A cura di F. Allegri
Sin dai suoi esordi l'etica teorica di W. D. Ross (1877-1971) si presenta come una terza
via rispetto a forme rigide di deontologismo (che lui denomina con l'etichetta out-and-out
intuitionism) e rispetto all'utilitarismo (che, a suo avviso, ha raggiunto
la forma più equilibrata nella versione agatistica o ideale di G. E. Moore). Le
forme rigide di deontologismo a cui si contrappone Ross sono sia quelle che
negano alcuna rilevanza agli effetti delle azioni in termini di beni e mali (il
cosiddetto deontologismo puro), sia quelle che si esprimono in termini di
doveri (e, più spesso, di divieti) assoluti (il `deontologismo assolutista');
due forme strettamente connesse, com'è ovvio, ma da tenere distinte (e forse
non solo in linea teorica): è del tutto possibile che un deontologo puro non
sia assolutista, ossia non ammetta doveri incondizionati, e che un deontologo
assolutista non sia puro, ossia disponga di un principio che prescrive di
considerare gli effetti positivi e negativi delle azioni. Un esempio di
deontologismo puro (o quasi puro) ma non assolutista può essere considerato
Prichard; un esempio di deontologo assolutista ma non puro può essere forse
costituito da Kant. Nonostante che un atteggiamento del tutto
anticonseguenzialista e antiassiologista sia manifestato dal suo maestro
Prichard, perlomeno nel suo saggio più celebre, e uno dei pochi pubblicati, (Does
Moral Philosophy Rest on a Mistake?), Ross mostra un'evidente avversione
per l'out-and-out intuitionism. Questo è un'importante segno di
distinzione da Prichard, il quale ispira sì, per la stessa ammissione di Ross,
alcune delle sue tesi, ma di cui non può essere considerato un semplice
epigono, come talvolta capita di leggere, quasi che Ross non abbia formulato
tesi originali e si sia limitato a riproporre le idee del suo maestro. Le forme
rigide di deontologismo possono avere il problema logico di implicare che una
medesima azione sia nel contempo giusta ed ingiusta (se assumono una pluralità
di doveri o divieti assoluti) e presentano elementi di indubbia
controintuitività (asseriscono che non esiste circostanza alcuna che possa
giustificare una o più modalità di azioni, oppure che le conseguenze
catastrofiche di un atto non hanno alcun peso sullo status deontico o
normativo dell'atto). Il simbolo filosofico dell'out-and-out intuitionism
è visto da Ross nell'etica di Kant. Se sulla purezza del deontologismo kantiano
è lo stesso Ross ad avanzare dei dubbi, sul carattere assolutista dell'etica
deontologica di Kant Ross non transige: è convinto che Kant abbia sostenuto che
si danno almeno alcuni doveri che non conoscono eccezioni. La sua convinzione
si fonda principalmente sull'idea che la distinzione kantiana tra `doveri perfetti'
e `doveri imperfetti', vada interpretata come una distinzione tra doveri
incondizionati (che non cedono mai la precedenza) e doveri condizionati (che
talvolta cedono la precedenza). Anche se nella Grundlegung zur Metaphysik
der Sitten e nella Kritik der praktischen Vernunft non vi sono
appigli espliciti per una tale interpretazione (che però non è neppure esclusa,
perché le applicazioni del test di universalizzazione da parte di Kant possono
lasciare l'impressione che doveri come `dire la verità', `mantenere le
promesse', `pagare i propri debiti' ecc. non conoscano deroghe), la pratica
operativa di Kant sembra confermare in più occasioni la tesi di Ross (ribadita
da quest'ultimo anche nel suo commentario esegetico della Grundlegung
dal titolo Kant's Ethical Theory, uscito alla metà degli anni
Cinquanta). Kant quando si impegna in discussioni di etica pratica sostiene a
spada tratta e con una buona dose di dogmatismo il carattere incondizionato di
taluni divieti, mostrando una totale conformità ai dettami della morale
giudaico-cristiana (si veda la posizione assolutista di Kant a proposito del
suicidio, sia in Die Metaphysik der Sitten che nel testo postumo che
raccoglie le sue Lezioni di etica, e la ben nota quanto stupefacente
presa di posizione sulla menzogna nella replica a Benjamin Constant). In questi
scritti minori (e forse non solo in questi) sembra che Kant confonda la
categoricità del dovere con la sua assolutezza e l'universalità di una massima
con la sua generalità, ossia col fatto di non essere specifica. Né serve a
