MAX HORKHEIMER
A cura di Diego Fusaro
INDICE
LA SCUOLA DI
FRANCOFORTE
IL
PENSIERO
LA DIALETTICA
DELL'ILLUMINISMO: RIASSUNTO COMPLETO
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
Nel febbraio del 1923 viene aperto
ufficialmente a Francoforte, grazie ad una donazione privata, l' "Institut für
Sozialforschung" (Istituto per la ricerca sociale), sotto la direzione dello
storico marxista Karl Grünberg. Di esso fece parte anche Max Horkheimer
(Stoccarda 1895 - Norimberga 1973), che nel 1931 ne diventa a sua volta
direttore. Nato nei pressi di Stoccarda da ricca famiglia ebrea, dopo aver
lavorato presso l'impresa paterna, si laurea con una tesi su Kant nel 1922 a
Francoforte, dove nel 1929 diventa professore di Filosofia sociale. Nel 1932
iniziano le pubblicazioni della rivista dell'Istituto, la "Zeitschrift für
Sozialforschung", alla quale collaborano anche altri filosofi del calibro di
Adorno, Fromm, Marcuse e sulla quale Horkheimer pubblica diversi articoli, che
saranno successivamente raccolti dopo la guerra sotto il titolo di "Teoria
critica" (1968). Nel 1933, con l'avvento del nazismo, Horkheimer è espulso
dall'università, l'Istituto viene chiuso e trasferisce la propria sede in
Svizzera e poi, nel 1934, a New York, mentre la rivista continua le sue
pubblicazioni a Parigi, fino al 1940, e successivamente negli Stati Uniti.
Horkheimer stesso si trasferisce a New York e dal 1941 in California,
acquistando la cittadinanza americana. Durante il soggiorno statunitense, egli
pubblica in inglese l' "Eclisse della ragione" (1947) e in tedesco la
"Dialettica dell'illuminismo", composta in collaborazione con Adorno. Nel 1950
escono, sempre negli Stati Uniti, i risultati di una ricerca collettiva
dell'Istituto, sotto il titolo "Studi sulla personalità autoritaria", ma nel
frattempo Horkheimer torna in Germania per insegnare Sociologia e Filosofia
all'università di Francoforte, anche se conserva la cittadinanza americana; con
lui torna anche l'Istituto, soprannominato dagli studenti "Caffè Max". Nel 1951
è nominato rettore dell'università e nel 1954 si stabilisce sul lago di Lugano,
dove conclude la propria esistenza nel 1973. In primo luogo, l'Istituto si
propone il ripristino del marxismo , ma tenendo conto
dei profondi mutamenti della situazione storico-sociale: soprattutto, dopo la
grande crisi economica divampata nel 1929, il capitalismo sembra assumere un
nuovo aspetto e trasformarsi, sia nelle democrazie occidentali, sia nelle
dittature di Destra, sia nell'Unione Sovietica, in capitalismo di Stato. Ciò
implica che non è più possibile parlare di una struttura economica autonoma
rispetto alla politica: contrariamente alla teoria di Marx, lo Stato sembra
riassumere il primato rispetto alla società civile e impedire, col suo
intervento diretto nella sfera economica, l'impoverimento crescente del
proletariato. In questa situazione, si assiste ad una graduale perdita di
impulso rivoluzionario nella classe operaia, con la conseguente sfiducia, comune
agli autori della Scuola di Francoforte, nel fatto che essa possa ancora essere
il motore di una trasformazione radicale della società. Ostili alla
socialdemocrazia, poiché traditrice degli obiettivi rivoluzionari, ma anche alla
burocratizzazione e alla bancarotta, verificatasi anche sul piano teorico, del
comunismo sovietico, essi si tengono per lo più lontani dall'attività politica
diretta: l'organizzazione totale della società, comune ai paesi occidentali come
a quelli orientali, non è spiegabile solo attraverso la coercizione materiale a
cui sarebbero sottoposti gli individui. Si tratta, invece, di individuare anche
le mediazioni psicologiche e culturali che rendono possibile la costituzione del
dominio sociale e, dall'altra, l'accettazione passiva di esso. A questo scopo
sono dedicate le ricerche collettive dell'Istituto sul problema dell'autorità.
Non scorgendo più all'orizzonte un agente sociale della rivoluzione e ritenendo
ormai impossibile su questa base una previsione scientifica del crollo del
capitalismo, i pensatori della Scuola di Francoforte ritornano, in qualche modo,
ad un'impostazione simile a quella della sinistra hegeliana dopo la scomparsa di
Hegel: infatti, essi riconoscono la discrepanza tra la realtà storica e la
razionalità e, quindi, il carattere irrazionale della società esistente,
rispetto alla quale il compito primario da esercitare è la critica; si tratta
pertanto, attraverso un lavoro di critica, di far diventare reale ciò che è
razionale. Ecco perché i pensatori della Scuola di Francoforte vogliono
elaborare una teoria critica della società , in cui
occupa una posizione assolutamente centrale la dialettica , concepita (sulla scia del primo Lukàcs) come
metodo per la trasformazione della realtà. A differenza di Lukàcs, però, la
teoria critica non viene intesa come semplice espressione della coscienza di
classe, senza per questo scivolare nell'illusione opposta che l'intellettuale
sia al di sopra della mischia e della lotta di classe. L'intellettuale critico
non è un ripetitore delle tendenze conformistiche del proletariato e la
dialettica, di cui egli si serve, è orientata ad accertare le contraddizioni
esistenti, ma senza la certezza di un superamento di esse in una sintesi finale.
E poi, se Marx considerava la scienza, acquisibile mediante il metodo
dialettico, diversa sia dall'ideologia, sia dall'utopia, per i pensatori della
Scuola di Francoforte la scienza e la tecnica sono anch'esse causa ed
espressione, al tempo stesso, del dominio totale della società e quindi forme di
ideologia, non nel senso di essere semplici riflessi di interessi di classe, ma
in quanto esprimono le contraddizioni della società. In questa prospettiva torna
dunque ad aprirsi un nuovo spazio per l' utopia , la
quale però consiste, più che nella delineazione di un programma dai contenuti
positivi da perseguire e nella definizione dei caratteri della società libera
del futuro, nella denuncia di ciò che è falso nel presente e nel rifiuto di
esso: e così nel pensiero dialettico assume grandissimo rilievo il momento della
negazione .
IL PENSIERO
Secondo Horkheimer, non è possibile
conoscere la totalità che è sempre incompiuta: nessun aspetto della realtà può
essere compreso come definitivo. Questa è l'illusione del positivismo e della
scienza stessa, che reputa che l'oggetto della conoscenza siano i fatti, nel
senso letterale di entità ormai compiute e separate dai valori. Nel saggio
"Teoria tradizionale e teoria critica" (1937), Horkheimer sostiene che gli
scienziati sono inseriti nell'apparato sociale e contribuiscono alla continua
riproduzione di esso. Il livello raggiunto dalla divisione sociale del lavoro
conduce infatti ad una separazione fra teoria e prassi e ad attribuire al sapere
una funzione sociale. Su questa base si costituiscono le forme tradizionali di
teoria, le quali tendono soltanto a descrivere fatti e, per questa strada, a
giustificare lo stato di cose esistente, mentre nei casi in cui sono orientate
all'azione, ciò avviene soltanto in vista del dominio tecnologico della natura e
degli uomini. Horkheimer ritiene infatti che sia impossibile una ricerca
scientifica pienamente disinteressata, quando gli uomini non sono autonomi: gli
scienziati e i ricercatori fanno parte della società che essi studiano e,
giacchè tale società non è il frutto di una libera scelta razionale da parte
degli uomini, essi non possono uscire da essa; nella migliore delle ipotesi,
essi possono solamente ravvisare all'interno della società forze e tendenze
negative, che rimandano ad una realtà diversa. Qui si innesta il compito della
"teoria critica", cosciente della scissione unilaterale fra teoria e prassi e
orientata a superarla. Il suo strumento fondamentale è la ragione , che non va confusa con il senso comune o con
l'intelletto, i quali sono incapaci di andare oltre l'immediatezza dei dati e di
cogliere le contraddizioni e i nessi dialettici presenti nella realtà. La
ragione deve invece riassumere il compito di tribunale critico della realtà: per
essa è vero non un insieme di dati di fatto, ma tutto ciò che produce un
cambiamento nella direzione di una società razionale. Le verità universali di
cui si occupa la teoria critica non sono determinabili soltanto in relazione
alla situazione esistente, ma implicano la possibilità di un diverso ordine
delle cose. Questo non vuol dire appellarsi ad una presunta verità immutabile
fuori dalla storia, dice Horkheimer: contrariamente alla fenomenologia e alle
tesi di Scheler, egli non ritiene che esista una natura umana immutabile e che,
pertanto, possa essere previsto e descritto una volta per tutte nei suoi tratti
positivi il futuro regno della libertà: " l'idea di una società futura come
comunità di uomini liberi qual è possibile con i mezzi tecnici di cui si
dispone, ha un contenuto al quale si deve rimanere fedeli comunque esso si
modifichi " ("Teoria tradizionale e teoria critica"). In una prospettiva del
genere, la società buona può essere definita soltanto formalmente come la
società in cui l'uomo è libero di agire come soggetto, senza subire alcuna
strumentalizzazione. Nel quadro di questa antropologia
negativa, ossia costruita attraverso la negazione dei caratteri dell'ordine
esistente, il lavoro non occupa più la posizione centrale che aveva nel marxismo
tradizionale. Porre il lavoro come la manifestazione suprema dell'attività umana
equivale a " professare un'ideologia ascetica " tipicamente borghese,
dice Horkheimer in pieno accordo con Benjamin e Adorno: essa mira a reprimere la
felicità personale che per Horkheimer è in prima analisi legata alla
sensibilità, sacrificandola a qualche bene superiore e sostituendola con
palliativi di felicità illusoria, quali i divertimenti di massa. Contro
quest'etica della negazione di sé, Horkheimer rivendica la dignità dell'egoista,
che ha tuttavia il limite di respingere, come accade in Nietzsche, l'essenziale
componente sociale della felicità. IL soggiorno statunitense pone Horkheimer di
fronte alla realtà globale e monolitica di una società industriale
all'avanguardia, caratterizzata, fra le altre cose, da uno straordinario
sviluppo dell'industria culturale, che contribuisce anch'essa, ma in modo più
sottile e meno brutale della costrizione fisica, a rendere gli individui
uniformi e passivamente sottomessi al sistema sociale. Sorge allora il problema
del perché l'umanità, nonostante gli straordinari progressi tecnici, "
anziché entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di
barbarie ": nel tentativo di trovare una risposta Horkheimer compone,
insieme all'amico Adorno, la " Dialettica
dell'illuminismo " : si tratta di chiarire come mai l'illuminismo, che ha
come obiettivo la liberazione dell'umanità dalle paure e dalle superstizioni
mediante la ragione, si sia capovolto dialetticamente nella sua negazione,
ovvero nell'autodistruzione dell'illuminismo; si tratta cioè di spiegare come il
progresso e la razionalità possano contenere elementi distruttivi. La via
seguita dall'illuminismo per liberare gli esseri umani dalle paure consiste nel
renderli padroni della natura mediante la scienza: il sapere si identifica,
baconianamente, con il potere e la ragione si configura come strumento di dominio . In tal modo, tuttavia, l'illuminismo fa propri i
contenuti dei miti che ha abbattuto, limitandosi a trasferire da Dio all'uomo il
dominio sull'esistente: la differenza è che la natura non è più dominata
assimilandosi ad essa attraverso la magia e l'imitazione, ma mediante il lavoro.
