A prescindere dalla concezione wittgensteiniana del significato come uso, troviamo anche una dottrina più direttamente linguistica. Al principio delle
Ricerche filosofiche , Wittgenstein asserisce che quasi mai le parole funzionano come nomi, ovvero come etichette che incolliamo in modo rigido ed univoco sugli oggetti. Se le cose stessero sempre in questi termini, i problemi della definizione e della comunicazione espressiva risulterebbero molto più difficili: ma le cose non stanno così. Sia nel linguaggio scientifico sia (e in misura ancora maggiore) in quello ordinario, le parole si configurano piuttosto come mobili costrutti, come fluidi strumenti il cui significato muta in rapporto alle funzioni specifiche cui sono destinati. Ed è proprio la
funzione , la funzione pratica del linguaggio, che deve essere concepita in maniera totalmente innovativa: una maniera non più univoca, ma pluralistica. In effetti, come sottolinea con particolare energia Wittgenstein (in un'evidente prospettiva autocritica rispetto a certe tesi del
Tractatus ), lo scopo degli enunciati linguistici non è solo quello di raffigurare il mondo o di descriverlo:
"
si pensa che l'apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti. E cioè: uomini, forme, colori, dolori, stati d'animo, numeri, ecc. Come s'è detto, il denominare è simile all'attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una preparazione all'uso della parola. Ma a che cosa ci prepara? " (Ricerche filosofiche, par. 26)
E' anche per rispondere a questa domanda che Wittgenstein propone di considerare tra i compiti primari dell'analisi filosofico-linguistica quello di individuare le varie funzioni svolte dall'attività del linguaggio. Mentre la teoria tratteggiata nel
Tractatus assolutizzava in qualche maniera la funzione raffigurativo-denominativa, ora il "nuovo" Wittgenstein sostiene invece che "
con le nostre proposizioni noi facciamo le cose più diverse " (par. 27). Un celebre esempio addotto nelle
Ricerche filosofiche riguarda il linguaggio esclamativo. Wittgenstein menziona le seguenti esclamazioni: "
acqua! Via! Ahi! Aiuto! Bello! No! " (par. 27). E' evidente che queste locuzioni adempiono a compiti espressivi che nulla hanno a che fare con la funzione denominativa: le prime di esse esprimono un'invocazione, le seconde un ordine (o una "preghiera"), la terza un lamento, e così via. Il che dimostra, appunto, per riprendere un'espressione di Wittgenstein poc'anzi citata, che col linguaggio noi letteralmente "
facciamo le cose più diverse ". A queste cose, o, meglio, a queste attività, Wittgenstein ha dato il nome di
giochi linguistici , espressione con la quale egli intendeva (probabilmente) sottolineare, da un lato, il carattere sociale e artificiale (nel senso, non negativo, di non-naturale, di elaborato culturalmente dall'uomo) dell'agire linguistico, e dall'altro lato il fatto che questo agire, nonostante la sua apparente gratuità e la sua relativa imprevedibilità, ha determinati fini ad esso immanenti, e soprattutto rispetta (come tutti i giochi) determinate regole. Ed è proprio laddove impiega la nuova definizione del fatto linguistico come gioco che Wittgenstein torna a sottolineare in modo molto efficace il fondamentale principio della pluralità delle funzioni linguistiche e degli asserti proposizionali:
"
ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda, ordine? Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d'impiego di tutto ciò che chiamiamo segni, parole, proposizioni. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati ". (Ricerche filosofiche, 23)
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