chiarire l'incongruenza la formula un po' `bizantina' adottata in proposito da
Landucci, per il quale secondo Kant "tutti i doveri sono sì parimenti
assoluti ed inderogabili, se considerati in se stessi, e nondimeno uno può
avere il sopravvento sull'altro, nelle situazioni concrete in cui un soggetto
venga a trovarsi", perché sembra un vano esercizio di quadratura del
cerchio (se un dovere è assoluto allora non può essere sopravanzato da altri,
pena la perdita della sua assolutezza; e se può essere sopravanzato da altri
allora non è assoluto; che sia assoluto in se stesso e non in rapporto
agli altri è scontato e pleonastico). L'etica dei doveri assoluti attaccata da
Ross ha comunque indubbie esemplificazioni nella tradizione filosofica (basti
pensare all'etica tomistica) e sopravvive sicuramente anche oggigiorno, sia
nelle forme non filosofiche del magistero ecclesiastico, sia in quelle
filosofiche dei cosiddetti neo-deontologi contemporanei (Anscombe, Fried,
Donagan ecc.). Sull'altro versante anche l'utilitarismo, secondo Ross, non si
accorda pienamente con le nostre intuizioni più ponderate. Esso non coglie il
carattere altamente personale di una parte dei nostri doveri (fedeltà,
gratitudine, riparazione) e sembra ridurre le nostre relazioni morali con gli
altri a quella tra benefattore e beneficiario. Per dirla con la terminologia
oggi in voga, l'utilitarismo si muove in una prospettiva interamente
agente-neutrale, mentre invece la moralità consta anche di elementi
agente-relativi. Sin dai tempi di Butler e di Richard Price (il primo è
richiamato espressamente da Ross a tal proposito) è stato messo a punto un
modello di critica all'utilitarismo che tuttora non conosce controrepliche
convincenti, e che Ross ripropone e amplia rispetto alle formulazioni
settecentesche. Tale modello si basa sul metodo che oggi si chiama
dell'equilibrio riflessivo, per il quale le implicazioni di un principio morale
devono essere coerenti con i nostri giudizi ponderati riguardo a casi
particolari. Quando una teoria si trova in conflitto con le nostre convinzioni
riflessive su un caso particolare, questo è un buon motivo per abbandonarla o
per correggerla. Anche se la dimostrazione della semplice equivalenza
estensionale tra `giusto' e `che massimizza l'utilità generale' non proverebbe
ancora che il bilancio comparato degli effetti è il fondamento della giustezza
delle azioni (in quanto per dimostrare ciò non è sufficiente mostrare che tutti
gli atti giusti massimizzano l'utilità e tutti gli atti che massimizzano
l'utilità sono giusti, ma che tutti gli atti che sono giusti sono tali perché
massimizzano l'utilità generale), il problema non si pone neppure secondo Ross
poiché si può far vedere che l'equivalenza estensionale tra `giusto' e `che
massimizza l'utilità generale' non si dà. Se fosse vero che l'unica
considerazione rilevante per stabilire se un'azione è giusta o meno è data
dalla totalità delle sue conseguenze in termini di beni e mali prodotti sulla
totalità degli esseri senzienti, comparate con le conseguenze di ciascuna delle
azioni alternative alla portata dell'agente, allora se le due azioni
alternative A e B più benefiche (o meno dannose) producessero le medesime
conseguenze in termini di beni e mali sulla totalità degli esseri senzienti, la
loro qualità morale non potrebbe che essere la stessa, sarebbero giuste allo
stesso modo, sarebbe indifferente optare per l'una o per l'altra purché si opti
per una delle due. Nessun altro fattore concernente le due azioni sarebbe
rilevante. Ma mettiamo che mentre la prima (A) comporta o la violazione di una
promessa, o la mancata riparazione di un danno procurato o, ancora, la mancata
restituzione di un favore ricevuto, la seconda (B) consista proprio
nell'adempimento a tale promessa o nella riparazione del danno procurato, o,
ancora, nella restituzione del favore ricevuto. Non diremmo che questo elemento
differenzia moralmente le due azioni a vantaggio della seconda? Non risulta
chiaro che non è indifferente optare per l'una o per l'altra (visto che
massimizzano l'utilità allo stesso modo), ma che invece è sicuramente B l'azione
da mandare ad effetto dal punto di vista morale, perché a parità di beni e mali
prodotti non comporta la trasgressione di una promessa o la mancata riparazione
di un danno procurato o la mancata restituzione di un favore ricevuto?
