IL PRESCRITTIVISMO UNIVERSALE : IL METODO CRITICO-RAZIONALE : la costante più importante di tutta la produzione hareana rimane il metodo analitico di rilevare, discutere e, possibilmente, risolvere i problemi. " Sorprendentemente, molti filosofi, appena si dedicano a una questione pratica, dimenticano tutto del loro sapere specifico e ritengono che i problemi della piazza del mercato possano essere risolti soltanto dai metodi della piazza del mercato, vale a dire da una combinazione di pregiudizio (chiamato intuizionismo) e retorica. Il contributo di ogni filosofo a tali discussioni consiste nella capacità che egli deve possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e, mostrando le loro proprietà logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto, argomentazioni valide " (Moral thinking: its level, method and point). Al di là dei termini coloriti e simpatici che caratterizzano molte delle pagine di Hare, va sottolineato un punto fondamentale: egli adotta il metodo proprio della filosofia analitica del linguaggio applicandolo al linguaggio morale, e tentando di scoprire il 'significato', le proprietà logiche fondamentali che regolano i termini propri di tale linguaggio ('buono', 'dovere', giusto'…).
LA PRESCRITTIVITÀ : Hare afferma: " la prescrittività dei giudizi morali può essere descritta formalmente come la proprietà di comportare almeno un imperativo […]. Formuliamo un enunciato prescrittivo se e solo se, per qualche atto A, qualche situazione S e qualche persona P, se P assente (oralmente) a ciò che diciamo e non fa A in S, è logicamente necessario che l'assenso di P sia insincero " (Moral thinking: its level, method and point). Una proprietà formale, dunque. Il primo dei due poli del prescrittivismo universale risulta così essere un elemento squisitamente legato alla filosofia analitica del linguaggio, e specificamente del linguaggio morale che viene, così, assimilato ad una sorta di linguaggio prescrittivo. Ciò testimonia innanzitutto l'importanza attribuita a tutti quegli aspetti logici e di significato dei termini morali che costituiscono il contesto filosofico all'interno del quale Hare si muove soprattutto nei primi anni della sua carriera.; in secondo luogo è indice del tentativo di percorrere la 'terza via in etica', distaccandosi parimenti dall' "emotivismo" (per il quale le nozioni etiche sarebbero delle realtà oscure e soggettive, tranquillamente rimpiazzabili da un particolare tono di voce o da alcuni punti esclamativi) e dal "naturalismo" (che vedrebbe, invece, nelle nozioni etiche delle realtà con proprietà assolutamente riconducibili alle proprietà delle realtà naturali).
L'UNIVERSALIZZABILITÀ : tra le varie spiegazioni dell'universalizzabilità, Hare propone la seguente come la più completa: " è contraddittorio dare giudizi morali diversi su situazioni di cui ammettiamo l'identità per quanto riguarda le loro proprietà descrittive universali. Per giudizi 'diversi' intendo 'tali che, se fossero riferiti alla medesima situazione, sarebbero reciprocamente incompatibili' " (Moral thinking: its level, method and point). Ancora una volta il confronto con il contesto filosofico nel quale Hare si muove risulta assolutamente necessario e funzionale alla comprensione del suo stesso pensiero. Egli riconosce che nei giudizi etici nei quali compaiono termini morali (ad esempio 'buono') è presente una componente descrittivistica che permette di collegare, in modo variabile, tali termini a criteri diversi; questa mutevolezza è determinata dalla diversità delle classi di oggetti giudicate. Quando diciamo che una mela è 'buona' abbiamo in mente qualità del tutto diverse rispetto a quando diciamo che questa è una 'buona' esecuzione della quinta sinfonia di Beethoven; cambiano i criteri del nostro giudizio, rimane invariata l'intenzione di lodare ed eventualmente raccomandare ciò che abbiamo giudicato 'buono'. Facendo così proprie alcune istanze del "descrittivismo", Hare torna ad attaccare i suoi due nemici principali: al contrario di quanto afferma l'emotivismo i nostri giudizi morali non sono immotivati, non esprimono soltanto un nostro stato d'animo ma sono il risultato di un processo razionale volto al reperimento, nell'oggetto