
dell’arte nell’età postmoderna: ed è
quel che Vattimo si propone di fare, imboccando una strada
radicalmente nuova, improntata sul confronto tra il saggio
di Benjamin e quello – coevo – di Heidegger
su “L’origine dell’opera d’arte”
(in “Sentieri interrotti”). In quest’opera,
Heidegger respinge l’eventualità che l’opera
d’arte possa essere mera mimesiV
e avvia la propria indagine muovendo dalla constatazione
che, in primo luogo, l’opera d’arte è
una cosa, arrivando poi – e qui sta la grandezza del
genio heideggeriano – a ribaltare la prospettiva,
ossia non più a leggere le opere d’arte a partire
dalle cose, ma, viceversa, le cose a partire dalle opere
d’arte. E’ infatti nel quadro di Van Gogh in
cui vengono rappresentate le scarpe contadine che ci è
dato capire realmente che cosa siano le scarpe, giacchè
lì la loro “strumentalità” è
sospesa in favore della loro “cosalità”.
Da ciò deriva che la prerogativa essenziale dell’opera
d’arte risiede nel suo “mettere in opera”
la verità, o – come asserisce Heidegger stesso
– nel suo aprire un Mondo sul ritirarsi della Terra.
Così intesa, l’opera d’arte secondo Heidegger
non può che provocare sul suo osservatore un “urto”
(“Stoss” in tedesco): il che è particolarmente
curioso, poiché Benjamin stesso – che ha in
mente soprattutto il cinema - parla di “Shock”
come caratteristica fondamentale dell’opera d’arte
nell’epoca della riproducibilità tecnica: questa
“poetica” dello shock era stata anticipata dai
Dadaisti, i quali concepivano l’arte come un proiettile
sparato verso il pubblico, un proiettile che colpiva al
cuore le convinzioni, le abitudini, i modi di vedere comuni.
Chi, comodamente seduto su una poltrona al cinema, guarda
una rappresentazione è secondo Benjamin come un pedone
che, immerso nel traffico travolgente della città,
deve districarsi tra le vetture senza farsi investire, salvando
in tal modo la propria vita; in modo incredibilmente vicino,
anche in Heidegger l’esperienza dell’arte è
ai confini con la morte, in bilico tra vita e trapasso,
non già nel senso benjaminiano del pedone che deve
muoversi nel traffico, quanto piuttosto nell’accezione
– squisitamente heideggeriana – della morte
come possibilità costitutiva dell’esistenza.
A provocare lo Stoss è, nella prospettiva heideggeriana,
il fatto stesso che l’opera d’arte ci sia anziché
non esserci: e – come ricorderà il lettore
di “Essere e Tempo” – l’esserci
sta alla base dell’angoscia, di quello stato emotivo
che rende autentica l’esistenza dell’uomo gettato
nel mondo. Certo, se soffermiamo la nostra attenzione sui
singoli enti del mondo, cogliamo quella rete di infiniti
rimandi intenzionali (da Husserl riconosciuta solo a livello
coscienziale) che tra essi intercorrono e che ad essi conferiscono
un senso: ma se guardiamo al mondo nel suo insieme? Non
possiamo non provare un senso di vertigine nell’accorgerci
che esso non rimanda a null’altro e che è assolutamente
privo di senso, angosciante. La stessa opera d’arte,
sotto questo profilo, trae origine non tanto come ente tra
gli altri, correlazionato da una fitta rete di rimandi,
quanto piuttosto come aprirsi di un nuovo mondo a se stante,
come “messa in opera della verità”, ed
è per questo che sortisce su di noi un effetto urtante,
di Stoss. L’urto a cui allude Benjamin è qualcosa
di più semplice e immediato, è la rapida successione
delle scene di un film che ci scuote, che ci impone di stare
attenti, come il pedone nel traffico urbano. Ma, al di là
di queste differenze, c’è davvero un’analogia
tra l’arte secondo Heidegger e l’arte secondo
Benjamin? E le loro concezioni offrono qualche connessione
con la società dei mass media in cui si trova l’uomo
postmoderno? A questi interrogativi martellanti Vattimo
dà un’unica risposta, che risolve le due questioni
e, al contempo, le salda tra loro: sia in Heidegger sia
in Benjamin è fortemente presente l’idea dello
spaesamento – tipica della babelica società
postmoderna - suscitato dall’incontro con l’opera
d’arte, una sorta di estraniamento urtante che per
entrambi i pensatori non va superato tentando una ricomposizione,