L'accrescimento del potere degli uomini ha però il costo di una loro
estraniazione dalla natura e dalle cose su cui lo esercitano, cioè di un
distacco del soggetto dall'oggetto. Questa è la premessa su cui si costituisce
l' astrazione , che annienta le differenze individuali,
rende compatibile ed equivalente ciò che è eterogeneo ed esercita un dominio
livellatore su tutto, rendendo tutto ripetibile nella natura: così, essa prepara
le cose affinchè possano essere manipolate nell'industria. In questo modo, ciò
che appare come trionfo della razionalità scientifica, cioè la sottomissione di
tutto quel che è al formalismo logico e matematico, viene secondo Horkheimer e
Adorno pagato con la sottomissione della ragione a quel che è dato e il pensiero
stesso viene reificato, cioè ridotto a cosa e a strumento, e soggiogato al modo
di produzione dominante: " l'animismo aveva vivificato le cose;
l'industrialismo reifica le anime ". Attraverso la divisione del lavoro, il
dominio della società viene ad estendersi anche sugli uomini, ma ciò che
impedisce la realizzazione dell'illuminismo, come progetto di liberazione dal
dominio, non è tanto la tecnica in quanto tale, la quale anzi fornisce
abbondanza di prodotti, quanto la rinuncia al pensiero come apertura al nuovo.
L'illuminismo viene così a rovesciarsi in una nuova mitologia, depurata da dèi e
demoni, ma anch'essa fondata sull'accettazione passiva dei fatti; ciò conduce a
legittimare l'ingiustizia sociale da cui i fatti stessi nascono: il mondo non è
diventato più razionale. " Nel mondo illuminato la mitologia è penetrata e
trapassata nel profano. La realtà completamente epurata dai demoni e dai loro
ultimi rampolli concettuali, assume, nella sua naturalezza tirata a lucido, il
carattere numinoso che la preistoria assegnava ai demoni. […] Rinunciando al
pensiero, che si vendica, nella sua forma reificata - come matematica, macchina,
organizzazione - dell'uomo immemore di esso, l'illuminismo ha rinunciato alla
sua stessa realizzazione " ("Dialettica dell'illuminismo", cap. 1). A
differenza della tradizione marxiana, Horkheimer e Adorno non intendono per
illuminismo l'ideologia della borghesia in ascesa; essi, anzi, includono lo
stesso Marx, in quanto teorico del lavoro come autorealizzazione dell'uomo, nel
solco dell'illuminismo. In realtà, per essi la storia dell'illuminismo coincide
con l'intera storia della civiltà e del pensiero occidentale: al centro di esso
vi è l'idea dell'uomo come padrone unico e assoluto del mondo. Essi scorgono la
dialettica dell'illuminismo, incentrata sulla connessione tra mito, dominio e
lavoro, già allegoricamente rappresentata dalle vicende di Ulisse narrate
nell'Odissea omerica. Di fronte alle Sirene ammaliatrici, Ulisse si fa legare
all'albero della nave dai suoi compagni per non perdere se stesso e la propria
identità e in tal modo rinuncia al piacere immediato: gode, però, di un piacere
a distanza udendo il loro conto. I suoi compagni, invece, hanno le orecchie
tappate e quindi sono privati di ogni piacere, mentre remano, ossia lavorano
obbedendo al comando di Ulisse, per portare lontana la nave: ciò simboleggia la
separazione di godimento artistico e di lavoro manuale, la quale dà luogo ad una
mutilazione e ad una regressione sia di Ulisse, che non partecipa al lavoro
comune, sia dei compagni, che sono costretti a lavorare e hanno i sensi tarpati.
La conclusione è che " la maledizione del progresso incessante è l'incessante
regressione ": oggi le macchine mutilano gli uomini, anche se li sostentano.
In questo contesto, anche il pensiero è impoverito, destinato a compiti
solamente organizzativi e amministrativi all'interno di un apparato di dominio
che tende a produrre uniformità e conformismo. A ciò contribuisce l' industria culturale , la quale trasforma la cultura in una
merce oggetto di scambio come tutte le altre merci e, al contempo, esercita
grande potere sul consumatore grazie alla mediazione del divertimento, che non
deve essere, a sua volta, faticoso dopo il lavoro faticoso. Espressioni tipiche
di essa sono, secondo Horkheimer e Adorno, la radio e il cinema, i quali,
contrariamente a quanto pensava Benjamin, portano lo spettatore ad identificarsi
con la realtà, ridotta ad una serie di personaggi stereotipati, che
rappresentano l' " apoteosi del tipo medio ". In questo modo, essi
tolgono spazio alla possibilità di pensare ciò che è inconsueto, conducono
all'atrofia dell'immaginazione e riducono ogni capacità di resistenza di fronte
alla realtà esistente. In questa situazione, la filosofia rappresenta " lo
sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e
reale ", estranea all'esistente e insieme capace di comprenderlo, senza
capitolare di fronte ad esso: essa è, secondo i filosofi della Scuola di
Francoforte, " la voce della contraddizione ". Horkheimer sviluppa temi
affini a questi in un'opera pubblicata sempre nel 1947 e intitolata " Eclisse della ragione ". Il termine "ragione" viene impiegato
in una molteplicità di significati, dice Horkheimer: in senso oggettivo, essa
indica, da Platone e Aristotele in poi, la ragione orientata a individuare un
ordine oggettivo e gerarchico dei fini, mentre in senso soggettivo, dominante in
età moderna e formulato con estrema chiarezza da Max Weber, la ragione ha il
compito di determinare non quali siano i fini razionali, bensì quali siano i
mezzi adeguati al raggiungimento degli scopi, che possono essere tantissimi. In
quest'ultima accezione, la ragione ha rinunciato a definire gli scopi ultimi, ma
in tal modo si è svuotata di precisi contenuti e si è formalizzata: come
conseguenza, essa è diventata ragione strumentale ,
adattabile a qualunque scopo e, quindi, subordinata all'assetto sociale
esistente. La situazione odierna è caratterizzata dal fatto che la vita tende ad
essere assoggettata ad un processo crescente di razionalizzazione in questo
senso, ma quanto più è cresciuta la libertà e l'abilità nel calcolare i mezzi
opportuni, tanto più è aumentata la passività nella scelta dei fini, che si
trovano di fatto imposti dalle esigenze di dominare la natura e controllare gli
uomini in modo da renderli funzionali alla riproduzione del sistema. In questa
situazione, le forze economiche e sociali si configurano come cieche forze
naturali che l'uomo, se ci tiene a sopravvivere, deve dominare adattandosi ad
esse, obbedendo a schemi generali di comportamento. Il risultato è una natura
ridotta a pura materia da dominare e l'io stesso smarrisce ogni spontaneità nel
suo agire, si trova svuotato e ridotto all'esercizio delle pure funzioni di
dominio e di organizzazione: il dominio è l'idolo a cui tutto viene sacrificato.
La malattia della ragione consiste nel fatto che, nata
dall'esigenza umana di dominare la natura, essa è diventata strumento di
dominio. Da ciò possono scaturire o la rassegnazione, che consiste
nell'accettare l'identità di ragione e dominio come se si trattasse di una legge
eterna, con la conseguente repressione degli impulsi naturali, o la rivolta, che
richiede un' autocritica da parte della ragione . Ciò
vuol dire che la ragione può diventare ragionevole, solo riflettendo sul "
male del mondo ", così come è prodotto e riprodotto dall'uomo, cioè
riconoscendo l'esistenza di un antagonista odierno tra soggetto e oggetto, io e
natura, parola e cosa. In questo modo, la filosofia, acquistando questa
consapevolezza, può contribuire a sovvertire il processo storico, ma senza
regredire alle vecchie concezioni metafisiche della ragione oggettiva: per essa,
infatti, ogni concetto deve essere visto come frammento di una verità più vasta,
non ancora data, in cui esso trova il suo significato. Horkheimer è consapevole
che la comprensione della negatività del presente e delle sue contraddizioni non
sono di per sé il superamento della situazione storica, ma rifiuta di
identificare la filosofia con forme di attivismo e propaganda, per quanto nobili
possano esserne gli scopi: il compito fondamentale rimane quello di denunciare
tutto quel che mutila l'uomo e ne impedisce il libero sviluppo. Nei suoi ultimi
scritti, Horkheimer rivendica alla filosofia il compito di difendere
l'individualità e la sua autonomia, che rischia oggi di volgere al tramonto,
annegata nel conformismo. In questo senso, egli ribadisce la preferibilità della
democrazia occidentale, con tutti i suoi limiti, ad ogni forma di dittatura e
segnala i rischi, inerenti anche al movimento degli studenti del '68, di
applicare in modo troppo immediato la teoria critica alla prassi, con la
violenza che ne può conseguire. Al centro della sua visione, rimane una
concezione pessimistica della realtà e della fragilità dell'individuo, che egli
fin dalla giovinezza aveva ereditato da Schopenhauer, Horkheimer riconosce però
una funzione positiva alla religione , in quanto incarna
un desiderio di felicità ed è mossa dall'aspirazione verso il totalmente altro,
anche se tende a concepire questa trascendenza come rivelata e ipostatizzata in
Dio e rischia, pertanto, di essere solamente un ulteriore strumento di controllo
e di adattamento sociale. In "Teoria critica della società" (1968), Horkheimer
indaga con gli strumenti della psicologia e della psicoanalisi i meccanismi del
consenso e della formazione dell'opinione pubblica manipolata dai sistemi di
propaganda. Il fascismo è indicato come forma implicita del capitalismo moderno
e della civiltà tecnologica, che ha prodotto una società amministrativa,
governata dalla burocrazia, senza autonomia per il singolo. Vedendo venir meno
la possibilità di una reazione all'integrazione capitalistica nella società
opulenta post-bellica, Horkheimer assume un atteggiamento di pessimismo
metafisico, pur aprendo uno spazio critico al rinvio alla trascendenza ( "La
nostalgia del totalmente altro", 1970, e "La società di transizione", 1972):
egli arriva a coniugare il marxismo con lo schopenhauerismo.
