WISDOM
John Terence Dibben Wisdom (1904-1993) fu docente a Cambridge dal 1952 come successore alla cattedra che fu prima di Moore e poi di Wittgenstein. Il suo pensiero può essere ripartito in due fasi: fino alla metà degli anni Trenta, Wisdom dedicò particolare attenzione all’analisi logica di Bertrand Russell e ritenne che ufficio del filosofo fosse operare la riduzione degli oggetti e innanzitutto dei dati d’esperienza a relazioni primarie, evitando in tal maniera di appesantire l’ontologia col richiamo a entità superflue. Fedele dunque al principio del “rasoio” di Ockham, Wisdom concepisce gli oggetti materiali soltanto come costruzioni logiche e ciò gli consente di sottrarsi alla concezione empiristica secondo cui essi sarebbero dei veri e propri dati sensoriali. Questa posizione però non presenta alcun rilievo ontologico, giacché Wisdom non arriva mai ad affermare che tale è la costituzione del reale: egli si limita a sostenere che, nel parlare di oggetti, noi possiamo fare più opportunamente ricorso a un linguaggio che parli di altri elementi più semplici e originari. Ciò è da Wisdom sostenuto in opere come Interpretazione e analisi (1931) e in Costruzioni logiche (una raccolta di saggi apparsi su The Mind fra il 1931 e il 1933). Successivamente, dopo aver accolto una nutrita serie di obiezioni mossegli dall’empirismo logico (indirizzate soprattutto contro l’atomismo russelliano e le posizioni wittgensteiniane del Tractatus logico-philosophicus), Wisdom cambiò rotta e, in opere come Perplessità filosofica (1936) e Metafisica e verificazione (1938), andò sostenendo che il compito della filosofia era identificare le motivazioni che ci inducono a scegliere un determinato insieme di concetti, che segnano cioè la nostra adesione a determinate posizioni speculative. L’inevitabile conseguenza che scaturisce da questi sviluppi è che la filosofia deve esclusivamente chiarificare fatti e comportamenti e non censurarli: il pensiero comune e quello scientifico presentano dei paradossi, causati dalla confusione tra i diversi livelli e usi del linguaggio che andrebbero mantenuti distinti. Il paradosso non è che un’argomentazione tipica della filosofia tradizionale e soprattutto della metafisica che, benché abbia un procedimento deduttivo, non è conclusiva e consente di sostenere si ala tesi sia l’antitesi. Le questioni che presentano questa forma antinomica sono però insensate, ma sono dotate di una loro specifica validità e richiedono un particolare metodo risolutivo, conducendo per tale via a una nuova e più alta comprensione di quel che è già noto. In certi casi (peraltro piuttosto diffusi), proprio tali paradossi hanno dimostrato insospettata fecondità per la crescita della conoscenza e per il raggiungimento di livelli di consapevolezza sempre più alti, come nota Wisdom in Paradosso e scoperta (1965). In questa stessa direzione, egli non intende produrre un rifiuto neppure della metafisica, poiché, benché essa non sia in grado di sollevare la stragrande maggioranza dei problemi che essa stessa solleva e benché rappresenti uno stato patologico del soggetto che la esercita, ciò non di meno essa riesce a fornire stimoli decisivi per la riflessione.
ofo.