ma, viceversa, va mantenuto in vita. Ricomporlo –
nel caso di Benjamin – sarebbe possibile solo a patto
di bloccare le immagini del film: ma ciò sarebbe
del tutto assurdo, poiché il film cesserebbe di essere
tale, si tramuterebbe in una foto. Nel caso di Heidegger,
poi, ricomporre lo spaesamento equivarrebbe a fare dell’opera
d’arte un ente fra i tanti, riconducendola ad una
mera “cosa”, quando Heidegger stesso ha spiegato
che l’opera d’arte è qualcosa di più
di una cosa (altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio,
perché si fanno le esposizioni con le patate o con
le melanzane anziché con i quadri). In rottura con
l’intera tradizione occidentale - dalla kaqarsiV
aristotelica al kantiano libero gioco delle facoltà,
fino alla hegeliana perfetta corrispondenza di interno ed
esterno – che aveva sempre concepito l’arte
come momento conciliante di sicurezza e di “riappaesamento”,
Heidegger e Benjamin hanno ravvisato nello “spaesamento”
il suo tratto costitutivo. Ma se Benjamin è alquanto
fiducioso nei confronti della tecnica e della sua riproducibilità,
consapevole di come in essa si annidi un potenziale rivoluzionario,
poiché apre alle masse - soprattutto nelle forme
del cinema e della fotografia - l'accesso all'arte e alle
sue capacità di contestazione dell'ordine esistente,
Heidegger ne è invece un severo critico, muovendo
dall’amara constatazione di arte e tecnica, un tempo
coincidenti (nella tecnh
dei Greci era compresente sia il significato di “arte”
sia quello di “tecnica”, per cui il tempio era
frutto tanto di perizia tecnica quanto di estro artistico),
sia destinate ad allontanarsi sempre più, fino a
che la tecnica non schiaccerà l’arte. Vattimo
però nota come sia troppo riduttivo liquidare il
problema del rapporto di Heidegger con la tecnica limitandosi
ad etichettare il pensatore tedesco come suo nemico: ed
è per questo motivo ch’egli si propone di approfondire
il discorso (addentrandosi nello scritto heideggeriano “Identità
e differenza”), scavando in profondità per
scoprire se – dietro alla concezione della tecnica
come Ge-Stell – non si celi qualcos’altro. Ciò
che affiora da questa indagine è che “la chance
di oltrepassare la metafisica che offre il Ge-Stell è
legata al fatto che, in esso, ‘uomo ed essere perdono
le determinazioni che la metafisica ha loro attribuito’
(Identità e differenza): la natura non è più
solo il luogo delle leggi necessarie delle ‘scienze
positive’, mentre il mondo umano – anch’esso
duramente sottoposto alle tecniche di manipolazione –
non è più il complementare e simmetricamente
opposto regno della libertà, campo delle ‘scienze
dello spirito’. In questo rimescolio di carte, il
teatro della metafisica con i suoi ruoli definitivi tramonta,
e per questo può darsi una chance di nuovo avvento
dell’essere”. I mass media, dal canto loro,
sembrano distruggere l’arte, facendo di essa un evento
superficiale e precario, ma mantengono quell’effetto
di “urto” riconosciuto da Heidegger e da Benjamin,
quella “mobilità e ipersensibilità dei
nervi e dell’intelligenza, caratteristica dell’uomo
metropolitano” (a cui Heidegger e Benjamin guardano,
probabilmente, attraverso la mediazione di Simmel), un urto
che si esercita anche come spaesante oscillazione tra angoscia
e morte. Senza per questo voler riabilitare la società
di massa e l’appiattimento da essa generato, Vattimo
mette in luce come l’arte prodotta dai mass media
possa sì sfociare nel perverso meccanismo di una
“fabbrica della cultura” massificata, ma possa
anche deviare verso nuovi orizzonti emancipativi: “l’avvento
dei media, infatti, comporta anche una accentuata mobilità
e superficialità dell’esperienza, che contrasta
con le tendenze alla generalizzazione del dominio, in quanto
dà luogo a una specie di ‘indebolimento’
della nozione stessa di realtà, con il conseguente
indebolimento anche di tutta la sua cogenza”. In questo
senso, l’arte dell’età dei mass media,
con il suo effetto decisamente urtante e spaesante, capace
di gettare confusione e ambiguità anziché
ordine e trasparenza, “può configurarsi (non:
ancora, ma forse: finalmente) come creatività e libertà”.
