MAX HORKHEIMER

A cura di Diego Fusaro


INDICE

LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
IL PENSIERO
LA DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO: RIASSUNTO COMPLETO

LA SCUOLA DI FRANCOFORTE

Nel febbraio del 1923 viene aperto ufficialmente a Francoforte, grazie ad una donazione privata, l' "Institut für Sozialforschung" (Istituto per la ricerca sociale), sotto la direzione dello storico marxista Karl Grünberg. Di esso fece parte anche Max Horkheimer (Stoccarda 1895 - Norimberga 1973), che nel 1931 ne diventa a sua volta direttore. Nato nei pressi di Stoccarda da ricca famiglia ebrea, dopo aver lavorato presso l'impresa paterna, si laurea con una tesi su Kant nel 1922 a Francoforte, dove nel 1929 diventa professore di Filosofia sociale. Nel 1932 iniziano le pubblicazioni della rivista dell'Istituto, la "Zeitschrift für Sozialforschung", alla quale collaborano anche altri filosofi del calibro di Adorno, Fromm, Marcuse e sulla quale Horkheimer pubblica diversi articoli, che saranno successivamente raccolti dopo la guerra sotto il titolo di "Teoria critica" (1968). Nel 1933, con l'avvento del nazismo, Horkheimer è espulso dall'università, l'Istituto viene chiuso e trasferisce la propria sede in Svizzera e poi, nel 1934, a New York, mentre la rivista continua le sue pubblicazioni a Parigi, fino al 1940, e successivamente negli Stati Uniti. Horkheimer stesso si trasferisce a New York e dal 1941 in California, acquistando la cittadinanza americana. Durante il soggiorno statunitense, egli pubblica in inglese l' "Eclisse della ragione" (1947) e in tedesco la "Dialettica dell'illuminismo", composta in collaborazione con Adorno. Nel 1950 escono, sempre negli Stati Uniti, i risultati di una ricerca collettiva dell'Istituto, sotto il titolo "Studi sulla personalità autoritaria", ma nel frattempo Horkheimer torna in Germania per insegnare Sociologia e Filosofia all'università di Francoforte, anche se conserva la cittadinanza americana; con lui torna anche l'Istituto, soprannominato dagli studenti "Caffè Max". Nel 1951 è nominato rettore dell'università e nel 1954 si stabilisce sul lago di Lugano, dove conclude la propria esistenza nel 1973. In primo luogo, l'Istituto si propone il ripristino del marxismo , ma tenendo conto dei profondi mutamenti della situazione storico-sociale: soprattutto, dopo la grande crisi economica divampata nel 1929, il capitalismo sembra assumere un nuovo aspetto e trasformarsi, sia nelle democrazie occidentali, sia nelle dittature di Destra, sia nell'Unione Sovietica, in capitalismo di Stato. Ciò implica che non è più possibile parlare di una struttura economica autonoma rispetto alla politica: contrariamente alla teoria di Marx, lo Stato sembra riassumere il primato rispetto alla società civile e impedire, col suo intervento diretto nella sfera economica, l'impoverimento crescente del proletariato. In questa situazione, si assiste ad una graduale perdita di impulso rivoluzionario nella classe operaia, con la conseguente sfiducia, comune agli autori della Scuola di Francoforte, nel fatto che essa possa ancora essere il motore di una trasformazione radicale della società. Ostili alla socialdemocrazia, poiché traditrice degli obiettivi rivoluzionari, ma anche alla burocratizzazione e alla bancarotta, verificatasi anche sul piano teorico, del comunismo sovietico, essi si tengono per lo più lontani dall'attività politica diretta: l'organizzazione totale della società, comune ai paesi occidentali come a quelli orientali, non è spiegabile solo attraverso la coercizione materiale a cui sarebbero sottoposti gli individui. Si tratta, invece, di individuare anche le mediazioni psicologiche e culturali che rendono possibile la costituzione del dominio sociale e, dall'altra, l'accettazione passiva di esso. A questo scopo sono dedicate le ricerche collettive dell'Istituto sul problema dell'autorità. Non scorgendo più all'orizzonte un agente sociale della rivoluzione e ritenendo ormai impossibile su questa base una previsione scientifica del crollo del capitalismo, i pensatori della Scuola di Francoforte ritornano, in qualche modo, ad un'impostazione simile a quella della sinistra hegeliana dopo la scomparsa di Hegel: infatti, essi riconoscono la discrepanza tra la realtà storica e la razionalità e, quindi, il carattere irrazionale della società esistente, rispetto alla quale il compito primario da esercitare è la critica; si tratta pertanto, attraverso un lavoro di critica, di far diventare reale ciò che è razionale. Ecco perché i pensatori della Scuola di Francoforte vogliono elaborare una teoria critica della società , in cui occupa una posizione assolutamente centrale la dialettica , concepita (sulla scia del primo Lukàcs) come metodo per la trasformazione della realtà. A differenza di Lukàcs, però, la teoria critica non viene intesa come semplice espressione della coscienza di classe, senza per questo scivolare nell'illusione opposta che l'intellettuale sia al di sopra della mischia e della lotta di classe. L'intellettuale critico non è un ripetitore delle tendenze conformistiche del proletariato e la dialettica, di cui egli si serve, è orientata ad accertare le contraddizioni esistenti, ma senza la certezza di un superamento di esse in una sintesi finale. E poi, se Marx considerava la scienza, acquisibile mediante il metodo dialettico, diversa sia dall'ideologia, sia dall'utopia, per i pensatori della Scuola di Francoforte la scienza e la tecnica sono anch'esse causa ed espressione, al tempo stesso, del dominio totale della società e quindi forme di ideologia, non nel senso di essere semplici riflessi di interessi di classe, ma in quanto esprimono le contraddizioni della società. In questa prospettiva torna dunque ad aprirsi un nuovo spazio per l' utopia , la quale però consiste, più che nella delineazione di un programma dai contenuti positivi da perseguire e nella definizione dei caratteri della società libera del futuro, nella denuncia di ciò che è falso nel presente e nel rifiuto di esso: e così nel pensiero dialettico assume grandissimo rilievo il momento della negazione .

