Già nella seconda metà dell'Ottocento si andò sviluppando negli ambienti culturali tedeschi un ritorno a Kant in funzione antipositivistica. Alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento questo "ritorno" si configurò come un vero movimento filosofico, definito "neocriticismo" o "neokantismo", che ebbe i suoi centri di elaborazione nella "Scuola di Marburgo" e nella "Scuola di Baden". Alla prima appartennero Cohen, Natorp, e Cassirer, alla seconda Windelband e Rickert.I membri della "Scuola di Baden" si dedicarono soprattutto a delineare delle "
filosofie dei valori", partendo dalla contrapposizione kantiana tra "fatto" e "valore". Wilhelm Windelband (Potsdam 1848-Heidelberg 1915), filosofo tedesco, professore nelle università di Zurigo, Strasburgo e Heidelberg, è uno dei più noti storici della filosofia, è considerato il maggior rappresentante della cosiddetta "filosofia dei valori". E’ autore di Preludi (1884), La libertà del volere (1904), Manuale di storia della filosofia (1892) Principi di logica (1912), Introduzione alla filosofia (1914), Storia e scienza naturale (1894, vi critica le idee esposte in Introduzione alle scienze dello spirito da Dilthey). Storico della filosofia, studioso di Platone, Windelband contesta la concezione, propria dei positivisti classici – anch’essi ritenuti "metafisici" al pari degli idealisti o degli spiritualisti -, che la filosofia debba coordinare, rielaborare e condurre ad unità sistematica i risultati delle scienze. Non c'è dubbio che la filosofia deve collegarsi con i risultati scientifici, ma per individuare in essi la "struttura intima" del lavoro intellettuale e le sue "premesse obiettive". Deve individuare cioè il loro "valore di verità". Ogni concezione scientifica è una sistemazione delle esperienze, anzi delle rappresentazioni, secondo una "regola" di "ordine logico". Ed è questa regola che costituisce il "valore di verità" di una teoria scientifica. Tale regola anzi è la norma a cui l'attività conoscitiva deve conformarsi nel suo procedere. Dunque la filosofia dev'essere in generale "scienza critica dei valori universali", cioè scienza del vero, del bene e del bello. Essa deve indagare quando e a quali condizioni le attività teoretica pratica ed estetica sono contrassegnate dai loro valori e li attuano nei loro prodotti. In tal senso la filosofia non ha per oggetto il contenuto empirico del conoscere del volere e del sentire, ma le "norme" in virtù delle quali il conoscere il volere e il sentire raggiungono i loro valori. Essa pertanto non tratta "giudizi di fatto", ma "giudizi di valore". I primi sono propri della scienza; i secondi invece non possono esser determinati scientificamente, ma solo filosoficamente. Ma quali caratteri deve avere un autentico giudizio di valore? Esso - dice Windelband - dev'esser tale da aspirare ad avere una validità assoluta. Pertanto gli autentici giudizi di valore sono in sostanza "ideali" e "necessari"; anzi sono "idealmente necessari"; essi cioè possono anche non esser riconosciuti validi dalla singola coscienza giudicante, ma "devono" esser tali da poter essere riconosciuti validi universalmente. Sicché l'uomo, nel suo conoscere, agire e sentire, dev'esser sempre "idealmente giudicante"; deve esprimere le regole della sua "coscienza normativa"; cioè deve adeguare la sua "coscienza empirica" alla "coscienza normativa" ch'è il carattere universale e comune a tutti gli uomini. Ecco allora che Windelband contesta la concezione positivistica secondo cui alla filosofia spetterebbe di coordinare, rielaborare e ricondurre ad unità concettuale i risultati scientifici, anche se indubbiamente la filosofia deve correlarsi ai risultati della scienza, ma per trovare in essi la struttura nascosta del lavorio speculativo e le sue precondizioni oggettive di operatività, individuando così il loro valore veritativo. Ogni visione di tipo scientifico organizza esperienze e rappresentazioni secondo un sistema di elaborazione/strutturazione logicamente fondato, ed è questo sistema che determina il valore veritativo. Questo sistema è il principio a cui il conoscente deve adeguarsi nel suo processo di apprendimento.Per Windelband la filosofia si costituisce come "scienza critica dei valori universali", che sono i classici valori scolastici del vero, del bene, del bello. La filosofia non ha come oggetto il contenuto empirico della conoscenza, della volontà e della percezione, ma le modalità mediante le quali queste pervengono ai loro valori. Il sapere filosofico dunque non applica giudizi di fatto, tipici della scienza, ma giudizi di valore, che non possono esser costituti in prospettiva scientifica, ma solo dal punto di vista speculativo. Per Windelband un autentico giudizio di valore dev'esser in grado di aspirare ad una validità di tipo assoluto, essendo sostanzialmente ideali e necessari, o, più esattamente, sono "idealmente necessari". Per cui l'uomo come singolo e come collettività, mediante gli atti del conoscere, dell'agire e del sentire, deve sempre porsi in condizione di essere "idealmente giudicante", di esprimere la propria "coscienza normativa" che si eventua nella creazione e conservazione delle regole, di conformare infine la sua "coscienza empirica" alla "coscienza normativa" che è la caratteristica universale tipica di ogni essere umano. La lezione di Windelband, se fa propria la tendenza kantiana alla schematizzazione ed all'astrattezza, è tuttavia importante per il ruolo che accorda alla scienza