Con questa constatazione si chiude il capitolo: quello successivo,
intitolato “Dall’utopia all’eterotopia”,
si apre con la dichiarazione che il rapporto tra arte e
vita si prospetta oggi non più come utopia (come
era negli anni del ’68), ma come eterotopia. A proposito
di utopia in senso estetico, Vattimo fa una ricca carrellata
di pensatori in qualche modo utopisti, fra i quali troviamo
Marx, Dewey, Lukàcs, Adorno, Marcuse, Bloch: molti
di essi (si pensi a Lukàcs, a Marcuse e ad Adorno
soprattutto) essi l’hanno intesa come un riscatto
dell’individuo attraverso l’arte, come un riappropriamento
dell’essenza dell’uomo. In questa sua accezione,
pertanto, l’utopia dev’essere intesa come congiungimento
del significato estetico con quello esistenziale, come –
per usare le parole di Vattimo – “una unificazione
complessiva di significato estetico e significato esistenziale”,
dagli esiti tendenzialmente rivoluzionari, il che è
stato vero fino al ’68. Dopo tale data, l’utopia
ha subito una metamorfosi radicale che le ha fatto perdere
le sue caratteristiche portanti: in particolare, con Habermas
e il suo costante appellarsi a Kant, pare che si sia decisamente
invertita rotta, poiché l’estetico e l’esistenziale
sono tornati a correre su due binari paralleli destinati
a non incontrarsi mai. Ed è in questo senso che “Habermas
esprime […] la caduta dell’utopia e il ritorno
a una tranquilla accettazione della separazione dell’estetico”:
il suo ritorno a Kant, poi, mette in luce una certa tendenza
– non solo habermasiana – emersa dopo il ’68,
una tendenza (dettata anche dal secco rifiuto del postmoderno
da parte di Habermas) al distacco, alla sordità e
alla cecità nei riguardi dei processi di massificazione
in continuo sviluppo. L’atteggiamento di cui si fa
portavoce il pensatore tedesco di ispirazione kantiana,
ma che in realtà finisce per coinvolgere una nutrita
schiera di pensatori, può essere definito come un
volere a tutti i costi essere ciechi e sordi, un non volersi
accorgere che “l’utopia estetica degli anni
sessanta, in qualche modo, si sta […] realizzando,
in forma distorta e trasformata, sotto i nostri occhi”.
Certo, non si tratta più di un’utopia promotrice
di rivoluzioni (quale invece era nel ’68), poiché
pare essersi adagiata su una sorta di ordine che in passato
non c’era, ma, piuttosto, di un qualcosa capace di
“fare mondo” e di creare comunità. In
tale prospettiva, l’interpretazione più calzante
ed adeguata sarà allora quella formulata da Gadamer,
che intende l’esperienza del bello come un riconoscersi
in una comunità di fruitori dello stesso tipo di
oggetti ‘belli’: essa, infatti, si inquadra
perfettamente sullo sfondo della società di massa,
nella sua esasperata ricerca dell’ “essere alla
moda”, del vestire come gli altri, del trovare bello
ciò che anche gli altri trovano tale, insomma: del
bello come esperienza comunitaria. Sarà allora corretto
affermare che, crollata l’idea di una storia come
processo unitario, con essa è anche franata la possibilità
di un’utopia come sistema unico in cui arte ed esistenza
si intrecciano in maniera armonica: da questo cedimento,
fioriscono una molteplicità di comunità, ciascuna
delle quali riconosce un proprio bello, propri miti e propri
modelli, tutti diversi – ma non perciò meno
‘veri’ - da quelli riconosciuti dalle altre.
