"Verità e medoto. Lineamenti di un'ermeneutica filosofica", comparso nel 1960, ha per oggetto il problema della verità nell’arte, secondo quanto Heidegger aveva insegnato nel suo scritto "L’origine dell’opera d’arte". Gadamer, nel condurre la sua indagine, si distacca radicalmente dalla tradizione occidentale per ribadire fermamente la tesi heideggeriana della verità nell’arte e lo fa ricostruendo, nelle sue linee generali, il cammino nel quale l’arte ha smarrito la verità. Responsabile di questa tragica perdita è, secondo Gadamer, la figura di Kant, il quale ha presentato (nella sua "Critica del Giudizio") l’arte come un qualcosa privo di verità: nella prospettiva kantiana, infatti, nell'arte non si scopre nulla di vero, bensì viene solamente prodotto un sentimento. In quest’ottica, erano per Kant centrali il genio e il gusto: il genio è colui che è capace di produrre in modo eccezionale, di far sì che nel suo lettore nasca un sentimento universale determinato da un "a priori" non di tipo gnoseologico, ma riguardante il gioco delle varie determinazioni dell’intelletto. Ed è proprio in questo che può essere compendiata la critica che Gadamer muove all’estetica moderna, che trova in Kant il suo massimo eroe.
L’arte non ha davvero nulla a che fare con la conoscenza? Non c’è nell’esperienza dell’arte una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza, ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa? E il compito dell’estetica non è proprio quello di fondare teoricamente il fatto che l’esperienza dell’arte è un modo di conoscenza ‘sui generis’, diversa beninteso da quella conoscenza sensibile che fornisce alla scienza i dati sulla cui base essa costruisce la conoscenza della natura, diversa altresì da ogni conoscenza morale della ragione e in generale da ogni conoscenza concettuale, ma tuttavia pur sempre conoscenza, cioè partecipazione di verità? Ciò è difficile da riconoscere se si continua a seguire Kant nel misurare la verità della conoscenza in base al concetto di conoscenza e di realtà proprio delle scienze della natura. E’ necessario pensare il concetto di esperienza in maniera più ampia di quanto abbia fatto Kant, in maniera che anche l’esperienza dell’opera d’arte possa venir intesa come esperienza. Per tale operazione possiamo rifarci alle ammirevoli lezioni di estetica di Hegel. In esse il contenuto di verità che si trova in ogni esperienza d'arte viene magistralmente riconosciuto e messo in rapporto con la coscienza storica. L’estetica diventa così una storia delle Weltanschauungen, cioè una storia della verità come essa si rivela nello specchio dell’arte. In tale modo viene riconosciuto in maniera radicale il compito che abbiamo indicato, cioè quello di giustificare teoricamente l’esperienza della verità anche nell’arte. (Verità e metodo, parte I, Il trascendimento della dimensione estetica)E’ opportuno chiedersi come Gadamer arrivi a vedere le cose in questo modo: il punto di partenza del suo discorso può essere rintracciato nella distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito; tale distinzione, secondo Gadamer, non fa altro che riproporre la stessa metodica delle scienze della natura nella lettura dell’attività spirituale. Del resto, Dilthey stesso, che si era molto soffermato su questa distinzione, aveva esplicitamente confessato di non volersi sganciare dal positivismo e si era anzi proposto di studiare lo spirito in modo positivistico, secondo l’induzione; certo, egli non si era spinto a tal punto da ricercare nelle attività spirituali delle regolarità delle leggi, ma, ciononostante, è convinto che si possano ricercare delle regolarità del fenomeno. In netta rottura con questa posizione, Gadamer sostiene apertamente che l’ambito dello spirito esula dalla scienza (ed è questo che non è chiaro a Dilthey) e che pertanto non si deve estendere il metodo scientifico allo spirito e, di conseguenza, all’arte, bensì occorre considerare lo spirito, e con esso l’arte, come portatore di una sua verità inconciliabile con quella delle scienze: ecco perché, secondo Gadamer, la stessa definizione "scienze dello spirito", così vicina alla scienza positivistica, è assolutamente inadeguata. Si tratta dunque di indagare sulla verità presente