Analogamente, nel caso in cui, ferme restando le altre condizioni dell'esempio,
la somma algebrica risultante dalle conseguenze di A superasse solo lievemente
(di un'infinitesima parte) la somma algebrica delle conseguenze di B, davvero
sarebbe obbligatorio come implica l'utilitarismo eseguire l'azione A? Non
sarebbe doveroso invece, o perlomeno lecito, mandare ad effetto B? Non sarebbe
necessario, si chiede Ross, un maggior divario tra la somma algebrica
risultante da A e quella risultante da B per giustificare, rispettivamente, la
trasgressione della promessa, la mancata riparazione del danno procurato, la
mancata restituzione del favore ricevuto, comportata dall'esecuzione
dell'azione A? L'aspetto interessante è che Ross non utilizza affatto un metodo
nuovo per confutare l'equivalenza estensionale tra `giusto' e `che massimizza
l'utilità', ma esattamente lo stesso test adottato da Moore per
dimostrare l'erroneità di una teoria monista del valore intrinseco. Nel settimo
e ultimo capitolo di Ethics (1912), Moore aveva individuato quale punto
debole delle teorie utilitariste a lui precedenti la tesi per cui l'unica cosa
che ha valore intrinseco è il piacere. A suo avviso tale tesi implica
conseguenze paradossali. L'edonismo assiologico comporta che due ipotetici
mondi che contengano la medesima quantità di piacere abbiano lo stesso valore
intrinseco (l'uno non sia in alcun modo preferibile all'altro), anche se nel
primo gli individui possedessero una serie di conoscenze enormemente superiore
a quelle degli individui del secondo e vivessero una serie di esperienze
estetiche e sentimentali non sperimentate dagli individui del secondo mondo.
Comporta inoltre che se la quantità di piacere esperita nel primo mondo fosse
appena superiore a quella esperita nel secondo, il primo mondo avrebbe un
valore intrinseco superiore al secondo, pur non contenendo tutte le conoscenze
scientifiche e le esperienze estetiche e sentimentali contenute nel secondo. A
Moore questo test appare una reductio ad absurdum dell'edonismo
assiologico e la base per confutare qualsiasi altra teoria monista del valore.
Ma non sembra rendersi conto che questo stesso esperimento mentale (il test dei
due mondi), che lui adotta per criticare una forma di monismo assiologico,
poteva essere benissimo usato contro di lui, come fa Ross, ossia poteva essere
rivolto contro la sua teoria monista dell'obbligo. Si potrebbe dire che lo
stesso argomento che Moore adotta contro l'edonismo gli si ritorce contro per
quel che riguarda il suo conseguenzialismo, ossia per l'idea che conti solo la
produzione di beni e di mali per rendere giusta un'azione. Ross, seguendo
Sidgwick e Broad, estende questo modello anche alla sfera della giustizia
distributiva, avendo buon gioco nel far vedere come l'utilitarismo classico (cioè
l'utilitarismo dell'atto, edonista e del totale) e quello ideale nella versione
di Moore non forniscono risposte soddisfacenti a due problemi che sorgono in
tale ambito. Innanzitutto essi implicano quella che Parfit cinquant'anni dopo avrebbe
chiamato la `conclusione ripugnante', che forse esposta in termini di
sofferenze è ancor più efficace della versione presentata da Parfit per mettere
in luce l'inadeguatezza dell'utilitarismo classico e di quello di Moore.