LA DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO
La Premessa degli autori
all’edizione italiana Il testo tedesco della Dialettica
del'Illuminismo è un frammento cominciato nel 1942 durante la seconda guerra
mondiale. Doveva in realtà costituire l’introduzione alla teoria della società e
della storia concepita dai due autori durante il dominio nazista. Il libro
perciò risente molto, nella terminologia e nei problemi presi in esame, del
contesto storico in cui è stato scritto. Il tema centrale del libro concerne le
tendenze che trasformano il progresso culturale moderno e contemporaneo nel suo
esatto contrario (cioè in un vero e proprio regresso). Ma è la stessa ragione
illuministica a subire storicamente un vero e proprio rovesciamento, da cui
principalmente dipende, secondo Horkheimer e Adorno, la trasformazione del
progresso in regresso. Questo processo dialettico di ribaltamento del progresso
nel suo contrario è illustrato da quell’insieme di fenomeni sociali
contemporanei che si dispiegarono in America tra gli anni ’30 e gli anni ’40 del
‘900. Gli autori affermano altresì di non aver voluto né potuto fornire una
teoria sistematica di quegli eventi e di questa particolare ‘dialettica’ storica
e sociale dal punto di vista economico e politico. Il frammento appare perciò
come un testo essenzialmente filosofico. La Premessa alla
prima edizione Lo scopo che gli autori si erano fin dall'inizio proposti
accingendosi a scrivere questo testo-frammento era quello di capire perché
l’umanità era sprofondata in un nuovo genere di barbarie: la società moderna si
presentava certamente in progresso dal punto di vista scientifico e tecnologico,
ma in crescente decadenza dal punto di vista della cultura. I due autori
riconoscono di aver inizialmente tentato di inserire la loro critica all’interno
del quadro culturale e scientifico contemporaneo; anche criticando una
particolare dottrina e rifacendosi piuttosto a un’altra. L’organizzazione della
scienza in quanto tale - distinta in sociologia, psicologia e gnoseologia - non
veniva da loro messa in discussione; il contributo che Adorno e Horkheimer
intendevano dare con il loro scritto si sarebbe dovuto mantenere all’interno di
questa "organizzazione" scientifica vigente. Il loro voleva essere
sostanzialmente un intervento critico antipositivista; una riflessione sullo
studio della tradizione scientifica, tale che ricostruisse le linee teoretiche
fondamentali della scienza. Ma, iniziando il lavoro, ciò che immediatamente
constatarono fu proprio la crisi della scienza in quanto tale;
dell’organizzazione e del senso che la scienza deve avere in una società, che si
vuole moderna e in costante progresso. Lo "sfacelo della civiltà borghese" è lo
sfondo di questa crisi culturale e scientifica. La loro condanna del fascismo
coincide allora con l’accusa mossa nei confronti di quella tendenza
autodistruttrice che è l’Illuminismo . E la critica a questo stato di cose deve
rifiutare di obbedire al pensiero filosofico attualmente vigente
(all’organizzazione della scienza di cui sopra); esso si presenta né più né meno
che come una "merce" e l’espressione che questa assume nella lingua non è altro
che ideologia e mistificazione: un modo di rendere accettabile ciò che di per sé
sarebbe umanamente da rifiutare . Il problema con cui ha a che fare la ‘critica’
non è tanto quello della "strumentalizzazione" della scienza da parte di alcune
ideologie; piuttosto è il rischio che la critica stessa ricada nell’ideologia
dominante della produzione di merci, la quale è un "processo globale" che tutto
abbraccia, anche ciò che gli si oppone. Il riferimento storico è all’Illuminismo
dell’Enciclopedia e all’"apologetica" di Comte, la quale trasformò la critica
degli enciclopedisti in positiva accettazione della realtà vigente. C’è inoltre
un riferimento polemico a tutto quanto il percorso della filosofia del
diciottesimo secolo, la quale sembrò rivolgersi contro lo spirito ‘illiberale’
della sua età aderendo alla Rivoluzione Francese, salvo il fatto che poi, con
l’avvento di Napoleone, "era già passata dalla sua parte" . Dal punto di vista
strettamente teoretico si deve notare la tendenza nella filosofia moderna a
trasformare la "critica" in "affermazione"; una tendenza che oggi è diventata la
regola. In altri termini, la società contemporanea ha esautorato il pensiero
scientifico-filosofico dalla possibilità di esercitare una libera critica del
presente, oltreché una ricostruzione sensata di esso. La critica di Adorno e
Horkheimer è rivolta contro gli attuali "meccanismi sociali" attraverso i quali
la cultura viene prodotta (cinematografia, editoria, sistema educativo, etc.).
Sembra vigere una forma di censura ‘spontanea’ anche in chi consuma il prodotto
culturale; una autocensura in chi lo concepisce. Questa forma di proibizione al
libero esercizio delle capacità teoretico-critiche dell’uomo, apre la strada
alla "follia politica"; soprattutto all’incapacità umana di resistere ad essa. I
due autori si rendono conto di trovarsi di fronte a un’aporia, a una difficoltà
reale: l’autodistruzione dell’Illuminismo. "Non abbiano il minimo dubbio […] che
la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico". Ma esso è
intrinsecamente unito a una forte e reale tendenza al regresso e alla
distruzione della libertà stessa. Il progresso come tale non è garanzia di
libertà; la mancanza di una adeguata critica all’Illuminismo e al progresso
presi insieme, porta inesorabilmente ad un’accettazione passiva del
"dispotismo". Porta le "masse tecnicamente educate" alla "paranoia "popolare".
La debolezza del pensiero teoretico contemporaneo sta proprio
nell’inconsapevolezza di questa aporia. L’Illuminismo è l’idea che la società
borghese ha di sé; un’idea che però spesso si blocca, per paura, di fronte alla
verità, non sempre rischiarata dal lume della ragione. Quando la realtà si fa
intimamente contraddittoria e irrazionale, il pensiero illuministico-borghese
non ha il coraggio di criticarla e smascherarla. Così il regresso
dell’Illuminismo ("autentico rampollo della civiltà moderna") a mitologia
(irrazionalità) non va ricercato nelle moderne mitologie nazionalistiche, quanto
piuttosto nella "paralisi" dell’Illuminismo stesso; una paralisi che condanna lo
spirito moderno-contemporaneo alla cecità e all’incapacità di intervenire
negativamente e criticamente sulla realtà. Spesso viene tacciato di "oscurità"
quel pensiero che percorre vie non immediatamente visibili e chiare al senso
comune; è "il lavoro del concetto" ciò che invece va incoraggiato, in tempi in
cui il pensiero, scientifico e non, sembra soccombere sotto il peso di una
condanna al regresso e all’autodistruzione. "La condanna naturale degli uomini è
oggi inseparabile dal progresso sociale". Le potenze economiche riducono
all’inferiorità culturale, politica, ecc., gran parte della popolazione,
annullando ogni potere decisionale del singolo. Allo stesso tempo portano a
livelli finora mai raggiunti il dominio della società sulla natura; le masse e i
singoli vengono svuotati da una parte e riempiti (di merci, di beni, di consumi,
ecc.) dall’altra. Lo spirito (la cultura e il pensiero di un popolo) viene
reificato; diventa una cosa (merce), perciò non è più spirito. "La valanga di
informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce
nello stesso tempo". Le condizioni storiche attuali sono tali che lo sviluppo
materiale genera gruppi di potere che hanno preso totalmente il posto del
"soggetto sociale" (popolo, massa, coscienza sociale diffusa), costituendo "la
minaccia internazionale del fascismo" o, il che è lo stesso, il capovolgimento
del progresso in regresso. Questi frammenti filosofici, dicono gli autori, hanno
l’intento di smascherare il meccanismo perverso secondo cui, oggi, la "fabbrica
igienica" (cioè la produzione di merci) si sostituisce al pensiero, allo
spirito, alla metafisica. La Dialettica dell'Illuminismo è distinta in saggi
diversi. Concetto di Illuminismo. Questo primo saggio
è la base teoretica di quelli successivi; si incentra sull’intreccio di
razionalità e realtà, tra natura e dominio della natura da parte dell’uomo. La
critica mossa all’Illuminismo non vuole essere assoluta e senza appello. Ha,
viceversa, una prospettiva di liberazione. Il primo saggio, scrivono gli autori,
può riassumersi in questa formula chiasmatica: "il mito è già Illuminismo, e
l’Illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia". Excursus . Seguono due excursus che vogliono illustrare
questo intreccio dialettico mito-Illuminismo; il primo sull’Odissea, considerata
come uno dei primissimi documenti rappresentativi della civiltà borghese
occidentale; il secondo su Kant, Sade e Nietzsche, esecutori inflessibili
dell’Illuminismo. In quest’ultimo viene rovesciato il rapporto di dominio del
soggetto sull’oggettività, in cieco dominio di questa su quello. L'industria culturale . Il capitolo sull’industria culturale
mostra la regressione concreta a cui l’Illuminismo è giunto attraverso la
diffusione del cinema e della radio: l’ideologia feticistica della tecnica e
della produzione si sostituisce alla consapevolezza critica e alla conoscenza in
genere. Elementi dell'antisemitismo . Questa parte è
dedicata al ritorno della civiltà illuminata alla barbarie. I due autori vi
abbozzano una preistoria filosofica dell’antisemitismo, l’irrazionalità del
quale viene ricondotta all’essenza stessa della ragione dominante. "Gli Elementi
si ricollegano strettamente a ricerche empiriche dell’Institut für
Sozialforschung, la fondazione creata e mantenuta in vita da Felix Weil, e senza
la quale non solo i nostri studi, ma buona parte del lavoro teorico continuato,
nonostante Hitler, da tedeschi emigrati, non sarebbe stato possibile". Appunti e schizzi . L’ultima sezione è dedicata a schizzi,
appunti, ecc., che hanno come quadro di riferimento una sorta di antropologia
dialettica . Concetto di Illuminismo L’Illuminismo
viene inteso da Adorno e Horkheimer come "pensiero in continuo progresso", come
razionalità propria dell’uomo capace di progredire e di far progredire la
realtà. La storia di questo progresso abbraccia un lungo percorso, idealmente
ricostruito dai due autori, che va dall’uscita del genere umano dallo stato di
soggezione magica alla natura, fino allo sviluppo, in età moderna, della società
industriale. L’Illuminismo, così inteso, è il rapporto che l’uomo instaura con
la natura; un rapporto di dominio, nel quale o l’uno o l’altra debbono
soccombere. E’ un processo di emancipazione dell’uomo dalla natura, nel quale
egli si libera rendendo sottomessa l’altra. Il modo in cui si realizza la
libertà dell’uomo (ossia il dominio sulla natura) è rappresentato dallo sviluppo
della scienza, ma, prima di tutto, dalla critica e dall’abbandono del mito da
parte della civiltà occidentale. Nella storia del pensiero filosofico è Bacone
l’esempio a cui i due autori fanno fin da subito riferimento. L’Illuminismo o
"rischiaramento" [Aufklärung] è la critica rivolta dalla ragione alla fede, alla
superstizione, proprio così come Hegel ce l’ha presentata nella sua
“Fenomenologia dello Spirito” descrivendoci la lotta dei ‘lumi’, nel
diciottesimo secolo, contro l’irrazionalità della credenza ingenua e incolta.