nell’arte e per far questo bisogna rinunciare al metodo con cui procedono le scienze: il titolo dell’opera, "Verità e metodo", può allora anche essere letto (così suggerisce Ricoeur) come "Verità o metodo", nel senso che o si sceglie di raggiungere la verità o si sceglie di utilizzare il metodo scientifico e, in tal caso, si rinuncia alla verità dell’arte. Gadamer è infatti, heideggerianamente, convinto che ci sia un ambito della verità (cioè l’arte) cui si acceda senza quel metodo tipico delle scienze; il che è particolarmente significativo perché mette in luce come esista un tratto dell’umanità che non è affatto legato al progresso scientifico: Heidegger stesso, nel suo saggio "L’origine dell’opera d’arte", aveva mostrato come l’ambito che si manifesta nell’opera d’arte è esso stesso origine e, perciò, sfugge alla scienza. Nell’opera di Gadamer affiorano, in posizione centralissima, i termini "Bildung" (cultura, formazione) e "sensus communis" (senso comune), con l’idea che quel particolare ambito che si sottrae alla metodologia scientifica (e che Gadamer si propone di indagare nella sua opera) incontri la Bildung, il sensus communis e il gusto (qui inteso come sede della moralità). E Gadamer spende parecchie pagine come, in origine, il "gusto" riguardasse, propriamente, la sfera morale e non quella estetica, tant’è che le belle maniere sono ancor oggi, retaggio di quel passato, concepite come un abbellimento della persona. Il pensatore tedesco muove anche dall’amara constatazione che, al giorno d’oggi, l’arte è completamente inutile, è un semplice sovrappiù rispetto alla scienza: e, in tale prospettiva, la verità compete ormai soltanto a quest’ultima; questo era già vero in Kant e trova la sua conferma nel fatto che, oggi, nessuno va a vedere una mostra per trovare la verità. In fin dei conti, già Platone, Aristotele e Epicuro dicevano che i poeti erano dei bugiardi mistificatori, ma, in tempi remotissimi, ciò non era affatto vero, tant’è che pensatori come Parmenide e Empedocle affidavano la verità di cui erano portavoce ai versi, ossia all’arte. Piuttosto curioso è che Gadamer citi Hegel, dicendo che la Bildung è la razionalità che si fa universale, con un’evidente rinuncia al aprticolare in favore dell’universale: ogni cosa particolare, infatti, viene recuperata ad un innalzato livello universale e proprio qui sta la Bildung. Molta attenzione viene da Gadamer prestata a Vico, a Shaftesbury, a Reid, a Hutcheson e, in generale, a tutta quella filosofia morale contro cui argomenta Kant: per tutti questi pensatori il problema etico è indissolubilmente legato ad un sentimento, e non alla ragione (come pretendeva il Kant della "Critica della ragion pratica"). Vico, dal canto suo, proponeva la "scienza nuova", basandola sul "sensus communis", poiché si tratta di una scienza che riscopre l’antico e lo ripropone come modello sottratto alla scienza meccanica di marca cartesiana all’epoca dilagante. A Vico spetta dunque il merito di aver evidenziato come, accanto a quella scienza meccanica di cui si occupava Cartesio, esistesse un altro ambito altrettanto degno di scienza ma funzionante in maniera diversa dalla scienza cartesiana; in altri termini, è con Vico che inizia la battaglia contro la metafisica, giacchè è con Cartesio che essa diventa universale (a tal punto che il filosofo francese pretendeva di determinare perfino la realtà umana; significativo è, di sfuggita, che proprio Cartesio avesse proposto un "Discorso sul metodo"). Vico, in questa prospettiva, riporta in auge la retorica come sfera non legata a determinazioni meccaniche o matematiche: si tratta di una scienza "nuova" perché nata dopo e, anzi, a causa di quella cartesiana. Ma cosa significa, in definitiva, parlare di "senso comune"? Se la scienza mi dice che la terra ruota attorno al sole, viceversa il senso comune mi suggerisce che, ogni mattina, il sole sorge (Gadamer nota come Bergson traduca in modo appropriatissimo "senso comune" con "buon senso"); e Kant non fa altro che sopprimere il senso comune trasformandolo nell'ambito teoretico (la "Critica della ragion pura" per la sfera teoretica, la "Critica della ragion pratica" per la sfera morale). Gadamer, fatte queste considerazioni, nota come al