Supponiamo di essere posti di fronte a due politiche demografiche alternative,
la prima che dà origine ad un mondo A popolato da pochissime persone (mettiamo
4) che vivono una vita fatta esclusivamente di stenti e sofferenze e la seconda
che dà origine ad un mondo B popolato da moltissime persone (supponiamo 600)
che soffrono solo lievemente, ma in maniera tale, dato l'ampio numero degli
abitanti in esso presenti, da rendere la sofferenza totale di B maggiore di A.
La situazione è ben illustrata dal seguente grafico, dove S1 ... Sn indicano
gli individui del primo mondo, T1 ...Tn quelli del secondo e i valori numerici
incolonnati sotto A e B indicano, rispettivamente, il grado di malessere
sopportato da ciascun individuo di A (-100) e il grado di malessere sopportato
da ciascun individuo di B (-1).
S1 - 100 T1 -1
S2 -100 T2 -1
S3 - 100 T3 -1
S4 - 100 T4 -1
---------- . .
- 400
. .
T600 -1
----------
- 600
Se guardiamo solo all'utilità totale, come implicano sia l'utilitarismo
classico che quello di Moore, allora siamo costretti a dire che è obbligatorio optare
per A perché minimizza le sofferenze totali. Ma credo invece risulti evidente
che sarebbe molto più ragionevole optare per il mondo B. Già Sidgwick aveva
presente il problema, ma gli sembrava che fosse più conforme allo spirito
utilitaristico puntare alla massimizzazione dell'utilità totale. Per replicare
a questa critica di Ross e di Broad non è necessario fuoriuscire
dall'utilitarismo. Come è noto, il cosiddetto utilitarismo della media
viene incontro proprio a questo tipo di problema, asserendo che per avere dei
responsi equilibrati è necessario suddividere l'utilità totale di ciascuna
alternativa di azione per il numero di individui coinvolti. In questo modo è
possibile incidere significativamente in quei contesti in cui linee di azione
alternative hanno a che fare con quantità diverse di persone, come nel caso
delle politiche demografiche. Riguardo all'esempio precedente, l'utilitarismo
della media prescriverebbe come doverosa la politica che dà vita al mondo B e
non più quella che dà origine al mondo A perché, come è facile constatare,
l'utilità media di B (-1) è nettamente più alta di quella di A (-100). Ma
neppure una tale versione di utilitarismo riesce a parare l'obiezione più
classica rivolta alle teorie utilitariste sulla giustizia distributiva. Essa
consiste nell'applicare il modello `a due versioni' presentato precedentemente
(due linee di azione A e B che producono grosso modo la medesima somma
algebrica) in cui all'alternativa `mantenere-non mantenere la promessa fatta',
`riparare-non riparare il torto procurato' ecc. si sostituisce l'alternativa
`distribuire ugualmente o non ugualmente la medesima quantità di beni'. Se il
numero di individui coinvolti è il medesimo, l'utilitarismo della media si
presenta come estensionalmente equivalente a quello del totale. Essi implicano
che nel caso in cui due azioni A e B producano la medesima eccedenza di bene
sul male e A la distribuisce in maniera uguale a tutti mentre B la distribuisce
in maniera disuguale, sia soltanto lecito moralmente eseguire A e non obbligatorio,
quando invece è più plausibile pensare che A sia obbligatoria e non
semplicemente lecita. E anche nel caso in cui l'utilità prodotta da A sia
lievemente inferiore a quella prodotta da B, ma contrariamente a quest'ultima
sia distribuita ugualmente, risulta A l'azione obbligatoria o perlomeno lecita,
mentre per l'utilitarismo è obbligatoria (e non solo lecita) l'azione
alternativa B. L'argomento viene invece preso sul serio da Pontara, ma non mi