IL PENSIERO

Secondo Horkheimer, non è possibile conoscere la totalità che è sempre incompiuta: nessun aspetto della realtà può essere compreso come definitivo. Questa è l'illusione del positivismo e della scienza stessa, che reputa che l'oggetto della conoscenza siano i fatti, nel senso letterale di entità ormai compiute e separate dai valori. Nel saggio "Teoria tradizionale e teoria critica" (1937), Horkheimer sostiene che gli scienziati sono inseriti nell'apparato sociale e contribuiscono alla continua riproduzione di esso. Il livello raggiunto dalla divisione sociale del lavoro conduce infatti ad una separazione fra teoria e prassi e ad attribuire al sapere una funzione sociale. Su questa base si costituiscono le forme tradizionali di teoria, le quali tendono soltanto a descrivere fatti e, per questa strada, a giustificare lo stato di cose esistente, mentre nei casi in cui sono orientate all'azione, ciò avviene soltanto in vista del dominio tecnologico della natura e degli uomini. Horkheimer ritiene infatti che sia impossibile una ricerca scientifica pienamente disinteressata, quando gli uomini non sono autonomi: gli scienziati e i ricercatori fanno parte della società che essi studiano e, giacchè tale società non è il frutto di una libera scelta razionale da parte degli uomini, essi non possono uscire da essa; nella migliore delle ipotesi, essi possono solamente ravvisare all'interno della società forze e tendenze negative, che rimandano ad una realtà diversa. Qui si innesta il compito della "teoria critica", cosciente della scissione unilaterale fra teoria e prassi e orientata a superarla. Il suo strumento fondamentale è la ragione , che non va confusa con il senso comune o con l'intelletto, i quali sono incapaci di andare oltre l'immediatezza dei dati e di cogliere le contraddizioni e i nessi dialettici presenti nella realtà. La ragione deve invece riassumere il compito di tribunale critico della realtà: per essa è vero non un insieme di dati di fatto, ma tutto ciò che produce un cambiamento nella direzione di una società razionale. Le verità universali di cui si occupa la teoria critica non sono determinabili soltanto in relazione alla situazione esistente, ma implicano la possibilità di un diverso ordine delle cose. Questo non vuol dire appellarsi ad una presunta verità immutabile fuori dalla storia, dice Horkheimer: contrariamente alla fenomenologia e alle tesi di Scheler, egli non ritiene che esista una natura umana immutabile e che, pertanto, possa essere previsto e descritto una volta per tutte nei suoi tratti positivi il futuro regno della libertà: " l'idea di una società futura come comunità di uomini liberi qual è possibile con i mezzi tecnici di cui si dispone, ha un contenuto al quale si deve rimanere fedeli comunque esso si modifichi " ("Teoria tradizionale e teoria critica"). In una prospettiva del genere, la società buona può essere definita soltanto formalmente come la società in cui l'uomo è libero di agire come soggetto, senza subire alcuna strumentalizzazione. Nel quadro di questa antropologia negativa, ossia costruita attraverso la negazione dei caratteri dell'ordine esistente, il lavoro non occupa più la posizione centrale che aveva nel marxismo tradizionale. Porre il lavoro come la manifestazione suprema dell'attività umana equivale a " professare un'ideologia ascetica " tipicamente borghese, dice Horkheimer in pieno accordo con Benjamin e Adorno: essa mira a reprimere la felicità personale che per Horkheimer è in prima analisi legata alla sensibilità, sacrificandola a qualche bene superiore e sostituendola con palliativi di felicità illusoria, quali i divertimenti di massa. Contro quest'etica della negazione di sé, Horkheimer rivendica la dignità dell'egoista, che ha tuttavia il limite di respingere, come accade in Nietzsche, l'essenziale componente sociale della felicità. IL soggiorno statunitense pone Horkheimer di fronte alla realtà globale e monolitica di una società industriale all'avanguardia, caratterizzata, fra le altre cose, da uno straordinario sviluppo dell'industria culturale, che contribuisce anch'essa, ma in modo più sottile e meno brutale della costrizione fisica, a rendere gli individui uniformi e passivamente sottomessi al sistema sociale. Sorge allora il problema del perché l'umanità, nonostante gli straordinari progressi tecnici, " anziché entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie ": nel tentativo di trovare una risposta Horkheimer compone, insieme all'amico Adorno, la " Dialettica dell'illuminismo " : si tratta di chiarire come mai l'illuminismo, che ha come obiettivo la liberazione dell'umanità dalle paure e dalle superstizioni mediante la