Horkheimer e Adorno, per Illuminismo, intendono certamente quello a cui Hegel fa
riferimento, ma lo estendono nella storia dai primordi fino all’età
contemporanea e ne dilatano il senso filosofico definendolo come l’inarrestabile
"movimento stesso del pensiero". L’Illuminismo contemporaneo si identifica,
secondo gli autori, con la società stessa in cui viviamo. E’ la definitiva presa
di possesso da parte dell’uomo del suo mondo naturale e umano. Una presa di
possesso che però, a ben vedere, non realizza quella ragione da cui pure
proviene; è un rischiaramento mancato quello a cui stiamo assistendo da
millenni. Una lotta che certamente ha opposto il pensiero razionale a miti,
illusioni, false credenze, idoli, feticci, ecc., ma che dialetticamente si è
rovesciata nel suo opposto; la lotta intrapresa dall’Illuminismo ha
inconsapevolmente restaurato, sotto altra forma, quella mancanza di razionalità
contro cui si era rivolta. I nodi teoretici, intorno a cui ruota tutta
l’argomentazione di questo primo capitolo della Dialettica
dell'Iluminismo , possono essere racchiusi in queste nozioni fondamentali,
più volte e in vario modo ripetute dagli autori: l’Illuminismo come sviluppo del
pensiero razionale; l’Illuminismo come lotta contro il mito, la fede, la
superstizione; come progressivo dominio dell’uomo sulla natura; come
razionalizzazione della realtà in generale; come dialettica. Quest’ultima
nozione è quella che ribalta e contraddice la positività e l’ottimismo su cui
l’Illuminismo sembra reggersi, ovvero la certezza da parte della ragione
illuministica di realizzare pienamente se stessa. Quest’ultima nozione è il
centro stesso dell’argomentazione che Horkheimer e Adorno rivolgono contro la
presunta linearità del progresso illuministico-occidentale . Argomentazioni 1.
L’Illuminismo ha come scopo fondamentale quello di rendere gli uomini padroni di
sé e della natura, togliendo loro la paura dell’ignoto, dell’irrazionale,
riscattandoli dall’inconsapevolezza, dall’incapacità di dominare col pensiero la
realtà. "Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale
sventura." Cioè all’insegna della sventura di essere caduta sotto una forma di
pensiero che la rende cieca, inconsapevole, dominata dall’irrazionale, ecc.
Vediamo perché. Gli autori prendono Bacone come primo esempio di questo
‘rovesciamento’ a cui è destinato l’Illuminismo, il pensiero filosofico
moderno-occidentale. E’ un rovesciamento dialettico, nella misura in cui
l’altro, l’opposto contro cui il progresso del pensiero si rivolge (il mito,
l’irrazionalità, gli idoli, ecc.) diventa invece un termine posto (affermato)
inconsapevolmente dallo stesso pensiero razionale. Ciò da cui l’Illuminismo
prende consapevolmente le distanze, diventa ciò in cui viene inconsapevolmente
ad identificarsi. La sventura illuministica però, proprio per questo suo
carattere dialettico e autodistruttivo, può riscattarsi attraverso un’impietosa
autocritica, prendendo finalmente consapevolezza di sé. L’interpretazione che i
due autori danno di Bacone è, in sintesi, la seguente: se il linguaggio
filosofico-scientifico di quest’ultimo non arriva certo ad usare la matematica,
che con Galilei diventerà il linguaggio scientifico per eccellenza, il suo
metodo sperimentale però coglie esattamente "l’animus della scienza successiva".
Bacone, in altri termini, pensa a un’identificazione piena fra intelletto umano
e natura delle cose; li pone come differenti, per poi attribuire al sapere
dell’intelletto la capacità di sottomettere a sé la natura. Il "potere" che
l’intelletto ha nei confronti delle cose e dei "segreti" della natura è tale per
cui riesce, nella visione baconiana, a distruggere non solo quei ‘fantasmi’ (gli
idola) da cui la mente (del singolo uomo e del genere umano) è tradizionalmente
affetta, ma compie una sorta di ‘epurazione’ di sé dalla tendenza alla magia e
all’occultismo, che alla fine del ‘500 era fortemente presente in Europa .
D’altra parte Bacone è il primo consapevole esponente del ‘sapere’ come
‘potere’; di quel potere che l’economia borghese stava, nell’Inghilterra del
‘600, mettendo in atto proprio a scapito della libertà della ricerca teorica;
libera da fini pratici, materiali, utili alla società. "Ciò che gli uomini
[baconianamente] vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini
del dominio integrale della natura e degli uomini." Dunque, secondo Adorno e
Horkheimer, l’emancipazione del pensiero dalla magia, dalla superstizione, dagli
idoli della metafisica, ecc., tende in realtà - stando ai risultati
storico-filosofici cui è giunta la scienza moderna - a instaurare, nella
società, un "dominio" altrettanto opprimente, per la coscienza e la natura
umana, di quello costituito dalla mancanza di pensiero razionale. Il pensiero
scientifico, da Bacone in poi, si caratterizza per la sua totale mancanza di
emancipazione dalla struttura sociale cui fa riferimento, e precisamente da
quella borghese: "esso non tende […] a concetti e ad immagini, alla felicità
della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro, al capitale
privato o statale". Il significato profondo e qualitativo delle cose cui
dovrebbe tendere la scienza, viene sostituito dalla ricerca asettica,
quantitativa della correttezza formale del procedimento; l’essenza di questo
sapere si riduce a tecnica, a operation, procedimento efficace volto a
conservare il dominio dell’economia borghese sulla coscienza, il dominio
dell’uomo sulla natura. In questo quadro si distinguono anche i compiti propri
della scienza da quelli della ricerca filosofica della verità, la quale diventa
a sua volta un ostacolo per il moderno pensiero scientifico. La filosofia
continua a sopravvivere, dicono gli autori, come idola theatri, come spettro
metafisico, considerato dal pensiero scientifico né più né meno che una moderna
mitologia. Il ‘lume’ della ragione, nella società borghese, perde totalmente la
sua ‘autonomia’ dalle cose. Vediamo in che senso. Se la razionalità
illuministica crede di liberarsi dal legame di sudditanza nei confronti della
realtà, rendendola quantificabile e scientificamente dominabile, in verità,
dicono gli autori, tanto più la conoscenza scientifica viene asservita alla
struttura economica e sociale della borghesia, che si caratterizza,
marxianamente, come condizione di essenziale alienazione dell’uomo da sé e dalla
natura. Il dominio sulla natura da parte dell’uomo si rivela come domino
dell’uomo sull’uomo, e più in generale come dominio della struttura sociale
sulla coscienza: "Non c’è altro che tenga. Privo di riguardi verso se stesso,
l’Illuminismo ha bruciato anche l’ultimo resto della propria autocoscienza." Il
rapporto scientifico di dominio dell’uomo sulla natura si rovescia in rapporto
di dominio della società su quella forza del pensiero (l’Illuminismo stesso) che
avrebbe dovuto emancipare l’uomo dall’inconsapevolezza, dalla mancanza di
autonomia dalla natura, ecc.; la società borghese, il capitale, il lavoro sono
il fine di quell’emancipazione umana, che non trova perciò in se stessa la sua
ragion d’essere. Il rovesciamento del dominio dell’uomo sulla natura in dominio
della società sull’uomo può essere presentato a partire da due punti di vista:
da un lato attraverso un’analisi prettamente sociale (come alienazione,
reificazione, mercificazione); dall’altro mostrando come l’Illuminismo contenga
in se stesso, nella sua essenza, il suo destino, quindi come la ragione
illuministica sia per definizione votata al suo ribaltamento 2. La critica
dell’Illuminismo al mito e al mondo magico parte dal presupposto che si debba
eliminare il rapporto paritario che l’antropomorfismo mitico e l’animismo magico
instaurano fra l’uomo e la natura divinizzata. Il primo fu Senofane a criticare
"gli dèi molteplici che somigliano ai loro creatori, gli uomini", ma già le
cosmologie presocratiche segnano, secondo Horkheimer e Adorno, un distacco fra
la visione mitica del rapporto uomo-natura e la visione illuministica tesa al
dominio dell’uno sull’altra. "Come le immagini della generazione dalla terra e
dal fiume, giunte ai Greci dal Nilo, diventarono qui principi ilozoistici,
elementi, così l’inesauribile ambiguità dei demoni mitici si spiritualizzò nella
forma pura delle essenze ontologiche". La genesi dell’Illuminismo, a ben vedere,
affonda le sue radici proprio in ciò che intende criticare; in quella mitologia
da cui, quasi spontaneamente, si genera il logos filosofico, la
razionalizzazione dell’antropomorfismo mitico e la riduzione a elemento
materiale dei principi naturali personificati o divinizzati. L’Illuminismo però,
non pago della nascita dei concetti filosofici di ‘spirito’ e ‘materia’ - l’uno
dalla mitologia, l’altro dalla cosmologia - si scaglia (in età moderna) anche
contro le idee di Platone, la metafisica di Aristotele, la verità gli
universali, l’ontologia, ecc. "Nell’autorità dei concetti generali esso crede
ancora di scorgere la paura dei demoni […]. D’ora in poi la materia dev’essere
dominata al di fuori di ogni illusione di forze ad essa superiori o in essa
immanenti, di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del calcolo e
dell’utilità, è, agli occhi dell’Illuminismo, sospetto" . Adorno e Horkheimer
individuano, a questo proposito, una precisa dialettica Illuminismo-mito che
riferiscono sostanzialmente all’esposizione fenomenologica hegeliana
dell’Aufklärung . La lotta dell’Illuminismo contro il mito non è, come si è
visto, un’opposizione fra due termini assolutamente eterogenei; vi è una genesi
storico-ideale della filosofia, del pensiero razionale (logos) e quindi dello
stesso Illuminismo (inteso come ragione, pensiero in continuo progresso) che
procede dal mito, quindi proprio dall’attribuzione indebita di caratteri divini
all’uomo e alla natura o, il che è lo stesso, di caratteri umani al dio. La
nascita della filosofia, in questi termini, fa nascere lo stesso atteggiamento
illuministico della ragione, la quale ha buon gioco a criticare quelli che
considera residui mitici (idealismo, metafisica, ontologia, ecc.), con l’intento
di eliminarli del tutto. Anche le idee di Platone vengono tacciate di
irrazionalismo, nella misura in cui non si attengono ai cosiddetti ‘dati di
fatto’, neutralmente e lucidamente considerati da una ragione che non intende
lasciare nulla, tra quello che cade sotto la sua considerazione, di inspiegato e
non razionalizzato. Da parte sua, il mito-filosofia, nel momento stesso in cui
prova a difendere la sua ragion d’essere, conferma la necessità di scendere a
patti con l’Illuminismo e il suo modo di usare analiticamente la ragione.