sembrano convincenti le repliche da lui avanzate dal punto di vista
dell'utilitarismo classico. Esse si basano principalmente su due
argomentazioni: la prima è che non si danno parametri adeguati per misurare
distribuzioni disuguali di beni; la seconda è che se aggiungiamo al valore dei
benefici anche quello della loro distribuzione, non disponendo di un modello
che ci dica quando ha la precedenza l'uno e quando ha la precedenza l'altro, la
teoria dell'obbligo perde la sua completezza. Riguardo alla prima
argomentazione, Pontara mette in luce molto seriamente, avvalendosi dei
contributi più recenti delle scienze economiche, quanto sia problematico
individuare una misura della disuguaglianza, ossia un criterio per confrontare
e valutare distribuzioni disuguali. Egli analizza ben 15 possibili metodi di
misurazione della disuguaglianza e nessuno di essi soddisfa ragionevoli criteri
di idoneità. Ragion per cui fra due distribuzioni disuguali degli stessi beni è
estremamente difficile stabilire quale sia la più equa, la meno disuguale. Ma
la sua replica non sfiora minimamente il caso in cui una delle due
distribuzioni, a parità di utilità prodotta, è ugualitaria. Ossia, rimane il
fatto che nel caso in cui due azioni A e B producano la medesima somma
algebrica e A la distribuisce in maniera uguale a tutti mentre B la
distribuisce in maniera disuguale, l'utilitarismo ritiene soltanto lecito
moralmente mandare ad effetto A e non obbligatorio, quando invece è più
plausibile pensare che A sia obbligatoria e non semplicemente lecita. E anche
nel caso in cui l'utilità prodotta da A sia lievemente inferiore a quella
prodotta da B, ma contrariamente a quest'ultima sia distribuita ugualmente,
risulta più plausibile considerare A se non l'azione obbligatoria perlomeno
lecita, mentre per l'utilitarismo è obbligatoria (e non solo lecita) l'azione
alternativa B. Quindi anche concedendo a Pontara (ma è una concessione che si
può provare perlomeno a scalfire, anche se questa non è la sede perché
richiederebbe troppo tempo) che non esiste una misura plausibile della
disuguaglianza (che non si possono confrontare, dicendo qual è più equa, due
azioni che distribuiscono in modo disuguale gli stessi beni), l'obiezione
costruita sul modello in questione mantiene una parte consistente della sua
forza. Perché essa è rivolta anche e soprattutto a quei casi in cui due azioni
alternative non distribuiscono in maniera disuguale la stessa quantità di beni,
ma l'una li distribuisce in maniera ugualitaria e l'altra no. E per tali casi
l'utilitarismo (del totale e della media) continua a mostrare tutta la sua
inadeguatezza. Quanto alla seconda argomentazione, è dubbio, al contrario di
quello che pensa Pontara, che la completezza sia un requisito fondamentale per
le teorie morali. In proposito si possono registrare le opinioni negative di
molti filosofi morali. Pontara e gli utilitaristi classici sembrano pretendere
troppo da una teoria morale. Essa invece non può e non deve fornirci un
prontuario di risposte da applicare meccanicamente. Direi anzi che negli ultimi
vent'anni tra sostenitori delle etiche della virtù, anti-teorici (cioè, coloro
che ritengono che le teorie morali non svolgono alcuna funzione) e
particolaristi etici, la posizione di Pontara è largamente minoritaria. Non
solo la completezza non viene considerata un requisito fondamentale per un
sistema morale, ma addirittura viene giudicata una caratteristica negativa, in
quanto lede l'autonomia di giudizio del singolo nelle situazioni particolari. Quindi
l'incompletezza non è necessariamente un difetto, come Pontara sembra ritenere.