ragione, si sia capovolto dialetticamente nella sua negazione, ovvero nell'autodistruzione dell'illuminismo; si tratta cioè di spiegare come il progresso e la razionalità possano contenere elementi distruttivi. La via seguita dall'illuminismo per liberare gli esseri umani dalle paure consiste nel renderli padroni della natura mediante la scienza: il sapere si identifica, baconianamente, con il potere e la ragione si configura come strumento di dominio . In tal modo, tuttavia, l'illuminismo fa propri i contenuti dei miti che ha abbattuto, limitandosi a trasferire da Dio all'uomo il dominio sull'esistente: la differenza è che la natura non è più dominata assimilandosi ad essa attraverso la magia e l'imitazione, ma mediante il lavoro. L'accrescimento del potere degli uomini ha però il costo di una loro estraniazione dalla natura e dalle cose su cui lo esercitano, cioè di un distacco del soggetto dall'oggetto. Questa è la premessa su cui si costituisce l' astrazione , che annienta le differenze individuali, rende compatibile ed equivalente ciò che è eterogeneo ed esercita un dominio livellatore su tutto, rendendo tutto ripetibile nella natura: così, essa prepara le cose affinchè possano essere manipolate nell'industria. In questo modo, ciò che appare come trionfo della razionalità scientifica, cioè la sottomissione di tutto quel che è al formalismo logico e matematico, viene secondo Horkheimer e Adorno pagato con la sottomissione della ragione a quel che è dato e il pensiero stesso viene reificato, cioè ridotto a cosa e a strumento, e soggiogato al modo di produzione dominante: " l'animismo aveva vivificato le cose; l'industrialismo reifica le anime ". Attraverso la divisione del lavoro, il dominio della società viene ad estendersi anche sugli uomini, ma ciò che impedisce la realizzazione dell'illuminismo, come progetto di liberazione dal dominio, non è tanto la tecnica in quanto tale, la quale anzi fornisce abbondanza di prodotti, quanto la rinuncia al pensiero come apertura al nuovo. L'illuminismo viene così a rovesciarsi in una nuova mitologia, depurata da dèi e demoni, ma anch'essa fondata sull'accettazione passiva dei fatti; ciò conduce a legittimare l'ingiustizia sociale da cui i fatti stessi nascono: il mondo non è diventato più razionale. " Nel mondo illuminato la mitologia è penetrata e trapassata nel profano. La realtà completamente epurata dai demoni e dai loro ultimi rampolli concettuali, assume, nella sua naturalezza tirata a lucido, il carattere numinoso che la preistoria assegnava ai demoni. […] Rinunciando al pensiero, che si vendica, nella sua forma reificata - come matematica, macchina, organizzazione - dell'uomo immemore di esso, l'illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione " ("Dialettica dell'illuminismo", cap. 1). A differenza della tradizione marxiana, Horkheimer e Adorno non intendono per illuminismo l'ideologia della borghesia in ascesa; essi, anzi, includono lo stesso Marx, in quanto teorico del lavoro come autorealizzazione dell'uomo, nel solco dell'illuminismo. In realtà, per essi la storia dell'illuminismo coincide con l'intera storia della civiltà e del pensiero occidentale: al centro di esso vi è l'idea dell'uomo come padrone unico e assoluto del mondo. Essi scorgono la dialettica dell'illuminismo, incentrata sulla connessione tra mito, dominio e lavoro, già allegoricamente rappresentata dalle vicende di Ulisse narrate nell'Odissea omerica. Di fronte alle Sirene ammaliatrici, Ulisse si fa legare all'albero della nave dai suoi compagni per non perdere se stesso e la propria identità e in tal modo rinuncia al piacere immediato: gode, però, di un piacere a distanza udendo il loro conto. I suoi compagni, invece, hanno le orecchie tappate e quindi sono privati di ogni piacere, mentre remano, ossia lavorano obbedendo al comando di Ulisse, per portare lontana la nave: ciò simboleggia la separazione di godimento artistico e di lavoro manuale, la quale dà luogo ad una mutilazione e ad una regressione sia di Ulisse, che non partecipa al lavoro comune, sia dei compagni, che sono costretti a lavorare e hanno i sensi tarpati. La conclusione è che " la maledizione del progresso incessante è l'incessante regressione ": oggi le macchine mutilano gli uomini, anche se li sostentano. In questo contesto, anche il pensiero è impoverito, destinato a compiti solamente organizzativi e amministrativi all'interno di un apparato di dominio che tende a produrre uniformità e conformismo. A ciò contribuisce l' industria culturale , la quale trasforma la cultura in una merce oggetto di scambio come tutte le altre merci e, al contempo, esercita grande potere sul consumatore grazie alla mediazione del