In ciò si realizza la continua oscillazione spaesante
e babelica nella molteplicità, tipica dell’età
postmoderna: non più il bello come esperienza totalizzante
propria dell’intera umanità (come era per Kant),
ma tante forme di bello promosse da altrettante comunità,
poiché quello che chiamiamo ‘mondo’ è
in realtà una indefinita serie di mondi e di culture,
così come quella che siamo abituati a chiamare ‘storia’
altro non è se non l’insieme plurale di storie.
“Il mondo non è uno, ma molti; ciò che
chiamiamo il mondo è forse solo l’ambito ‘residuale’,
e l’orizzonte regolativo (ma con quali problemi) in
cui si articolano i mondi”: da ciò deriva che,
più che di un’utopia, si dovrà parlare
di un’eterotopia, ossia di un insieme di mondi eteroi,
“altri” e differenti gli uni dagli altri, poiché
“viviamo l’esperienza del bello come riconoscimento
di modelli che fanno mondo e che fanno comunità solo
nel momento in cui questi mondi e queste comunità
si danno esplicitamente come molteplici”. Prova ne
è la “mobilità” delle mode, il
collezionismo di oggetti di mondi e di culture “altri”:
ed è per questo che l’errore forse più
grave che una comunità possa commettere è
avanzare l’assurda pretesa di identificare la propria
esperienza, i propri modelli di comunità con quelli
dell’umanità intera, scivolando in tal modo
nel dogmatismo del “pensiero forte”. Viceversa,
secondo gli insegnamenti di Dilthey e di Heidegger, l’opera
d’arte apre mondi diversi e possibili, che non sono
solo “immaginari” ma che costituiscono l’essere
stesso in quanto sono suoi accadimenti implicanti il passaggio
dall’utopia all’eterotopia e, accanto a ciò
e non senza connessioni, la liberazione dell’ornamento
e l’alleggerimento dell’essere. Per “liberazione
dell’ornamento” dobbiamo intendere la fine della
pretesa dell’arte di essere verità, e, meglio,
espressione di una verità metafisicamente intesa
che trova spazio sensibile nei versi del poeta, nella tela
del pittore o nella sinfonia del musicista: al contrario,
l’arte e il bello – lungi dall’essere
araldi della verità - sono ornamento, nel senso che
aprono rimandi ad altri possibili mondi di vita che, nella
fitta rete di collegamenti reciproci, compongono e costituiscono
il cosiddetto “mondo reale”, cosicchè
si dovrà definire “Kitsch” non ciò
che manca di uno stile o di una sua coerenza, ma ciò
che avanza la vana pretesa di essere – orazianamente
– “monumentum aere perennius”. Ciò
è in perfetta sintonia con quanto ci ha insegnato
Heidegger, il quale ci ha messi in guardia smascherando
ogni posizione che identificasse tout court - in maniera
metafisica - l’essere con i singoli oggetti, facendo
dell’essere non “ciò che è”,
ma “ciò che accade”: in questo modo,
è delegittimata ogni nostalgia per l’arte classica
e i suoi canoni, l’essere si trova in una situazione
di indebolimento e, di conseguenza, dà adito ad una
miriade di esperienze estetiche diversificate. Il capitolo
che chiude il saggio vattimiano è intitolato “I
limiti della derealizzazione”, in apertura del quale
il filosofo torinese constata come oramai stiamo vivendo
una nuova fase, segnata da grandi innovazioni nel campo
dei mass media tali da far appannare l’ottimismo mediatico,
ossia l’atteggiamento sinceramente simpatizzante verso
il mondo della comunicazione generalizzata: una prima forma
di pessimismo, che ha decisamente fatto scricchiolare la
fiducia nel mondo mediatico, è affiorato con la Scuola
di Francoforte e con le sue apocalittiche concezioni dei
mass media come strumenti di appiattimento della società
e soggiogamento ad un potere. Ciò è anche
dovuto al fatto che molti pensatori, ancora legati all’hegelismo
(si pensi al marxismo di matrice hegeliana di cui sono imbevuti
Marcuse e Adorno), intendono l’emancipazione derivante
dalla Bildung come raggiungimento di un’autotrasparenza
tale da far sì che il soggetto colga nitidamente,
senza interferenze, l’oggetto: ora, i mass media,
con il loro produrre un caos labirintico in cui è
possibile districarsi, sembrano andare in direzione opposta
e non possono che essere condannati da chi ancora si rifà
ad Hegel. Così Adorno guardava con inquietudine alla
propaganda nazista attraverso i mass media (soprattutto
attraverso la radio), e il “Grande Fratello”
di Orwell è l’estrema conseguenza di questo
atteggiamento demolitore nei confronti dei media. Eppure
– nota Vattimo – con l’avvento dell’elettronica
si è avuto un rovescio della medaglia, poiché
al modello unilaterale della radio e della TV degli anni
dei totalitarismi, in cui esse erano strumenti meramente
univoci, grazie ai quali i grandi dittatori entravano nelle
case della gente, è andato sostituendosi un modello
a rete, che ha smarrito ogni centro: così non più
una sola radio o una sola TV, ma una molteplicità
indefinita di radio e Tv anche locali, in grado di trasmettere
un’infinità di diverse immagini del mondo.