"L’Illuminismo è totalitario", ingloba in sé anche il suo opposto. La lotta
dell’Illuminismo contro l’antropomorfismo e contro la proiezione del soggettivo
nella natura si concretizza da una parte nella fissazione dell’uomo come
principio assoluto e dominatore del mondo naturale, dall’altra nella costruzione
di un sistema teorico chiuso (razionalista o empirista che sia) nel quale sia
tutto calcolabile e al quale tutto sia riducibile. La demitizzazione completa
dell’universo arriva al suo apice, dicono gli autori, solo quando "il numero
divenne il canone dell’Illuminismo." La stessa società borghese sembra proprio
reggersi sull’equivalente scambio di merci, che annulla ogni differenza
qualitativa, riducendo a unità-quantità tutto ciò che le si presenta sotto mano.
"L’essere si scinde d’ora in poi nel logos - che si riduce col progresso della
filosofia, alla monade, al mero punto di riferimento -, e nella massa di tutte
le cose e creature esterne. […] Senza riguardo alle differenze, il mondo viene
sottomesso all’uomo" [corsivi nostri]. Questo doppio binario (numero e uomo,
essere a-qualitativo e logos illuministico, massa di tutte le cose e dominio
umano) sul quale l’Illuminismo, a detta degli autori, sembra viaggiare, approda
alla costituzione del Sé, cioè alla identità della coscienza, della cultura e
della ideologia della civiltà occidentale . Potrebbe non risultare chiaro al
lettore il rapporto strettamente teoretico fra mito e Illuminismo, perché da un
lato essi paiono allontanarsi in quanto il primo vive dell’identificazione
uomo-natura e il secondo della loro separazione; allo stesso tempo però si
afferma che entrambi perseguono il dominio sulla natura, anche se attraverso
forme diverse; poi si dice che l’Illuminismo deriva direttamente dalla
razionalizzazione del mito operata dalla filosofia (e quindi in questa ipotesi
il mito è irrazionale), ma insieme che già il mito è Illuminismo in quanto
spiegazione in termini razionali della realtà. Allora, ci si potrebbe chiedere,
il mito è ‘già’ o ‘non ancora’ Illuminismo? La risposta, seguendo gli autori, è
che il mito è al contempo ‘già’ e ‘non ancora’ Illuminismo. Il problema è dato
dal fatto che Adorno e Horkheimer istituiscono questa dialettica ‘aporetica’
mito-Illuminismo/Illuminismo-mito; dunque, dicono, se la moderna razionalità
intende separali, in realtà, non sa che essi sono ‘da sempre’ uniti, sebbene la
loro unione sia profondamente contraddittoria. Ma è proprio questa
contraddizione a costituire l’essenza della nostra moderna e borghese civiltà.
Il problema che loro pongono è anche teorico, ma soprattutto etico. L’uomo (come
genere e come civiltà occidentale) si è invischiato, in età moderna, in una
difficoltà reale della quale, in tempi mitici, non era appieno consapevole (gli
mancava la piena consapevolezza del ‘lume’ della ragione). Il trionfo
dell’Illuminismo porta alle estreme conseguenze il contraddittorio rapporto
dell’uomo con se stesso e con la natura. Gli dà una spiegazione scientifica,
apparentemente emancipata dal mito, ma questa spiegazione non elimina, secondo
gli autori, la contraddizione reale, la quale resta e anzi si fa più pesante in
una condizione in cui, la ragione potrebbe (ma non lo fa), recuperare quel nesso
originario che il mito ‘sembrava’ istituire fra il genere umano e la natura.
Horkheimer e Adorno non forniscono soluzioni: vogliono al contrario che ad
andare a fondo sia proprio ogni pretesa di ‘soluzione’. La ‘dialettica’
dell’Illuminismo (cioè a dire che anche l’Illuminismo ha una sua dialettica, può
avere forti capacità critiche nei confronti di una realtà irrazionale, etc.) sta
a significare che la ‘contraddizione reale’ va necessariamente esplicitata, in
tutta la sua paradossalità, anche quando risulti insostenibile e fastidiosa a
una ragione che desidera a tutti i costi ‘far quadrare i conti’. Ma, se i conti
non quadrano, va detto ed evidenziato, senz’altro. Dunque si potrebbe dire che
il rapporto mito-Illuminismo e Illuminismo-mito (l’uno rimanda a l’altro e
viceversa) è rapporto dialettico nella misura in cui il mito è già il tentativo
dell’uomo di venire a patti con le forze naturali, certo da una posizione ancora
di ‘inferiorità’ e non pienamente razionale. L’Illuminismo perciò, criticando il
mito, non fa altro che realizzarlo, completarlo, superarlo (nel senso hegeliano
dell’aufheben). Ma questo superamento, la ‘falsa coscienza’ dell’Illuminismo lo
presenta come annientamento del mito in quanto tale. L’Illuminismo assolutizza
se stesso e così facendo si ripropone in veste ‘mitica’, non criticabile, non
superabile a sua volta, come esso ha voluto invece fare con il mito. Questa
assolutizzazione della ragione, in età moderna, è la "colpa" che Horkheimer e
Adorno attribuiscono alla logica occidentale, alla scienza, al progresso, ecc.
E’ un’assolutizzazione che passa sopra a tutto e fa terra bruciata; passa sopra
la natura, ma - non si dimentichi il nazismo - anche sopra all’uomo. 3. Vediamo
allora come Horkheimer e Adorno ci presentano questo cammino dell’Illuminismo
verso la nascita della soggettività moderna-contemporanea. "L’emergere del
soggetto [distinto dalla natura-oggetto] è pagato col riconoscimento del potere
come principio di tutti i rapporti. […] La somiglianza dell’uomo con Dio
consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando.
Il mito trapassa nell’Illuminismo e la natura in pura oggettività. Gli uomini
pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo
esercitano." Il progresso del pensiero è in realtà un regresso sociale e umano.
La presa di consapevolezza da parte del soggetto (del singolo uomo e del genere
umano) di essere capace di dominare razionalmente la realtà e soprattutto la
natura (con la scienza), paga uno scotto senza precedenti, che nell’età moderna
si concretizza non solo nel dominio dell’uomo sull’uomo, ma nel dominio delle
cose (merci, lavoro, capitale) sugli uomini. Il rapporto mitico uomo-natura, nel
quale l’uno e l’altra erano in simbiosi, viene sostituito da un rapporto di
estraniazione dell’uomo dal mondo naturale. L’estraniazione segna negativamente
quell’apparente positività con la quale l’Illuminismo crede di appropriarsi
delle cose. Il possesso, il dominio, il comando, il potere esercitato dalla
ragione sulle cose è in realtà un allontanamento, un distacco e, nella società
borghese contemporanea, un rovesciamento del dominio: l’uomo socializzato
controlla la natura, ma a sua volta è controllato dalla struttura economica
della società. La consapevolezza con la quale egli diventa il soggetto assoluto
del rapporto uomo-natura, viene annullata nell’inconsapevolezza con la quale è
assoggettato al potere economico borghese. "Perché le pratiche localizzate dello
stregone cedessero il posto alla tecnica industriale universalmente applicabile,
era prima necessario che i pensieri si rendessero indipendenti dagli oggetti,
come avviene nell’Io conforme alla realtà." La nascita della società borghese,
della scienza tecnologicamente applicata, del soggetto dominatore, sono tutti
momenti che si costituiscono a partire dall’abbandono del rapporto
‘intersoggettivo’ uomo-natura. Ma - si chiedono gli autori - come è potuto
accadere ciò? "Come totalità linguisticamente sviluppata, che mette in ombra,
con la sua pretesa di verità, la fede mitica più antica, le religioni popolari,
il mito solare, patriarcale, è già Illuminismo, con cui l’Illuminismo filosofico
può misurarsi sullo stesso piano. […] La mitologia stessa ha avviato il processo
senza fine dell’Illuminismo (…)" [corsivo nostro]. Allora possiamo vedere la
precisa dialettica che viene fin da subito instaurata fra mito e Illuminismo
nello stesso momento in cui il mito (vissuto e sentito nel mondo magico,
pre-filosofico) diventa precisamente ‘mitologia’, cioè discorso, ragionamento,
pensiero sul mito. La critica mossa dall’Illuminismo alla mitologia, non solo la
obbliga a difendersi, scendendo sul piano logico, il piano dell’Illuminismo ( il
riferimento è a Hegel e alla lotta dell’Illuminismo contro la fede che, per
difendersi dalla critica deve ‘discutere’, articolare il linguaggio, fare del
logos e cioè scendere sul piano logico-razionale a lei estraneo; allo stesso
modo succede anche al mito criticato dall’Illuminismo), ma la riconosce in
quanto discorso (logos) sul mito; in questo senso il mito è già Illuminismo, dal
mito prende le mosse l’Illuminismo. Gli autori tendono a distinguere ‘mito’ da
‘mitologia’ (e lo si vedrà meglio più avanti): il mito in quanto tale è il
rapporto originario uomo-natura, la mitologia invece è già sistemazione logica,
pensata, articolata, di quel rapporto. L’originario rapporto di parità
uomo-natura(divinizzata), nella mitologia, nell’ordinamento del mito e della
tradizione mitica, è già andato perduto. Il soggetto teoretico, il filosofo, il
logos e quindi il germe dell’Illuminismo ha già preso piede, iniziando un
inarrestabile cammino che porterà l’umanità alla società moderna-contemporanea,
all’estraniazione totale dell’uomo dalla natura pur da esso dominata. Il Sé a
cui è pervenuta la civiltà europea, dicono gli autori, è in realtà schiacciato e
non emancipato dall’irrazionalità, in una società che si presenta fondata sul
rapporto di dominio del collettivo sull’individuale, della quantità indifferente
sulle differenze qualitative, della giustizia livellatrice sulla libertà
personale, ecc. "L’uomo si illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è