divertimento, che non deve essere, a sua volta, faticoso dopo il lavoro faticoso. Espressioni tipiche di essa sono, secondo Horkheimer e Adorno, la radio e il cinema, i quali, contrariamente a quanto pensava Benjamin, portano lo spettatore ad identificarsi con la realtà, ridotta ad una serie di personaggi stereotipati, che rappresentano l' " apoteosi del tipo medio ". In questo modo, essi tolgono spazio alla possibilità di pensare ciò che è inconsueto, conducono all'atrofia dell'immaginazione e riducono ogni capacità di resistenza di fronte alla realtà esistente. In questa situazione, la filosofia rappresenta " lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale ", estranea all'esistente e insieme capace di comprenderlo, senza capitolare di fronte ad esso: essa è, secondo i filosofi della Scuola di Francoforte, " la voce della contraddizione ". Horkheimer sviluppa temi affini a questi in un'opera pubblicata sempre nel 1947 e intitolata " Eclisse della ragione ". Il termine "ragione" viene impiegato in una molteplicità di significati, dice Horkheimer: in senso oggettivo, essa indica, da Platone e Aristotele in poi, la ragione orientata a individuare un ordine oggettivo e gerarchico dei fini, mentre in senso soggettivo, dominante in età moderna e formulato con estrema chiarezza da Max Weber, la ragione ha il compito di determinare non quali siano i fini razionali, bensì quali siano i mezzi adeguati al raggiungimento degli scopi, che possono essere tantissimi. In quest'ultima accezione, la ragione ha rinunciato a definire gli scopi ultimi, ma in tal modo si è svuotata di precisi contenuti e si è formalizzata: come conseguenza, essa è diventata ragione strumentale , adattabile a qualunque scopo e, quindi, subordinata all'assetto sociale esistente. La situazione odierna è caratterizzata dal fatto che la vita tende ad essere assoggettata ad un processo crescente di razionalizzazione in questo senso, ma quanto più è cresciuta la libertà e l'abilità nel calcolare i mezzi opportuni, tanto più è aumentata la passività nella scelta dei fini, che si trovano di fatto imposti dalle esigenze di dominare la natura e controllare gli uomini in modo da renderli funzionali alla riproduzione del sistema. In questa situazione, le forze economiche e sociali si configurano come cieche forze naturali che l'uomo, se ci tiene a sopravvivere, deve dominare adattandosi ad esse, obbedendo a schemi generali di comportamento. Il risultato è una natura ridotta a pura materia da dominare e l'io stesso smarrisce ogni spontaneità nel suo agire, si trova svuotato e ridotto all'esercizio delle pure funzioni di dominio e di organizzazione: il dominio è l'idolo a cui tutto viene sacrificato. La malattia della ragione consiste nel fatto che, nata dall'esigenza umana di dominare la natura, essa è diventata strumento di dominio. Da ciò possono scaturire o la rassegnazione, che consiste nell'accettare l'identità di ragione e dominio come se si trattasse di una legge eterna, con la conseguente repressione degli impulsi naturali, o la rivolta, che richiede un' autocritica da parte della ragione . Ciò vuol dire che la ragione può diventare ragionevole, solo riflettendo sul " male del mondo ", così come è prodotto e riprodotto dall'uomo, cioè riconoscendo l'esistenza di un antagonista odierno tra soggetto e oggetto, io e natura, parola e cosa. In questo modo, la filosofia, acquistando questa consapevolezza, può contribuire a sovvertire il processo storico, ma senza regredire alle vecchie concezioni metafisiche della ragione oggettiva: per essa, infatti, ogni concetto deve essere visto come frammento di una verità più vasta, non ancora data, in cui esso trova il suo significato. Horkheimer è consapevole che la comprensione della negatività del presente e delle sue contraddizioni non sono di per sé il superamento della situazione storica, ma rifiuta di identificare la filosofia con forme di attivismo e propaganda, per quanto nobili possano esserne gli scopi: il compito fondamentale rimane quello di denunciare tutto quel che mutila l'uomo e ne impedisce il libero sviluppo. Nei suoi ultimi scritti, Horkheimer rivendica alla filosofia il compito di difendere l'individualità e la sua autonomia, che rischia oggi di volgere al tramonto, annegata nel conformismo. In questo senso, egli ribadisce la preferibilità della democrazia occidentale, con tutti i suoi limiti, ad ogni forma di dittatura e segnala i rischi, inerenti anche al movimento degli studenti del '68, di applicare in modo troppo immediato la teoria critica alla prassi, con la violenza che ne può conseguire. Al centro della sua visione, rimane una concezione pessimistica della realtà e della fragilità