giudicato, di alcuni criteri che giustificano il giudizio stesso; il fatto che il significato descrittivo di un termine possa legittimamente variare permette di svincolare un termine morale (il 'buono' dell'esempio) da un insieme fisso e immutabile di proprietà cui il naturalismo lo vorrebbe invariabilmente collegato. Dopo aver esaminato questi primi tre elementi, è necessario fare alcune considerazioni. Sia la prescrittività sia l'universalizzabilità (che confluiscono nella dottrina da Hare stessa chiamata "prescrittivismo universale"), sia il metodo critico-razionale (caratteristico dell'ambito analitico all'interno del quale Hare prende le mosse) sono elementi formali, metaetica, analitici. È però possibile e doveroso evidenziare il legame che unisce questi elementi ad altri aspetti decisamente meno metaetici e più normativi. In altri termini è Hare stesso a mettere in risalto i punti di unione tra le due fasi del proprio pensiero. Iniziamo da alcune considerazioni metodologiche. Se è vero che il metodo analitico è una costante, è però anche vero che la facoltà di chiarire i concetti morali mediante l'analisi delle loro proprietà logiche non è, da sola, sufficiente allorché lo scopo delle proprie riflessioni sia l'elaborazione di una dottrina normativa e non solo un tipo di pensiero rigorosamente metaetico. " La razionalità è una qualità del pensiero diretto a rispondere alle questioni, e la determinazione di quali procedure siano razionali dipenderà da quali sono le questioni. Se tentiamo di rispondere a questioni fattuali, è ovvio che la razionalità ci obbliga ad accertare i fatti, proprio perché le questioni sono fattuali. Dobbiamo quindi chiederci perché occorra fare lo stesso quando rispondiamo a questioni morali, le quali non sono interamente fattuali, ma hanno una componente prescrittiva " (Moral thinking: its level, method and point). Il passaggio da questioni metodologiche a questioni sostanziali viene da sé. La 'sostanza' che Hare prende in considerazione è costituita dalla "preferenze". Queste sono strettamente collegate, identificate quasi, con le prescrizioni. " Il requisito di universalizzare le nostre prescrizioni, il quale a sua volta è un requisito logico, posto che ragioniamo moralmente, ci chiede di trattare le prescrizioni degli altri (vale a dire, i loro desideri e predilezioni, e in generale le loro preferenze) come se fossero le nostre " (Moral thinking: its level, method and point). Vale la pena di fare un breve accenno alla componente descrittivistica delle prescrizioni di cui si diceva più su. Quando si esprime un giudizio morale si esprime un giudizio prescrittivo arricchito da un elemento descrittivo che permette, come s'è visto, di collegare i termini morali (buono) a criteri diversi a seconda delle classi d'oggetti che vengono giudicate (la mela piuttosto che la quinta sinfonia di Beethoven). Preferenze ed elementi descrittivi richiedono e ad un tempo giustificano la commistione di forma e sostanza, di metaetica ed etica normativa propria del pensiero di Hare. A fare da sfondo a metodi e sostanze il centralissimo concetto dell'universalizzabilità, che permea di sé il pensiero di Hare conferendogli coerenza ed eleganza. Anticipando alcune nozioni che verranno illustrate in seguito, pare possibile tracciare una sorta di planimetria del pensiero di Hare. Vi sono due piani nettamente distinti (seppur non radicalmente separati) costituiti dall'approccio metaetico e normativo alla filosofia morale. All'interno di ciascuno di essi, poi, sembra riscontrabile un'ulteriore duplice divisione: una forma (le nozioni di prescrittività ed universalizzabilità) e un elemento assimilabile ad un contenuto (le preferenze) per la parte metaetica; una forma (l'universalizzabilità dei princìpi) e un elemento decisamente contenutistico (i fatti attinenti al mondo) per la parte normativa.
L'UTILITARISMO DELL'ATTO
Prima di esaminare nel dettaglio la dottrina utilitaristica di Hare, è necessario soffermarsi brevemente sul contesto filosofico entro il quale egli opera, passando in rassegna alcuni tratti tipici dell'utilitarismo con i quali si trova a dover fare i conti nel momento dell'elaborazione della propria teoria normativa.