più nulla di ignoto. Ciò determina il corso della demitizzazione
dell’Illuminismo […]." Ma la paura in realtà resta, nella misura in cui l’ignoto
diventa per eccellenza il tabù della scienza positivistica (ultimo prodotto
dell’Illuminismo). Non c’è un rapporto di inclusione fra la ragione e ciò che
ragione non è, c’è al contrario un rapporto di esclusione messo in atto dalla
ragione stessa, la quale così facendo espelle da sé il mito (il mana, come lo
chiamano gli autori), riproponendolo come ciò che rimane fuori, ma che pur
sempre rimane. Da una parte la civiltà occidentale si libera di ciò che non è
conforme alla ragione, domina la natura, l’ignoto, ecc.; dall’altra però non
elimina la paura stessa dell’ignoto, lasciandolo fuori della sua organizzazione
sociale e scientifica, la quale viene a poggiare su criteri di ‘uguaglianza’,
omologazione e dominio che, al dunque, annullano ogni libertà essenziale
dell’individuo. 4. L’Illuminismo investe anche il campo dei rapporti fra le
scienze e più precisamente fra la scienza e l’arte, fra il segno e l’immagine;
oltre che il più complesso rapporto fra linguaggio e realtà. Viene inoltre
tematizzato il rapporto fra Illuminismo e dialettica, intesa quest’ultima come
capacità critica della ragione di negare l’esistente evitando accuratamente di
assolutizzarlo. Ma vediamo meglio. La rottura dell’originario mana (unità di
uomo e natura) fa sì che si distinguano anche, secondo Horkheimer e Adorno, il
linguaggio (la parola come segno) dall’immagine (parola come imitazione della
natura). "Come segno, la parola passa alla scienza; come suono, come immagine,
come parola vera e propria, viene ripartita fra le varie arti […]. La
separazione di segno e immagine è inevitabile." In questa sorta di divisione del
lavoro teorico fra scienza e arte, per cui l’una conosce la natura senza
somigliarle, l’altra si limita ad essere solo copia della natura, il
neopositivismo, la scienza contemporanea, abdica totalmente alla tensione
conoscitiva e si riduce a "gioco" matematico, chiuso in se stesso, con le sue
regole automatiche, le quali non sono riferite direttamente alla realtà, tanto
meno al pensiero inteso classicamente: "L’Illuminismo ha accantonato l’esigenza
classica di pensare il pensiero - di cui la filosofia di Fichte è lo svolgimento
radicale […]." Questa divisione del lavoro serve, dicono gli autori,
all’autoconservazione del dominio sociale, nella misura in cui non solo elimina
la possibilità della critica (il pensiero a stretto rigore non pensa, il
linguaggio scientifico è un segno separato dalla realtà, l’arte è copia acritica
della natura), ma preclude ogni possibilità all’uomo di conoscere. "Il pensiero
si reifica in un processo automatico che si svolge per conto proprio,
gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente
sostituire." L’apparato teorico così costituito (il positivismo scientifico)
rende asservito il pensiero a meccanismi ad esso estranei; nei quali non solo il
pensiero stenta a riconoscersi ma sui quali non esercita alcun potere. Questo è
l’aspetto più contraddittorio e autodistruttivo dell’Illuminismo che, invece di
realizzare il sapere, lo distrugge trasformandolo in mero calcolo
utilitaristico, in formalismo logico, in un ambito separato dalla realtà, dalla
natura, dall’essere delle cose. Il soggetto conoscente è incapace di conoscere;
la realtà impenetrabile si riproduce meccanicamente secondo criteri e metodi
alieni alla ragione. Se il ‘lume’ della ragione si presenta come progresso
conoscitivo, in realtà sottomette il pensiero a regole estranee e opprimenti.
"Non c’è essere al mondo che la scienza non possa penetrare, ma ciò che può
essere penetrato dalla scienza non è l’essere" . Di fronte a questa estraneità
del pensiero alla realtà, giace la realtà stessa, la quale viene risparmiata
dalla critica: essa viene in fondo riprodotta e giustificata così come è. E’ una
realtà ingiusta e brutale quella a cui stiamo assistendo, dicono gli autori,
tale che richiederebbe un’impietosa critica. La negazione dialettica (o
negazione determinata) del reale è ciò che solamente può scardinare la durezza
impenetrabile della realtà. "Nel concetto di negazione determinata, Hegel ha
indicato un elemento che distingue l’Illuminismo dalla corruzione positivistica
a cui egli lo assegna. Ma finendo egli per elevare ad assoluto il risultato
consaputo dell’intero processo della negazione: la totalità sistematica e
storica, contravvenne al divieto e cadde a sua volta nella mitologia." Vediamo
allora a cosa esattamente si riferiscono i due autori. Il procedimento
dialettico hegeliano, secondo Horkheimer e Adorno, riesce bene a utilizzare il
carattere fondamentale del pensiero illuministico, cioè quello di negare, per
superare e togliere, gli aspetti contraddittori e irrazionali del reale. Ma
ricadendo nell’esigenza di affermare comunque la razionalità, di affermarla
nonostante l’irrazionalità di una realtà poco prima negata, cede al carattere
paradossale dell’Illuminismo: la critica dell’Illuminismo al mito (come
l’esempio classico e originario di irrazionalità nella storia del pensiero
occidentale) ristabilisce il mito stesso. Il mito di una realtà pienamente
razionale. Gli autori utilizzano qui il termine ‘mito’ in un’accezione
differente rispetto a quella usata finora. Il mito antico era l’immediata
interpretazione umana della natura, superata la quale, da parte
dell’Illuminismo, si instaura il ‘mito’ di una realtà pienamente razionale.
Chiaramente il primo ‘mito’ è differente dal secondo, ma, nella sostanza, quello
che vogliono sottolineare i due autori è che così come il mito originario si
presentava resistente ad ogni intervento critico della ragione, anche il mito
moderno (la ragione assolutizzata e incontestabile) si presenta impermeabile
alla possibilità di essere a sua volta sottoposto a critica. 5. L’ultima
argomentazione presentata dai due autori riguarda la formazione e
l’autoconservazione del soggetto borghese (del Sé ideologico ma anche della
struttura di potere vigente nella società contemporanea). Viene descritta
un’allegoria particolarmente suggestiva fra il racconto omerico del dodicesimo
canto dell’Odissea (il passaggio di Odisseo davanti alla Sirene) e la nascita
della civiltà occidentale, che nella modernità culmina con l’instaurarsi di un
controllo e dominio assoluto dell’uomo sulla natura e su una parte del genere
umano. Odisseo rappresenta l’umanità che "ha dovuto sottoporsi a un trattamento
spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico,
pratico, virile dell’uomo […]." Il canto delle Sirene cui Odisseo (l’io
occidentale-borghese) deve resistere rappresenta il "passato; quel passato in
cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura, o meglio in cui non distingueva Sé
dagli oggetti naturali. Lo sforzo di Odisseo di resistere al richiamo della
natura-vita, rappresentata da quel canto, è necessario per conservare
l’integrità dell’individualità personale dell’uomo borghese, ma soprattutto per
mantenere quei rapporti di dominio dell’uomo sull’uomo, ben rappresentati,
secondo gli autori, dal mito omerico. Sulla nave di Odisseo i suoi compagni
hanno le orecchie tappate con la cera; il loro unico compito è quello di remare.
"E’ ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i
lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato.
[…] Essi diventano pratici. […] Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare
gli altri per sé […] ode, ma impotente, legato all’albero della nave […]. I
compagni […] riproducono, con la propria vita, la vita dell’oppressore, che non
può più uscire dal suo ruolo sociale". L’analogia istituita da Horkheimer e
Adorno fra il mito omerico e la struttura della società borghese è tale per cui
la soggettività di chi domina (il proprietario della terra, dei mezzi di
produzione), sebbene consapevole di rivestire un ruolo sociale che lo obbliga ad
avere un rapporto di dolore ed estraniato con la natura (le Sirene), sa altresì
di non poterne fare più a meno, pena la mancata autoconservazione di sé e della
sua proprietà (fuori dei rapporti borghesi di produzione non è consentito
sopravvivere). D’altra parte il lavoratori (compagni di Odisseo) mancano
forzatamente di consapevolezza e coscienza sociale (hanno le orecchie tappate);
la loro unica occupazione è materiale, volta alla riproduzione di sé e del
padrone stesso. Essi sono quella parte del genere umano asservita
(inconsapevolmente) al dominio borghese. Questo quadro assolutamente desolante e
fortemente critico, viene però, secondo Horkheimer e Adorno, riscattato nella
misura in cui la stessa ideologia borghese (l’Illuminismo della società
contemporanea) rivela la sua interna paradossalità e inconsistenza teorica.
"Misure come quelle prese sulla nave di Odisseo al passaggio davanti alle Sirene
sono l’allegoria presaga della dialettica dell’Illuminismo". Ciò che sembrava la
realizzazione della libertà, dell’emancipazione dell’uomo (come singolo e come
genere), il trionfo della ragione, si presenta al dunque come la realizzazione
più cruda e irrazionale di un’oppressione e coercizione dell’uomo su se stesso
oltre che sulla natura. Il mito poi (in questo caso quello di Odisseo) è ciò
che, paradossalmente, rappresenta meglio la logica interna dell’Illuminismo; di
quel pensiero razionale che intendeva invece dal mito liberarsi definitivamente.