dell'individuo, che egli fin dalla giovinezza aveva ereditato da Schopenhauer, Horkheimer riconosce però una funzione positiva alla religione , in quanto incarna un desiderio di felicità ed è mossa dall'aspirazione verso il totalmente altro, anche se tende a concepire questa trascendenza come rivelata e ipostatizzata in Dio e rischia, pertanto, di essere solamente un ulteriore strumento di controllo e di adattamento sociale. In "Teoria critica della società" (1968), Horkheimer indaga con gli strumenti della psicologia e della psicoanalisi i meccanismi del consenso e della formazione dell'opinione pubblica manipolata dai sistemi di propaganda. Il fascismo è indicato come forma implicita del capitalismo moderno e della civiltà tecnologica, che ha prodotto una società amministrativa, governata dalla burocrazia, senza autonomia per il singolo. Vedendo venir meno la possibilità di una reazione all'integrazione capitalistica nella società opulenta post-bellica, Horkheimer assume un atteggiamento di pessimismo metafisico, pur aprendo uno spazio critico al rinvio alla trascendenza ( "La nostalgia del totalmente altro", 1970, e "La società di transizione", 1972): egli arriva a coniugare il marxismo con lo schopenhauerismo.

LA DIALETTICA DELL'ILLUMINISMO

La Premessa degli autori all’edizione italiana Il testo tedesco della Dialettica del'Illuminismo è un frammento cominciato nel 1942 durante la seconda guerra mondiale. Doveva in realtà costituire l’introduzione alla teoria della società e della storia concepita dai due autori durante il dominio nazista. Il libro perciò risente molto, nella terminologia e nei problemi presi in esame, del contesto storico in cui è stato scritto. Il tema centrale del libro concerne le tendenze che trasformano il progresso culturale moderno e contemporaneo nel suo esatto contrario (cioè in un vero e proprio regresso). Ma è la stessa ragione illuministica a subire storicamente un vero e proprio rovesciamento, da cui principalmente dipende, secondo Horkheimer e Adorno, la trasformazione del progresso in regresso. Questo processo dialettico di ribaltamento del progresso nel suo contrario è illustrato da quell’insieme di fenomeni sociali contemporanei che si dispiegarono in America tra gli anni ’30 e gli anni ’40 del ‘900. Gli autori affermano altresì di non aver voluto né potuto fornire una teoria sistematica di quegli eventi e di questa particolare ‘dialettica’ storica e sociale dal punto di vista economico e politico. Il frammento appare perciò come un testo essenzialmente filosofico. La Premessa alla prima edizione Lo scopo che gli autori si erano fin dall'inizio proposti accingendosi a scrivere questo testo-frammento era quello di capire perché l’umanità era sprofondata in un nuovo genere di barbarie: la società moderna si presentava certamente in progresso dal punto di vista scientifico e tecnologico, ma in crescente decadenza dal punto di vista della cultura. I due autori riconoscono di aver inizialmente tentato di inserire la loro critica all’interno del quadro culturale e scientifico contemporaneo; anche criticando una particolare dottrina e rifacendosi piuttosto a un’altra. L’organizzazione della scienza in quanto tale - distinta in sociologia, psicologia e gnoseologia - non veniva da loro messa in discussione; il contributo che Adorno e Horkheimer intendevano dare con il loro scritto si sarebbe dovuto mantenere all’interno di questa "organizzazione" scientifica vigente. Il loro voleva essere sostanzialmente un intervento critico antipositivista; una riflessione sullo studio della tradizione scientifica, tale che ricostruisse le linee teoretiche fondamentali della scienza. Ma, iniziando il lavoro, ciò che immediatamente constatarono fu proprio la crisi della scienza in quanto tale; dell’organizzazione e del senso che la scienza deve avere in una società, che si vuole moderna e in costante progresso. Lo "sfacelo della civiltà borghese" è lo sfondo di questa crisi culturale e scientifica. La loro condanna del fascismo coincide allora con l’accusa mossa nei confronti di quella tendenza autodistruttrice che è l’Illuminismo . E la critica a questo stato di cose deve rifiutare di obbedire al pensiero filosofico attualmente vigente (all’organizzazione della scienza di cui sopra); esso si presenta né più né meno che come una "merce" e l’espressione che questa assume nella lingua non è altro che ideologia e mistificazione: un modo di rendere accettabile ciò che di per sé sarebbe umanamente da rifiutare . Il problema con cui ha a che fare la ‘critica’ non è tanto quello della "strumentalizzazione" della scienza da parte di alcune ideologie; piuttosto è il rischio che la critica stessa ricada