LA RIDUZIONE : " la riduzione è l'artificio di considerare tutti gli interessi, ideali, aspirazioni e decisioni sullo stesso piano, e tutti rappresentabili come preferenze, forse di diverso grado di intensità, ma per il resto da trattare nello stesso modo ". Costante indispensabile di tutte le teorie utilitaristiche, la riduzione non è che il primo di tre importanti artifici dei quali l'utilitarismo si avvale per appianare, raffinare e localizzare il campo dal quale attingere i propri elementi sostanziali. Essa assume un'importanza fondamentale soprattutto nel contesto di quelle forme di utilitarismo che propongono come principio di utilità la massimizzazione dei benefici e la riduzione dei danni o a prevenire danno, dolore, male o infelicità alla parte il cui interesse è preso in considerazione: e se la parte è la comunità in generale, allora si tratterà della felicità della comunità ". Nel contesto del pensiero di Hare, la riduzione assume una connotazione del tutto particolare: dall'artificio di considerare e trattare allo stesso modo tutti i desideri e gli interessi, essa diventa il principio di " attribuire il medesimo valore agli eguali interessi di tutti ". Lasciando da parte benefici e danni, Hare si rifà piuttosto ad una concezione simile alla regola aurea veterotestamentaria ("non fare a nessuno ciò che non piace a te") e più ancora alla sua formulazione in positivo presente nei Vangeli ("quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti"). In base a queste premesse, Hare è in grado di formulare il proprio principio di utilità nei seguenti termini: " ciò che il principio di utilità mi richiede è di fare per ogni individuo interessato alle mie azioni ciò che vorrei fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui io fossi precisamente nella sua situazione; e se le mie azioni interessano più di un individuo (come accade quasi sempre) il principio mi richiede di fare ciò che vorrei, in tutto e per tutto, fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui mi trovassi in tutte le loro situazioni (naturalmente, non nello stesso tempo, ma, come dire, in ordine casuale) ". Risulta evidente il legame tra principio di utilità e prescrittivismo universale: il richiamo alla possibilità di occupare casualmente tutte le posizioni delle parti eventualmente interessate dagli effetti della mia azione richiama da vicino la proprietà formale della prescrittività (che prevede la sottoscrizione dell'imperativo singolare rivolto a se stessi 'fa x' allorché si sia enunciato il giudizio morale 'si deve fare x') e della universalizzabilità (secondo la quale dalla prescrizione 'si deve fare x' discende l'ulteriore prescrizione 'chiunque, in situazioni simile per gli aspetti rilevanti, deva fera x').
L'IDEALIZZAZIONE : interrogandosi sulla natura dei
propri oggetti, lontano dalla tentazione di restringere arbitrariamente il campo
di ciò che può dirsi una preferenza (interessi, ideali, aspirazioni…) e
parimenti lontano dall'ostinarsi a considerare tali elementi come tutti
assolutamente uguali, l'utilitarismo opta per una sorta di diversificazione
qualitativa e riconosce di dover prendere in considerazione solo determinate
preferenze. L'idealizzazione è dunque l'artificio che consente di tener conto
solo di quelle preferenze che rispondono a determinati requisiti, manipolando la
nozione stessa di utilità alla quale si rivolge la scelta di un individuo. Hare
si trova a dover affrontare un problema analogo a quello che interessa le teorie
utilitaristiche. La componente sostanziale della propria dottrina normativa gli
richiede di determinare con esattezza quali siano le preferenze ideali, ovvero
quali classi di fatti sia necessario tener presente allorché si esprime un
giudizio morale, e quali siano le modalità per determinare tale classe. La
compresenza di elementi prescrittivi e descrittivi nei giudizi morali ha un
significato ben preciso: al pari delle asserzioni fattuali, prima di esprimere
le quali è necessario accertare i fatti perché esse sono una 'pretesa di
verità', anche i giudizi morali necessitano di un simile accertamento sui fatti
prima che possano essere pronunciati su di essi; è evidente che l'analogia tra
le asserzioni di fatto e i giudizi morali non si fonda tanto sulla possibilità
che questi ultimi possano valere, grazie all'accertamento fattuale, come pretese
di verità, quanto, piuttosto, sul richiamo stesso all'attenzione per i fatti: "
anche se i giudizi morali non possono essere chiamati pretese di verità senza
ulteriori qualificazioni […], essi sono soggetti ad un analogo requisito di
accertare i fatti, prima di pronunciarsi moralmente su di essi. La funzione dei
principi morali è quella di fornire una guida pratica universale per tutte le
situazioni di un certo tipi […]. Tutto ciò si dissolverebbe nel nulla se i
nostri giudizi morali fossero privi di ogni relazione con i fatti attinenti alle
situazioni che stiamo commentando ". Si impone dunque ad Hare la necessità
di determinare un criterio per selezionare i fatti a cui prestare attenzione.