giorno d’oggi chi si serve ancora del senso comune può essere accostato all’ "Idiota" di cui parlava, in età rinascimentale, Cusano: l’idiota è infatti colui che sa di non sapere e che spiega le cose senza impiegare il metodo scientifico; egli agli occhi della società moderna è un "idiota", poiché essa ha eliminato ogni validità conoscitiva al senso comune, al socratico sapere di non sapere (ossia al non possedere la scienza). Lo sforzo che intraprende Gadamer sarà allora quello di recuperare quel senso comune andato smarrito e, in questo progetto, egli cita due pietisti, Rambach e Oetinger, il secondo dei quali aveva tradotto il senso comune con la parola "cuore", riconnettendosi, in qualche misura, a Pascal e sottraendo con decisione la verità ad ogni forma di metodologia scientifica: a suo avviso, si può e si deve procedere con la scrittura in modo spontaneo, così come l’albero cresce nel campo, poiché non esiste un metodo per insegnare la verità, esiste invece un modo diretto e comune: il sentire. La prima parte di "Verità e metodo" è dedicata, in buona parte, alla parola Erlebnis (letteralmente "vissuto", "esperienza vissuta"), impiegata da Gadamer in un’accezione particolare e differente da quella di Dilthey: Erlebnis era per Dilthey il fatto della vita nella quale si rispecchia ciò che si coglie nell’opera d’arte; ora, Gadamer se ne serve come parola di rottura con la tradizione illuministica, cartesiana e metodologica: già Heidegger aveva provocatoriamente asserito che "la scienza non pensa" o che "la fisica aristotelica è più vicina alla verità rispetto a quella contemporanea", poiché quella aristotelica rendeva meglio l’unità del mondo e aveva meno bisogno di un riscontro di fatti (era, in un certo senso, una fisica del "sensus communis", senza riscontri con l’oggettività). La convinzione di fondo è che la verità non sia sperimentale, ma del "senso comune", e questo non va contro la scienza in sé, quanto, piuttosto, contro chi vorrebbe estendere il metodo scientifico alle cose dello spirito (evidente stoccata a Dilthey). Può tornare ancora una volta utile fare riferimento a Heidegger: questi, in "Essere e Tempo", parte proprio da ciò che è "innanzitutto e per lo più", cioè da quello che è, in definitiva, il mondo secondo il senso comune, non il mondo studiato dalla fisica. Heidegger dunque è contro la generalizzazione della scienza, ma, sulle orme di Hegel, a favore dell’universalizzazione come portare ad essere nel mondo (e questo vale anche per Gadamer: " la cultura implica un senso di misura e di distacco da se stessi, e di conseguenza un innalzamento al di sopra di sé verso l’universalità "); in modo simile, i pensatori della Scuola di Francoforte parleranno di "comunità infinita della comunicazione" e di verità come "consensus omnium". Facendo qualche anticipazione, si può notare fin da ora come, nella parte conclusiva di "Verità e metodo", è come se tutto avvenisse nel linguaggio: la convinzione di Gadamer è che la mediazione sia avvenuta nell’Umanesimo e che, pertanto, si debba risalire ad esso e al suo "senso comune", superando le disorsioni operate da Kant e da Schiller; ciò non toglie che lo scopo di Gadamer non sia di difendere l’arte, poiché egli è consapevole di come essa non necessiti di alcuna difesa: a dover essere difesa è, piuttosto, la verità, e per difenderla si deve mostrare come essa sia presente anche nell’arte, pressochè assente nel mondo successivo alla rivoluzione industriale. Bisogna ricordare che quando Kant parla del bello allude al bello di natura e solo raramente a quello "artificiale" dell'arte: in particolare, nella "Critica del Giudizio", ha soprattutto in mente il bello dei fiori come bello di natura, sganciato dalla perfezione; il bello dell’arte, invece, appare ai suoi occhi come un’intellettualizzazione della bellezza, giacchè in essa interviene il concetto, anche se non in senso conoscitivo (siamo nell’ambito del giudizio riflettente, in cui non si costituisce conoscenza ma si danno determinazioni teleologiche). Il bello, secondo Kant, suscita sentimenti, ma, ciononostante, è universale, poiché quando riconosco che una cosa è bella sono convinto che anche gli altri la trovino tale: in questo senso, la bellezza è una