nell’ideologia dominante della produzione di merci, la quale è un "processo globale" che tutto abbraccia, anche ciò che gli si oppone. Il riferimento storico è all’Illuminismo dell’Enciclopedia e all’"apologetica" di Comte, la quale trasformò la critica degli enciclopedisti in positiva accettazione della realtà vigente. C’è inoltre un riferimento polemico a tutto quanto il percorso della filosofia del diciottesimo secolo, la quale sembrò rivolgersi contro lo spirito ‘illiberale’ della sua età aderendo alla Rivoluzione Francese, salvo il fatto che poi, con l’avvento di Napoleone, "era già passata dalla sua parte" . Dal punto di vista strettamente teoretico si deve notare la tendenza nella filosofia moderna a trasformare la "critica" in "affermazione"; una tendenza che oggi è diventata la regola. In altri termini, la società contemporanea ha esautorato il pensiero scientifico-filosofico dalla possibilità di esercitare una libera critica del presente, oltreché una ricostruzione sensata di esso. La critica di Adorno e Horkheimer è rivolta contro gli attuali "meccanismi sociali" attraverso i quali la cultura viene prodotta (cinematografia, editoria, sistema educativo, etc.). Sembra vigere una forma di censura ‘spontanea’ anche in chi consuma il prodotto culturale; una autocensura in chi lo concepisce. Questa forma di proibizione al libero esercizio delle capacità teoretico-critiche dell’uomo, apre la strada alla "follia politica"; soprattutto all’incapacità umana di resistere ad essa. I due autori si rendono conto di trovarsi di fronte a un’aporia, a una difficoltà reale: l’autodistruzione dell’Illuminismo. "Non abbiano il minimo dubbio […] che la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico". Ma esso è intrinsecamente unito a una forte e reale tendenza al regresso e alla distruzione della libertà stessa. Il progresso come tale non è garanzia di libertà; la mancanza di una adeguata critica all’Illuminismo e al progresso presi insieme, porta inesorabilmente ad un’accettazione passiva del "dispotismo". Porta le "masse tecnicamente educate" alla "paranoia "popolare". La debolezza del pensiero teoretico contemporaneo sta proprio nell’inconsapevolezza di questa aporia. L’Illuminismo è l’idea che la società borghese ha di sé; un’idea che però spesso si blocca, per paura, di fronte alla verità, non sempre rischiarata dal lume della ragione. Quando la realtà si fa intimamente contraddittoria e irrazionale, il pensiero illuministico-borghese non ha il coraggio di criticarla e smascherarla. Così il regresso dell’Illuminismo ("autentico rampollo della civiltà moderna") a mitologia (irrazionalità) non va ricercato nelle moderne mitologie nazionalistiche, quanto piuttosto nella "paralisi" dell’Illuminismo stesso; una paralisi che condanna lo spirito moderno-contemporaneo alla cecità e all’incapacità di intervenire negativamente e criticamente sulla realtà. Spesso viene tacciato di "oscurità" quel pensiero che percorre vie non immediatamente visibili e chiare al senso comune; è "il lavoro del concetto" ciò che invece va incoraggiato, in tempi in cui il pensiero, scientifico e non, sembra soccombere sotto il peso di una condanna al regresso e all’autodistruzione. "La condanna naturale degli uomini è oggi inseparabile dal progresso sociale". Le potenze economiche riducono all’inferiorità culturale, politica, ecc., gran parte della popolazione, annullando ogni potere decisionale del singolo. Allo stesso tempo portano a livelli finora mai raggiunti il dominio della società sulla natura; le masse e i singoli vengono svuotati da una parte e riempiti (di merci, di beni, di consumi, ecc.) dall’altra. Lo spirito (la cultura e il pensiero di un popolo) viene reificato; diventa una cosa (merce), perciò non è più spirito. "La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo". Le condizioni storiche attuali sono tali che lo sviluppo materiale genera gruppi di potere che hanno preso totalmente il posto del "soggetto sociale" (popolo, massa, coscienza sociale diffusa), costituendo "la minaccia internazionale del fascismo" o, il che è lo stesso, il capovolgimento del progresso in regresso. Questi frammenti filosofici, dicono gli autori, hanno l’intento di smascherare il meccanismo perverso secondo cui, oggi, la "fabbrica igienica" (cioè la produzione di merci) si sostituisce al pensiero, allo spirito, alla metafisica. La Dialettica dell'Illuminismo è distinta in saggi diversi. Concetto di Illuminismo. Questo primo saggio è la base teoretica di quelli successivi; si incentra sull’intreccio di razionalità e realtà, tra natura e dominio della natura da parte dell’uomo. La critica mossa all’Illuminismo non vuole essere assoluta e senza