Excursus I. Odisseo, o Mito e Illuminismo 1- La
dialettica dell’Illuminismo è testimoniata esemplarmente dall’Odissea nel suo
complesso. Il nucleo originale è mitico, ma, organizzato dallo spirito omerico,
si distacca da quella tradizione popolare da cui pure proviene. C’è una
contraddizione, secondo gli autori, fra ‘mito’ e organizzazione mitologica
nell’epos, cioè fra mito tramandato oralmente e mito raccontato, scritto,
rielaborato razionalmente: "[…] cantare l’ira di Achille e le peripezie di
Odisseo è già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può più cantare, e
il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo
borghese […]." Come sappiamo, c’è un rapporto dialettico fra mito e Illuminismo:
da una parte la ragione organizzatrice (rappresentata in questo caso dalla mano
di Omero) mette a punto una ricostruzione scritta del mito che emancipa l’uomo
(la civiltà occidentale) dalla "preistoria", dall’assenza di un rapporto
razionale fra uomo e natura; d’altra parte però l’inizio dell’Illuminismo risale
proprio alla tradizione mitica più remota. Il passaggio dal ‘mito’ all’approccio
illuministico segna anche un passaggio a forme di ‘dominio’ dell’uomo sulla
natura che - come ha ben compreso Nietzsche - si presentano fortemente
ambivalenti: è il progresso umano e civile dell’uomo che distrugge la vitalità
del suo rapporto con le forze naturali. E’ un progresso distruttivo quello a cui
l’Illuminismo conduce. Non c’è opera che testimoni in modo più eloquente
dell’intreccio di mito e Illuminismo di quella omerica, testo originale della
civiltà europea." Secondo Horkheimer e Adorno, l’itinerario di Odisseo è lo
stesso itinerario del soggetto (del Sé) moderno-borghese, il quale, prima di
prendere coscienza della sua razionalità, deve emanciparsi faticosamente da uno
stadio di civiltà ancora legato a culti, forme di dominio e di vita mitiche.
L’emancipazione dal mito, tuttavia, non annulla il mito in quanto tale, che
anzi, proprio nell’Odissea, diventa metafora della struttura borghese della
società e dell’individuo come tale. 2- L’astuzia di Odisseo rappresenta il
‘lume’ della ragione, contrapposto a una brutalità tutta naturale e mitica,
comunque originaria, nella quale l’uomo si trova a dover combattere con forze ed
istinti caratterizzati negativamente nell’epos omerico (Polifemo, la maga Circe,
le Sirene, etc.). "L’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di
sé per conservarsi, è l’astuzia." L’astuzia di Odisseo rappresenta un ‘ordine’
(la patria, la famiglia a cui l’eroe tenta di ritornare attraverso il suo lungo
viaggio); quell’ordine borghese che permette la riproduzione e
l’autoconservazione dell’uomo entro schemi e rapporti da lui dominati e
regolati. "Ecco il segreto del processo tra epos e mito: il Sé non costituisce
la rigida antitesi all’avventura, ma si costituisce, nella sua rigidezza, solo
in questa antitesi, unità solo nella molteplicità di ciò che quell’unità nega."
Il distacco dal mito, che nell’epos omerico viene descritto, porta l’uomo a
irrigidirsi. Assistiamo, in altri termini, a una sorta di razionalizzazione
(come irrigidimento) della vita e della coscienza umana, che si presenta come
una conquista di civiltà, raggiunta attraverso un’avventura epico-mitica. Una
conquista descritta mitologicamente e che al contempo emancipa (o crede di
emancipare) definitivamente l’uomo dal mito. L’irrigidimento costitutivo del Sé
(della coscienza umana moderno-borghese) sta proprio nella contraddittoria
convinzione di essersi per sempre liberato del mito e nel credere che questa
liberazione sia anche la realizzazione stessa del progresso. L’astuzia di
Odisseo si manifesta anche come superamento del "sacrificio" (sacrificio
dell’uomo al dio) e come consapevolezza da parte dell’eroe nell’usare il
linguaggio. Ma vediamo in che senso. Notano gli autori che nell’epos omerico non
vi sono descritti veri e propri sacrifici umani; vi è piuttosto la presa di
coscienza, da parte di Odisseo, dell’inganno che il sacrificio in quanto tale
rappresenta. Rendere, da parte dell’uomo, un sacrificio al dio vuol dire non
solo ingraziarselo (e attraverso di lui ingraziarsi la natura), ma in qualche
modo dominarlo, comunque controllarlo, sebbene da una posizione di inferiorità,
e limitarne il potere. Ma l’uomo, in cuor suo, dicono Horkheimer e Adorno, non
può non sapere che la divinità a cui ci si sacrifica in realtà viene in questo
modo a far parte di uno scambio tutto umano, il cui valore ultimo certo non va
al dio. "Se lo scambio è la secolarizzazione del sacrificio, il sacrificio
stesso appare già come il modello magico dello scambio razionale, un espediente
degli uomini per dominare gli dèi, che vengono rovesciati proprio dal sistema
degli onori che loro si rendono." Che cosa fa allora Odisseo di diverso dal
sacrificio-scambio? Che cosa aggiunge a questa forma magico-mitica di inganno
reso agli dèi? La vicenda a cui gli autori si riferiscono è quella descritta
nell’Odissea a proposito del ‘falso’ sacrificio reso a Posidone; mentre il dio
viene accontentato da ingenti sacrifici nella terra degli Etiopi, Odisseo può
fuggire indisturbato e mettersi in salvo. L’uso ‘astuto’ e indiretto del
sacrificio lo trasfigura e ne rovescia il senso originario; porta alla coscienza
dell’uomo la possibilità di falsificare e dissimulare il rapporto con gli dèi,
esclusivamente per il suo vantaggio personale. "Ma inganno, astuzia e
razionalità non sono semplicemente opposti all’arcaismo del sacrificio. Odisseo
non fa che elevare ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che
è forse la ragione più intima del carattere illusorio del mito." Ecco allora che
questa presa di coscienza è un passo oltre la magia del sacrificio, il quale, in
questo modo, viene realizzato dall’uomo come consapevole inganno, come scambio
moderno-borghese ante litteram, come dominio cosciente sulla natura divinizzata,
come rovesciamento infine del rapporto di dominio del dio sull’uomo. Questo
stacco illuministico dal mito è rappresentato bene anche dal modo in cui Odisseo
usa il linguaggio e precisamente il suo nome. Udeis in greco vuol dire nessuno;
con questo significato del proprio nome Odisseo si presentò a Polifemo il quale,
reso cieco dall’eroe, pur chiedendo aiuto ai Ciclopi venne frainteso quando
questi gli chiesero chi l’avesse ridotto a quel modo: "Nessuno!" rispose. "Nasce
così la coscienza del significato: nelle sue angustie Odisseo si accorge del
dualismo, in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse."
Secondo gli autori, questa ulteriore presa di coscienza, da parte dell’eroe
mitico, lo solleva dall’immediatezza del rapporto con le cose, con gli oggetti e
la natura. L’immediatezza con cui le parole vengono attribuite alla realtà viene
definitivamente rotta e mediata, da quel momento in poi, dal pensiero. La
coscienza di Odisseo comincia appositamente a separare le parole dalle cose, a
rendere problematico il riconoscimento dell’uomo nel proprio nome. Assistiamo,
dicono gli autori, a un duplice sdoppiamento; da una parte il linguaggio si
separa dalla cosa designata, potendo di per sé assumere significati anche
opposti, che indicano opposte realtà, dall’altra è l’uomo stesso a sdoppiarsi
nel proprio nome, ingannando la realtà al fine di autoconservarsi come individuo
dotato di ragione e capace di dominare astutamente le circostanze esterne.
Dall’astuzia di Odisseo "[…] emerge il nominalismo, il prototipo del pensiero
borghese. L’astuzia dell’autoconservazione vive di questo processo in atto fra
parola e cosa.[…] L’astuto pellegrino è già l’homo oeconomicus a cui somigliano
tutti gli uomini dotati di ragione." Excursus II. Juliette,
Illuminismo e morale 1. Kant e la ragione strumentale: "L’Illuminismo è,
per dirla con Kant, "l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli
stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto
senza la guida di un altro"". Secondo gli autori, Kant ha avuto il merito di
cogliere il senso più profondo dell’Illuminismo, inteso come processo di
conoscenza sistematica e scienza tout court; ha presentato però la ragione
scientifica come uno "strumento" e cioè come un mezzo di conoscenza non dotato a
sua volta di autocoscienza. Insomma, per dirla con Hegel, ciò che manca alla
teoria della conoscenza di Kant è la capacità della ragione soggettiva di
conoscere l’essenza delle cose e di riconoscerla come la propria essenza.
Permane una distanza tra il soggetto e la realtà, non colmata dalla scienza,
sebbene questa si presenti come l’unico modo di sistemare la verità delle cose.
Certamente l’Illuminismo kantiano ha conquistato al soggetto la ‘libertà’ di
agire indipendentemente da autorità esterne ed estranee alla sua logica, ma non
ha risolto, in sede teorica e pratico-morale, la possibilità che quella libertà
conquistata venga contraddetta e negata. "Alla base dell’ottimismo kantiano per
cui l’agire morale sarebbe razionale anche là dove quello immorale ha buone
probabilità di successo, è l’orrore di fronte al pericolo di una ricaduta nella
barbarie." Dunque, la possibilità che il percorso ‘lineare’ del progresso
scientifico e morale dell’uomo moderno venga contraddetto, arrestato e al limite
anche rovesciato, si dà nonostante quell’ottimismo kantiano-illuministico, che
si rivela in realtà, secondo gli autori, come paura malcelata dell’irrompere
nella ‘civiltà’ di elementi irrazionali. L’Illuminismo tende ad autoconservarsi
come dominio borghese dell’uomo sulla natura; nel corso di questo
assoggettamento dell’una all’altro intervengono distorsioni, contraddizioni
reali, regressioni che coinvolgono la stessa scienza. Nella sua Critica della
ragion pura, dicono gli autori, Kant ne ha dato conto; è l’Illuminismo
‘ideologico’ (cioè quello collegato direttamente al potere e alla struttura
economico-borghese) che cela queste difficoltà "dietro l’apparente chiarezza dei
suoi giudizi." Dunque, il merito di Kant starebbe proprio nel suo tentativo
(seppure non riuscito) di trovare all’interno della scienza un posto anche per
la ‘contraddizione’; ossia di spiegare razionalmente l’irrazionalità, le
difficoltà logiche e morali difronte a cui necessariamente si trova la moderna e
illuministica coscienza umana. 2. Chi invece ha, certamente a suo modo,
assolutizzato l’irrazionalità e l’immoralità dell’uomo moderno è Sade.
L’Histoire de Juliette, secondo gli autori, è l’opera che meglio rappresenta il
rovesciamento della morale illuministica e della società borghese. "La ragione è
l’organo del calcolo, della pianificazione; neutrale verso i fini, il suo
elemento è coordinazione. L’affinità di conoscenza e piano (fondata
trascendentalmente da Kant), che dà all’esistenza borghese, razionalizzata fin
nelle sue pause, un carattere, in tutti i particolari, di finalità ineluttabile,
è stata esposta empiricamente da Sade un secolo prima dell’avvento dello sport.