storica, ruolo che assumerà sempre più un carattere determinante in Dilthey e nell'altro esponente della Scuola del Baden, Rickert. Nel 1904, Windelband scrive La libertà del volere, in cui parte dai seguenti presupposti: la conoscenza non può mai essere assoluta, sicchè mai conosciamo la realtà quale essa è effettivamente; la nostra conoscenza, dunque, non attinge altro che fenomeni. Ma Windelband – dopo questo incipit kantiano – estende quello che era l’orizzonte di Kant: se per questi la conoscenza fenomenica è determinata da forme a priori (spazio e tempo nel sensibile; le 12 categorie per l’intelletto), per Windelband, invece, essa è determinata dall’applicazione di criteri diversi ("punti di vista") in forza dei quali si legge la realtà, con l’inevitabile conseguenza che la connessione causale necessaria legante i fenomeni l’uno all’altro è solo un "punto di vista", un modo di fenomenizzare (e di distorcere) che non può pretendere di conoscere la realtà nella sua noumenicità. Dunque, se per Kant c’è una sola forma di fenomenizzazione, per Windelband, viceversa, ne esistono una pluralità, tutto dipende dal punto di vista che si assume. Così, accanto alla causalità necessaria – usata nell’ambito delle scienze -, esistono anche altri modi di fenomenizzare il reale, ad esempio considerando gli oggetti in una sequenza non di cause ed effetti, ma di mezzi e fini in vista di valori: e il valore è, evidentemente, qualcosa di nettamente diverso da quella causalità necessaria in cui a contare è solamente la connessione necessaria, a prescindere dai valori; qui invece – cioè nell’ambito dei valori – vale l’esatto opposto, a contare sono i valori e, conseguentemente, la possibilità di creare gerarchie assiologiche, senza che la causalità necessaria perda il suo valore. Anzi, essa è affiancata dalla causalità libera, senza la quale non sarebbe in alcun modo possibile parlare di valori: ne segue che ci troviamo dinanzi non già a realtà diverse, bensì a diverse modalità di fenomenizzazione di una stessa realtà. In perfetta sintonia con Windelband, Cassirer – in Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna (1937) – sostiene che vi sono diversi modi di determinazione dell’oggetto, diversi perché obbedienti a diverse forme di conoscenza, che Casirer chiama forme "simboliche", a sottolineare che non c’è oggettività, ma soggettività che costituisce l’oggetto nella sua simbolicità. Così la scienza determina l’oggetto in connessione causale, mentre la moralità lo determina coi valori. Per meglio chiarire questo punto tipicamente neokantiano, Windelband ricorre ad un esempio particolarmente chiarificante: immaginiamo di avere a portata di mano una statuetta antica; essa sarà considerabile sotto diversi punti di vista, ossia come oggetto di più modi di determinazione. Ad esempio, sul piano naturalistico del rapporto tra causa ed effetto, potrò considerarla come insieme di determinati elementi chimici interagenti fra loro; sul piano estetico, invece, introdurrò forme simboliche e potrò dire che la statuetta è bella; ancora, sul piano religioso la considererò sacra secondo modalità diverse da quelle per cui la concepivo come bella o come aggregato di elementi. Ciò significa, allora, che queste modalità di determinazione sono tra loro indipendenti, cosicchè potrò venerare la statuetta come sacra anche qualora non sia bella. Ne segue che, in realtà, di fronte a me non ho una statuetta in assoluto, ma, al contrario, una statuetta considerata ora dal punto di vista naturalistico, ora da quello estetico, ora da quello religioso: e i criteri con cui la considero in questi modi sono assolutamente slegati l’un dall’altro e non riconducibili fra loro (così, non posso valutare la bellezza della statua considerandone la composizione chimica). Ci troviamo qui di fronte ad un dualismo, o, meglio, ad un pluralismo che però non è più di tipo metafisico (quale invece era quello kantiano del noumeno e del fenomeno), ma è un pluralismo dei punti di vista e che, in forza di ciò, elimina il problema cartesiano – allontanato ma non debellato da Kant – dello "spettro nella macchina" (G. Ryle): questo problema, crassamente evidente in Cartesio e teoricamente allontanato (ma non del tutto) da Kant, è completamente sconfitto da Windelband e da Cassirer che, in questa maniera, salvano la libertà dell’uomo: sono libero perché il determinismo non è che un punto di vista, cosicchè, quando mi considero soggetto morale, non sono un corpo entrante nella serie causa/effetto e ciò non perché la realtà ha due diversi ordini (il fenomenico e il noumenico di cui parlava Kant); basta dire che non c’è oggettività assoluta e subito la causalità non è che un a priori della mente umana (e per ciò presente in tutti gli uomini) che fenomenizza in svariati modi, simbolizzando la realtà e riducendola (dunque ingabbiandola) a forme soggettive. Similmente, certo esistenzialismo novecentesco arriva a negare la realtà nella sua datità – quella presenzialità di cui parla Heidegger -, sostenendo che la realtà non è mai data nella sua oggettiva assolutezza, ma è necessariamente sempre ridotta a significati legati all’esistenza, in virtù del rapporto esistenziale determinato dal soggetto stesso (e non dalle forme a priori dei neokantiani); secondo gli esistenzialisti, sento nella mia esistenza un certo rapporto nel vivere le cose, un modo determinato da me stesso e dal mio modo di percepire la realtà.
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