appello. Ha, viceversa, una prospettiva di liberazione. Il primo saggio, scrivono gli autori, può riassumersi in questa formula chiasmatica: "il mito è già Illuminismo, e l’Illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia". Excursus . Seguono due excursus che vogliono illustrare questo intreccio dialettico mito-Illuminismo; il primo sull’Odissea, considerata come uno dei primissimi documenti rappresentativi della civiltà borghese occidentale; il secondo su Kant, Sade e Nietzsche, esecutori inflessibili dell’Illuminismo. In quest’ultimo viene rovesciato il rapporto di dominio del soggetto sull’oggettività, in cieco dominio di questa su quello. L'industria culturale . Il capitolo sull’industria culturale mostra la regressione concreta a cui l’Illuminismo è giunto attraverso la diffusione del cinema e della radio: l’ideologia feticistica della tecnica e della produzione si sostituisce alla consapevolezza critica e alla conoscenza in genere. Elementi dell'antisemitismo . Questa parte è dedicata al ritorno della civiltà illuminata alla barbarie. I due autori vi abbozzano una preistoria filosofica dell’antisemitismo, l’irrazionalità del quale viene ricondotta all’essenza stessa della ragione dominante. "Gli Elementi si ricollegano strettamente a ricerche empiriche dell’Institut für Sozialforschung, la fondazione creata e mantenuta in vita da Felix Weil, e senza la quale non solo i nostri studi, ma buona parte del lavoro teorico continuato, nonostante Hitler, da tedeschi emigrati, non sarebbe stato possibile". Appunti e schizzi . L’ultima sezione è dedicata a schizzi, appunti, ecc., che hanno come quadro di riferimento una sorta di antropologia dialettica . Concetto di Illuminismo L’Illuminismo viene inteso da Adorno e Horkheimer come "pensiero in continuo progresso", come razionalità propria dell’uomo capace di progredire e di far progredire la realtà. La storia di questo progresso abbraccia un lungo percorso, idealmente ricostruito dai due autori, che va dall’uscita del genere umano dallo stato di soggezione magica alla natura, fino allo sviluppo, in età moderna, della società industriale. L’Illuminismo, così inteso, è il rapporto che l’uomo instaura con la natura; un rapporto di dominio, nel quale o l’uno o l’altra debbono soccombere. E’ un processo di emancipazione dell’uomo dalla natura, nel quale egli si libera rendendo sottomessa l’altra. Il modo in cui si realizza la libertà dell’uomo (ossia il dominio sulla natura) è rappresentato dallo sviluppo della scienza, ma, prima di tutto, dalla critica e dall’abbandono del mito da parte della civiltà occidentale. Nella storia del pensiero filosofico è Bacone l’esempio a cui i due autori fanno fin da subito riferimento. L’Illuminismo o "rischiaramento" [Aufklärung] è la critica rivolta dalla ragione alla fede, alla superstizione, proprio così come Hegel ce l’ha presentata nella sua “Fenomenologia dello Spirito” descrivendoci la lotta dei ‘lumi’, nel diciottesimo secolo, contro l’irrazionalità della credenza ingenua e incolta. Horkheimer e Adorno, per Illuminismo, intendono certamente quello a cui Hegel fa riferimento, ma lo estendono nella storia dai primordi fino all’età contemporanea e ne dilatano il senso filosofico definendolo come l’inarrestabile "movimento stesso del pensiero". L’Illuminismo contemporaneo si identifica, secondo gli autori, con la società stessa in cui viviamo. E’ la definitiva presa di possesso da parte dell’uomo del suo mondo naturale e umano. Una presa di possesso che però, a ben vedere, non realizza quella ragione da cui pure proviene; è un rischiaramento mancato quello a cui stiamo assistendo da millenni. Una lotta che certamente ha opposto il pensiero razionale a miti, illusioni, false credenze, idoli, feticci, ecc., ma che dialetticamente si è rovesciata nel suo opposto; la lotta intrapresa dall’Illuminismo ha inconsapevolmente restaurato, sotto altra forma, quella mancanza di razionalità contro cui si era rivolta. I nodi teoretici, intorno a cui ruota tutta l’argomentazione di questo primo capitolo della Dialettica dell'Iluminismo , possono essere racchiusi in queste nozioni fondamentali, più volte e in vario modo ripetute dagli autori: l’Illuminismo come sviluppo del pensiero razionale; l’Illuminismo come lotta contro il mito, la fede, la superstizione; come progressivo dominio dell’uomo sulla natura; come razionalizzazione della realtà in generale; come dialettica. Quest’ultima nozione è quella che ribalta e contraddice la positività e l’ottimismo su cui l’Illuminismo sembra reggersi, ovvero la certezza da parte della ragione illuministica di realizzare pienamente se stessa. Quest’ultima nozione è il centro stesso dell’argomentazione