[…] La peculiare struttura architettonica del sistema kantiano, come le piramidi
ginniche delle orge di Sade e la gerarchia di principi delle prime logge
borghesi […] preannuncia un’organizzazione di tutta la vita destituita di ogni
scopo oggettivo." L’ardito paragone istituito dai due autori fra lo schematismo
trascendentale kantiano (cioè l’interna e autonoma struttura intellettuale del
soggetto conoscente e immerso nell’esperienza), la ‘struttura’ delle orge
sadiane, l’organizzazione sportiva del mondo contemporaneo e la struttura stessa
della società borghese, ci fa ben comprendere il senso che Horkheimer e Adorno
attribuiscono alla nozione di ‘dialettica’. I prodotti scientifici, culturali,
artistici e sociali del mondo contemporaneo (nato dallo sviluppo
dell’Illuminismo premoderno, che si è innanzitutto scagliato contro il mito,
ecc.) sembrano, apparentemente e secondo il senso comune, realizzare appieno la
razionalità dell’uomo, identificata con il suo alto grado di civilizzazione. Ma,
a ben vedere, questi stessi risultati della cosiddetta civiltà si contraddicono
reciprocamente e in se stessi. Da una parte, la ragione illuministico-kantiana
viene ad assumere una funzione sociale distaccata dalla più intima coscienza
umana, diviene "ragione strumentale", organizzazione ‘neutrale’ di un materiale
umano (l’esperienza in genere) che non riceve da questa ‘architettura razionale’
nessun accrescimento in termini di autocoscienza, consapevolezza, capacità di
riconoscersi nelle cose e agire nel mondo come a casa propria e a casa propria
come nel mondo. D’altra parte, questa struttura razionale, proprio a causa della
sua pretesa ‘neutralità’ può essere applicata anche a ciò che razionale non è,
anche a ciò che contraddice la moralità e i valori conquistati dalla ragione
illuministica. La dialettica, cioè il rovesciamento nel suo opposto, che subisce
la ragione strumentale, si manifesta anche nella società stessa come immoralità,
come agire controllato e finalizzato dell’uomo verso scopi che prescindono dalla
comprensione qualitativa dell’oggetto. C’è un totale "rovesciamento dei valori",
riprodotto sistematicamente in una società che ha come scopo ultimo e fine a se
stesso, non l’innalzamento della coscienza umana, ma il dominio delle cose sugli
uomini in forma di "potere economico". "Sade e Nietzsche hanno eternato questa
contraddizione, ma hanno contribuito così a recarla al concetto." Ossia: sebbene
questi due autori abbiano aderito alla dialettica dell’Illuminismo appena
esposta, l’hanno proprio per ciò portata alla coscienza, l’hanno indagata, hanno
contribuito a svelarne il carattere "distruttivo" della razionalità e moralità
dell’uomo moderno-borghese. "Il fatto di non aver mascherato, ma proclamato ad
alta voce l’impossibilità di produrre, in base alla ragione, un argomento di
principio contro l’assassinio, ha alimentato l’odio di cui proprio i
progressisti perseguitano ancora oggi Sade e Nietzsche. […] L’uno e l’altro
hanno preso in parola la scienza. […] Proclamando l’identità di ragione e
dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della
borghesia. "Dove sono i tuoi massimi pericoli ? - si è chiesto una volta
Nietzsche -: nella compassione". Egli ha salvato, nella sua negazione, la
fiducia incrollabile nell’uomo, che è tradita giorno per giorno da ogni
assicurazione consolante." Svelare criticamente e senza appello la
"deformazione" in cui è caduta la pretesa civiltà occidentale; non concedere
alcuna "compassione" a questo stato di cose, è ciò che, paradossalmente,
riscatta l’uomo dalla "barbarie" borghese, dalla dialettica dell’Illuminismo,
dall’ipocrita ideologia borghese di progresso. L’industria
culturale. Quando l'illuminismo diventa mistificazione di massa 1. Nella
società contemporanea e ‘di massa’ viene istituito un nesso inscindibile fra
bisogni, sistema produttivo, tecnica, dominio. Di fronte a questo potente
quadrinomio l’individuo si presenta piuttosto come "consumatore" passivo. La
produzione di cultura non risponde a esigenze che soddisfino la qualità umana,
la coscienza, la consapevolezza critica, e così via, ma la riproduzione del
"capitale investito". Il lavoratore stesso, dicono gli autori, è orientato dalla
produzione anche nel suo tempo libero. "Il compito che lo schematismo kantiano
aveva ancora assegnato ai soggetti, quello di riferire in anticipo la
molteplicità sensibile ai concetti fondamentali, è levato al soggetto
dall’industria." In altri termini: la produzione industriale di ‘cultura’ toglie
al soggetto la capacità di pensare autonomamente, in virtù di se stesso, ne
annienta l’interna attività intellettiva, poiché semplicemente la sostituisce
con l’automatismo, la ripetitività, già data al di fuori e a prescindere dalla
coscienza. "Si può sempre capire subito, in un film, come andrà a finire, chi
sarà ricompensato, punito o dimenticato; per non parlare della musica leggera,
dove l’orecchio preparato può, fin dalle prime battute del motivo, indovinare la
continuazione, e sentirsi felice quando arriva." E’ questa una condizione di
alienazione in cui l’uomo massa vive e si conserva, senza per altro averne
l’esatta percezione. "I prodotti dell’industria culturale possono contare di
essere consumati alacremente anche in stato di distrazione. Ma ciascuno di essi
è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione
fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia." La riproducibilità
stereotipa di tutto determina l’annientamento di ogni differenza qualitativa e
di ogni capacità creativa della ragione. Il prodotto contemporaneo
dell’Illuminismo, il progresso dell’industria e la produzione capitalistica di
cultura, si risolve in un annullamento della capacità intellettiva, del ‘lume’
della ragione umana. La cultura diventa "imitazione", vuota di contenuto. 2.
Questo processo di impoverimento culturale si presenta sotto gli occhi di tutti
nei paesi industrializzati, tanto più in quelli nati politicamente dal
"liberalismo". "Non per nulla il sistema dell’industria culturale è sorto nei
paesi industriali più liberali, come è là che hanno trionfato tutti i suoi mezzi
caratteristici, il cinema, la radio, il jazz e i magazines." Ma l’industria
culturale più che avere caratteristiche politiche, nasce e si riproduce come
sistema dell’amusement, del divertimento e dello svago. "Al processo lavorativo
nella fabbrica e nell’ufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso
nell’ozio. Di ciò soffre inguaribilmente ogni amusement." L’uomo diventa
"cliente e impiegato", rincorso dalla produzione culturale fin nella sua più
intima coscienza; quanto più crede di emanciparsi dal processo lavorativo, tanto
più ne riproduce e mantiene i presupposti, consumandone i prodotti culturali, la
merce-cinema, la merce-TV, la merce-musica, etc. 3. La realtà non può più essere
criticata; la libertà del pensiero a cui l’Illuminismo diceva di aver condotto
la coscienza moderna si risolve in consumo acritico delle merci. "A
dimostrazione della sua divinità il reale viene sempre e solo ripetuto
cinicamente. […] La nuova ideologia ha per oggetto il mondo come tale." Il
cerchio si è chiuso: il progresso illuministico è approdato all’assoluta
‘positività’ della realtà estraniata dell’uomo; l’incontestabilità delle
relazioni economiche e culturali instaurate dalla produzione capitalistica,
diventa il ‘feticcio’ nei confronti del quale l’uomo singolo e il genere sono
sottomessi come a un’autorità divina, che esce fuori del loro consapevole
controllo. "Ciò serve a ribadire l’immutabilità dei rapporti. […] La libertà di
ciascuno è garantita. Nessuno deve rendere conto ufficialmente di ciò che pensa.
In cambio ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di istituzioni e
relazioni, che formano uno strumento ipersensibile di controllo sociale." C’è
però del tragico, secondo gli autori, al di sotto di quest’apparente
impermeabilità delle coscienze alla ‘critica’ e all’autocritica. "La società è
una società di disperati e quindi la preda di capi. […] Oggi il tragico si è
dissolto nel nulla della falsa identità di società e soggetto, il cui orrore
balena ancora fuggevolmente nella vuota apparenza di quello." L’individuo è, per
così dire, andato a fondo. Così come a fondo è andato ogni nesso etico-morale
fra individui. "Tutto viene percepito solo sotto l’aspetto che può servire a
qualche cosa d’altro, per quanto vaga possa essere l’idea di quest’altro. Tutto
ha valore solo in quanto si può scambiare, non in quanto è di per sé qualcosa."
Assistiamo a un ‘nichilismo’ reale, del quale gli autori ci danno un quadro
sociologico e antropologico molto ampio e articolato e per il quale, al momento,
non forniscono soluzioni di sorta. Elementi
dell'antisemitismo. Limiti dell’Illuminismo L’intero processo storico
dell’occidente approda tragicamente nell’antisemitismo e nel nazismo-fascismo.
Antisemitismo è innanzitutto odio e lotta da parte dei potenti-carnefici contro
la natura umana in quanto tale. L’ebreo, il disadattato in generale, ricordano
immediatamente le sofferenze a cui l’umanità è dovuta sottostare per dominare e
autodominarsi. L’adattamento al dominio, da parte dell’uomo, non è completo,
proprio nella misura in cui egli tenta l’eliminazione di chi gli ricorda di
essere dominato. L’antisemitismo ha anche una precisa connotazione
teologico-politica in quanto rappresenta la lotta del Dio cristiano con il Dio
ebraico. Il Dio dei cristiani è costruito, secondo gli autori, a immagine e
somiglianza della volontà di potenza dell’uomo; la volontà di innalzare
all’assoluto ciò che si presenta come finito. Il Dio ebraico invece lascia la
sua creatura nella finitezza, così come è, senza la pretesa di mediare, per
superarla a forza, questa condizione naturale del vivere umano. L’antisemitismo
non è un fenomeno storico e sociale ‘anormale’ ma tragicamente ‘normale’; è il
prodotto più estremo dell’Illuminismo e del progresso borghese. E’ una profonda
ferita etica che la ‘civiltà’ si è procurata da se stessa, e per la quale deve
assumersi in pieno la colpa. L’antisemitismo può essere spiegato come un
problema interno all’ideologia del borghese, il quale vuole fondare su elementi
‘di natura’ il suo dominio sociale; una natura deformata e violenta, quella "che
si rivela nel genocidio." Appunti e schizzi L’ultimo
capitolo della Dialettica si intitola Appunti e schizzi ed è composto da una
serie di brevi interventi su contenuti diversi, scritti in forma aforistica e
fra loro disomogenea. Si passa dalla considerazione della figura di Hitler come
"spirito antiumano" realizzato, alla critica nei confronti della teoria degli
‘spettri’ di Freud, fino al rapporto moderno-borghese fra filosofia e divisione
del lavoro. L’ambiente americano in cui i due autori vivevano fa da sfondo a
questa sorta di ‘carrellata’ di figure storico-sociali a loro contemporanee.
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