Attraverso una metodologia propriamente 'induttiva' egli giunge alla
formulazione dei giudizi di rilevanza: partendo dall'ipotesi che una certa
caratteristica situazionale potrebbe essere rilevante si mettono alla prova i
principi che menzionano questa caratteristica; se tali principi risulteranno
accettabili altrettanto accettabile sarà la caratteristica situazionale e sarà
possibile formulare un giudizio di rilevanza. La più ovvia candidata a ricoprire
il ruolo di caratteristica situazionale rilevante è, secondo Hare, la classe dei
probabili effetti sortiti da possibili azioni sulle persone (noi stessi e gli
altri) che si trovano in certe situazioni. Infine egli ritiene che una
conoscenza degli altrui stati d'animo derivanti da determinate azioni sia
raggiungibile a partire dalla conoscenza delle mie esperienze presenti e delle
relative preferenze. Di ciò si dirà più specificamente in seguito. L'ASTRAZIONE : con questo terzo artificio il discorso si
sposta dall'analisi del mondo e dei bisogni in esso contenuti alla ricerca di un
luogo più o meno fisico nel quale poter rinvenire informazioni in merito agli
elementi sostanziali dell'utilitarismo. I pensatori che si muovono all'interno
di questa dottrina sono soliti caratterizzare il luogo di reperimento di queste
informazioni come trascendente rispetto al mondo sociale. L'impossibilità di
trattare tutte le preferenze allo stesso modo, la necessità di escludere
addirittura dal calcolo determinate classi di preferenze (quelle cosiddette
"antisociali") hanno spinto la maggior parte degli utilitaristi a prediligere
come luogo di reperimento dell'elemento sostanziale un individuo ideale,
provvisto di alcune caratteristiche particolari (ad esempio, un livello
altissimo di informazione, una conoscenza arcangelica per usare la terminologia
di Hare) che fanno sì che le sue preferenze siano al di sopra di ogni sospetto e
di ogni obiezione. Hare si è servito dei due artifici precedenti per trattare il
tema del rapporto tra l'utilitarismo e la società; si avvale ora dell'astrazione
per esaminare il tema dell'individuo. La richiesta della riduzione di fare ciò
che vorrei fosse fatto a me è intimamente collegato alla richiesta
dell'idealizzazione di formulare giudizi di rilevanza sulla base della classe di
fatti di cui s'è detto. Tale procedura implica una concezione dell'io secondo la
quale sia possibile immedesimarsi il più completamente possibile con le
preferenze (ed eventualmente con il dolore) delle persone interessate alle
nostre azioni. Emerge subito una profonda divergenza tra Hare e l'utilitarismo:
questo, come s'è detto, tende ad astrarre dalla concretezza e a trascendere
l'individuo reale per reperire le proprie informazioni; Hare, all'opposto, è
profondamente attento alla concretezza e ai fatti e ciò non deve stupire se si
tiene presente l'ormai noto elemento descrittivo che fa capolino ogniqualvolta
si parli di giudizi morali prescrittivi. Se astrazione deve esserci, deve essere
dunque limitata al campo delle preferenze, ovvero alla classe di fatti
irrinunciabile per qualsiasi argomentazione morale. La concezione dell'io
elaborata da Hare rappresenta un contributo fondamentale per comprendere i tre
artifici nell'economia del suo pensiero. Egli ritiene che io sia un termine "
non interamente descrittivo, ma in parte prescrittivo " e spiega: "
identificandomi realmente o ipoteticamente con un'altra persona, io mi
identifico con le sue prescrizioni. In termini più chiari pensare alla persona
che sta per andare dal dentista come a me stesso significa avere ora la
preferenza che egli non soffra come io penso che stia per soffrire. Nella misura
in cui io penso si tratti di me stesso, precorro ora la medesima avversione che,
secondo me, egli avrà ". La caratteristica prescrittiva del temine io
permette di prendere a cuore il soddisfacimento delle preferenze dalla persona
con la quale mi immedesimo; permette poi anche di evitare tanto l'altruismo
(ovvero l'attribuire alle preferenze altrui un peso maggiore di quello
attribuito alle nostre) quanto l'egoismo (ovvero l'attribuire alle nostre
preferenze un peso maggiore di quello attribuito alle preferenze altrui). Alla
luce di queste considerazioni pare dunque possibile affermare che il dilemma
"etica formale o etica sostanziale?" per il prescrittivismo universale va
sicuramente risolto a favore del primo dei due poli, a patto che ciò non porti a
trascurare l'importanza che il secondo di essi, con i suoi limiti ma soprattutto
con la sua peculiarità, riveste all'interno dell'economia del pensiero di Hare.