La stessa rete internet si configura come una ragnatela
che ha sì i suoi gangli vitali, ma che è assolutamente
priva di un centro risalendo al quale sia possibile governare
il tutto. Sullo sfondo del clima pessimistico che aleggia
in certi ambienti filosofici, si staglia all’orizzonte
un nuovo ottimismo, poggiante sulla pluralità mediatica
e provato dal recente trionfo dell’ermeneutica sulle
altre branche della filosofia: l’ermeneutica è
assurta a nuova koinh
a nuovo linguaggio comune in territorio filosofico, e l’ermeneutica
è sovrana solo laddove abbondano le interpretazioni,
laddove non vi è una Verità data, una sorta
di stella polare a cui fare costante riferimento; trionfa
anzi l’opposizione a tutto ciò che si propone
come ritorno all’uno, al singolo, a negazione del
plurale ed è forse seguendo queste orme che Derrida
punta tutto sulla decostruzione e sulla dispersione come
abbandono di ogni privilegio del ‘proprio’.
Ma Vattimo nota come l’ermeneutica, se davvero intende
fare del dialogo non un puro e semplice strumento, ma l’obiettivo
ultimo, deve portare fino in fondo la “deriva ‘derealizzante’
intravista da Nietzsche”, l’illuminazione del
filosofo tedesco secondo cui “non esistono fatti,
ma solo interpretazioni”. Ma cosa significa, in definitiva,
“derealizzazione”? Con tale termine Vattimo
ci invita a prendere atto di come “il mondo sia un
‘gioco di interpretazioni’ e niente di più
e, in virtù di ciò, come l’ermeneutica
sia la forma filosofica più adeguata alla temperie
culturale in cui ci muoviamo, una forma di filosofia la
cui condicio sine qua non è appunto l’esistenza
del mondo mediatico come fabbricatore di punti di vista
sul mondo e di sue interpretazioni. La prospettiva venata
di pessimismo – propria di Adorno e di parte della
Scuola di Francoforte – è pertanto superata
in favore di un nuovo, positivo atteggiamento che –
sulla scia di Marcuse e, soprattutto, di Nietzsche vede
la tecnologia come strumento di dominio non sull’uomo,
ma dell’uomo: “oggi l’umanità deve
innalzarsi al livello delle sue possibilità tecnologiche,
immaginare un ideale di uomo che tenga conto e utilizzi
fino in fondo queste possibilità”. La stessa
tecnh - nota Vattimo –
si spinge sempre più verso una deriva estetica, abbandonando
la sua originaria terra di mera soddisfazione di bisogni
e assolvendo una nuova, fondamentale mansione di marca estetica:
la tecnica serve sempre più a produrre oggetti volti
al soddisfacimento di piaceri e di miglioramento del benessere,
dando un’impronta maggiormente estetizzante alla vita
di ciascuno di noi. Non bisogna dunque piangere la derealizzazione
come un lutto, ma, viceversa, vedere l’incredibile
potenziale emancipativo in essa racchiuso.