determinazione non conoscitiva, ma tuttavia universale, una determinazione trascendentale senza concetto. Nella bellezza artificiale subentra invece l’idea di perfezione, poiché dico che un palazzo è bello in quanto è perfetto, mentre invece dico che il fiore è bello perchè orientato ad una finalità. E il genio, rispettoso della determinazione del gusto (che gli è superiore), opera come opera la natura, crea qualcosa che prima non c’era e stabilisce un libero gioco delle facoltà umane. In Kant, poi, il bello è in stretta relazione con la moralità (già nel "Filebo" di Platone il bene si rifugiava nel bello), è determinazione sensibile dei tratti morali: assegnare al bello di natura la priorità significa non tanto riportare la bellezza fuori dalla soggettività, quanto piuttosto riconoscere che la natura mira all’uomo come obiettivo (anche se questo non è provabile: è infatti legato ad un giudizio riflettente). In quest’ottica, dunque, il fiore è bello perché orientato ad un fine e tale fine è l’uomo e la sua moralità; per i Greci, invece, anche l’uomo aveva un suo posto nella natura e la bellezza naturale era connessa al kosmoV , all’ordine dell’universo; ecco perché Kant critica tanto aspramente il fatto che la filosofia morale degli Inglesi sia incentrata sul sentimento (il "sentimento morale" di cui parlava Shaftesbury), sicchè ad avviso di Kant non devo fare il dovere perché mi piace, ma perché è un dovere dettato dalla ragione. Ma Gadamer fa acutamente notare come l’estetica di Kant non sia una filosofia dell’arte, ma pure e semplici considerazioni sul bello: certo, affiorava il problema del genio artistico, inteso come produttore di bellezza e di opere d’arte e, a tal proposito, Gadamer nota come l’arte bella possa anche riprodurre cose brutte (pensiamo ad un bel quadro che raffigura qualcosa di orribile). Poiché per Kant la figura dell’uomo è l’ideale della bellezza, il genio è tale non in quanto produce determinazioni intellettuali, ma perché fa riferimento alle idee estetiche, le quali esulano dal concetto: " proprio perché nella natura non troviamo ‘fini in sé’ e tuttavia troviamo bellezza, cioè una finalità diretta al nostro piacere, possiamo dire che la natura ci dà in tal modo un ‘segno’ che noi siamo davvero il fine ultimo, lo scopo supremo della creazione ". Tutto ciò che in Kant è legato alla morale e all’uomo, Gadamer cerca di riportarlo alle cose, riagganciandosi in questo modo agli Umanisti, poiché convinto che tra i pensatori premoderni e quelli moderni sussista una spaccatura che trova in Kant il suo più grande artefice: per i premoderni, infatti, al centro è il mondo, per i moderni è l’uomo (e Kant è la massima espressione di quest’ultimo atteggiamento). Heidegger e, ancora di più, Gadamer cercano disperatamente di riallacciarsi, in qualche modo, ai premoderni e di vedere non il mondo nell'uomo, ma l'uomo nel mondo; e, infatti, non è un caso che per gli antichi Greci il mondo fosse diviso e la sua divinità risiedesse nella bellezza che lo caratterizza (e, in tal prospettiva, l’uomo era bello perche facente parte del mondo, come l’opera d’arte stessa); con Kant, tuttavia, è il mondo che trova posto nella moralità umana e, a partire dalla modernità (da Giordano Bruno in poi), è divenuto fondamentale il concetto di infinito, prima d’allora non molto considerato: come si ricorderà, i Greci ponevano al centro del loro pensiero il finito, il limite, il confine. Fatte queste considerazioni, Heidegger e Gadamer non si propongono, banalmente, di tornare indietro ai tempi dei Greci, ma, ciononostante, si propongono di fare i conti con questo passato, cercando di capire come, rispetto ad allora, abbiamo invertito tendenza; si tratta, allora, di ricomprendere il mondo, e la posizione di Kant (che pone l’uomo al centro di ogni cosa) deve assolutamente essere rivista. E l’ermeneutica si propone di cogliere il mondo antico e di mitigare l’invadenza dell’idea di uomo: per Gadamer l’Umanesimo fa ancora parte del mondo antico, il Rinascimento segna invece la nascita della modernità. Il rapporto non è, dunque, solo tra uomo e Dio, ma anche tra uomo e mondo (particolarmente rilevante è, sotto questo profilo, il titolo di un’opera di Löwith: " Uomo, mondo, Dio").