La completezza sarà semmai un requisito irrinunciabile per le teorie
utilitariste, che sin dalle origini vi ambiscono. Ma allora la questione che
pone Pontara sarà un problema per il cosiddetto `utilitarismo esteso', che
prova a coniugare insieme in un sistema di calcolo felicità ed uguaglianza, non
tanto per le teorie che si chiamano fuori dalla sfera utilitarista. E in ogni
caso, anche considerando la completezza un requisito positivo ed importante in
un sistema morale, a me pare che sia preferibile tenersi l'incertezza sul
conflitto tra un principio di utilità e un principio di distribuzione uguale
piuttosto che disporre di un sistema completo che però sull'altare della
completezza sacrifica le esigenze della giustizia. Come ho già sottolineato, il
presupposto di questo test delle due linee di azione o dei due mondi sta
nell'idea rossiana (solo implicita e non teorizzata in Butler e Price) che le
teorie morali debbono accordarsi alle nostre intuizioni ponderate e non
viceversa (come ai nostri giorni sembra invece sostenere P. Singer). Questa
tesi è stata spesse volte stravolta da alcuni utilitaristi, come se quello di
Ross fosse un mero appello all'uomo della strada, pieno di quei pregiudizi
(quei tabù, quelle superstizioni) che si leggono nelle rubriche di lettere ai
giornali. È vero che in Ross vi è più di un passaggio che fornisce un alibi a
quest'atteggiamento, ma quando la questione è posta in termini approfonditi), allora
emerge limpidamente che il richiamo di Ross è rivolto alle convinzioni
riflessive delle persone lucide e ben informate. E inoltre non si dovrebbe
dimenticare che la pratica operativa di Ross va quasi sempre in questa
direzione (l'utilitarismo non è certo criticato tramite un semplice appello
all'uomo comune). Mentre Moore è convinto che l'unica alternativa all'idea di
doveri assoluti sia costituita da un appello esclusivo alle conseguenze e
assimila le nozioni di `azione assolutamente giusta' e `azione intrinsecamente
giusta'), Ross ritiene che si dia una terza possibilità, che consiste appunto nel
tenere distinte le due locuzioni fatte collassare da Moore. Che vi siano classi
di azioni intrinsecamente giuste non implica che esse siano assolutamente
giuste, ossia che debbano essere eseguite incondizionatamente. È possibile che
si diano generi di azioni giusti di per sé, senza che questo significhi che
ogni qualvolta essi sono coinvolti in una situazione debbano essere eseguiti. I
doveri a cui tali generi di azioni danno origine non sono quindi
doveri assoluti, ma doveri relativi, che Ross denomina con l'etichetta `doveri
`prima facie' (un'espressione infelicissima anche se storicamente ha vinto su
locuzioni più adeguate; essa va concepita come una formula tecnica che non ha
il valore semantico della locuzione latina che la esprime). Moore non comprende
che se il conseguenzialismo è una condizione sufficiente per negare che ci
siano azioni assolutamente giuste e quindi per risolvere il problema del
conflitto logico tra doveri, non è una condizione necessaria. Per Ross, oltre
alla valutazione delle conseguenze, vi sono tipi di azioni (come mantenere le
promesse, restituire un favore ricevuto
ecc.) i quali danno origine ad obblighi indipendenti dalle conseguenze (lo
abbiamo visto con il test delle due linee di azione), ma che non per
questo sono improrogabili, ossia debbono essere eseguiti sempre, senza che vi
sia circostanza alcuna che ne giustifichi la trasgressione. È questo un altro
modo per risolvere il problema della potenziale incoerenza logica delle teorie
deontologiche assolutistiche. Ma la prospettiva di Ross si rivela ancora più
radicale dell'utilitarismo nel rifiuto di doveri assoluti, perché se tale
rifiuto è condiviso con l'utilitarismo a livello di classi di azioni, non è più
condiviso a livello di princìpi. Anche l'utilitarismo ritiene
che non vi sia una classe di azioni (dire la verità, mantenere gli impegni, non
uccidere ecc.) che debba sempre essere eseguita senza eccezioni, ma a livello
di princìpi l'utilitarismo si presenta come una nuova forma di assolutismo,
secondo Ross, perché ammette come assoluto e non derogabile il principio che
prescrive di massimizzare l'utilità collettiva. Per Ross anche il dovere di
massimizzare il benessere e minimizzare i danni va concepito come un dovere prima
facie e come tale talvolta deve cedere la precedenza agli altri doveri. Da
questo punto di vista Ross ritiene che il suo sistema, anche se meno elegante e
semplice, sia più equilibrato di quello kantiano in cui gli obblighi perfetti
hanno sempre la precedenza sugli obblighi imperfetti e di quello utilitarista
in cui l'istanza di massimizzazione regge e governa tutte le altre norme.