che Horkheimer e Adorno rivolgono contro la presunta linearità del progresso illuministico-occidentale . Argomentazioni 1. L’Illuminismo ha come scopo fondamentale quello di rendere gli uomini padroni di sé e della natura, togliendo loro la paura dell’ignoto, dell’irrazionale, riscattandoli dall’inconsapevolezza, dall’incapacità di dominare col pensiero la realtà. "Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura." Cioè all’insegna della sventura di essere caduta sotto una forma di pensiero che la rende cieca, inconsapevole, dominata dall’irrazionale, ecc. Vediamo perché. Gli autori prendono Bacone come primo esempio di questo ‘rovesciamento’ a cui è destinato l’Illuminismo, il pensiero filosofico moderno-occidentale. E’ un rovesciamento dialettico, nella misura in cui l’altro, l’opposto contro cui il progresso del pensiero si rivolge (il mito, l’irrazionalità, gli idoli, ecc.) diventa invece un termine posto (affermato) inconsapevolmente dallo stesso pensiero razionale. Ciò da cui l’Illuminismo prende consapevolmente le distanze, diventa ciò in cui viene inconsapevolmente ad identificarsi. La sventura illuministica però, proprio per questo suo carattere dialettico e autodistruttivo, può riscattarsi attraverso un’impietosa autocritica, prendendo finalmente consapevolezza di sé. L’interpretazione che i due autori danno di Bacone è, in sintesi, la seguente: se il linguaggio filosofico-scientifico di quest’ultimo non arriva certo ad usare la matematica, che con Galilei diventerà il linguaggio scientifico per eccellenza, il suo metodo sperimentale però coglie esattamente "l’animus della scienza successiva". Bacone, in altri termini, pensa a un’identificazione piena fra intelletto umano e natura delle cose; li pone come differenti, per poi attribuire al sapere dell’intelletto la capacità di sottomettere a sé la natura. Il "potere" che l’intelletto ha nei confronti delle cose e dei "segreti" della natura è tale per cui riesce, nella visione baconiana, a distruggere non solo quei ‘fantasmi’ (gli idola) da cui la mente (del singolo uomo e del genere umano) è tradizionalmente affetta, ma compie una sorta di ‘epurazione’ di sé dalla tendenza alla magia e all’occultismo, che alla fine del ‘500 era fortemente presente in Europa . D’altra parte Bacone è il primo consapevole esponente del ‘sapere’ come ‘potere’; di quel potere che l’economia borghese stava, nell’Inghilterra del ‘600, mettendo in atto proprio a scapito della libertà della ricerca teorica; libera da fini pratici, materiali, utili alla società. "Ciò che gli uomini [baconianamente] vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini." Dunque, secondo Adorno e Horkheimer, l’emancipazione del pensiero dalla magia, dalla superstizione, dagli idoli della metafisica, ecc., tende in realtà - stando ai risultati storico-filosofici cui è giunta la scienza moderna - a instaurare, nella società, un "dominio" altrettanto opprimente, per la coscienza e la natura umana, di quello costituito dalla mancanza di pensiero razionale. Il pensiero scientifico, da Bacone in poi, si caratterizza per la sua totale mancanza di emancipazione dalla struttura sociale cui fa riferimento, e precisamente da quella borghese: "esso non tende […] a concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro, al capitale privato o statale". Il significato profondo e qualitativo delle cose cui dovrebbe tendere la scienza, viene sostituito dalla ricerca asettica, quantitativa della correttezza formale del procedimento; l’essenza di questo sapere si riduce a tecnica, a operation, procedimento efficace volto a conservare il dominio dell’economia borghese sulla coscienza, il dominio dell’uomo sulla natura. In questo quadro si distinguono anche i compiti propri della scienza da quelli della ricerca filosofica della verità, la quale diventa a sua volta un ostacolo per il moderno pensiero scientifico. La filosofia continua a sopravvivere, dicono gli autori, come idola theatri, come spettro metafisico, considerato dal pensiero scientifico né più né meno che una moderna mitologia. Il ‘lume’ della ragione, nella società borghese, perde totalmente la sua ‘autonomia’ dalle cose. Vediamo in che senso. Se la razionalità illuministica crede di liberarsi dal legame di sudditanza nei confronti della realtà, rendendola quantificabile e scientificamente dominabile, in verità, dicono gli autori, tanto più la conoscenza scientifica viene asservita alla struttura economica e sociale della borghesia, che si caratterizza, marxianamente, come condizione di essenziale alienazione dell’uomo da sé e dalla natura. Il dominio sulla natura da parte dell’uomo si rivela come domino dell’uomo sull’uomo, e più in generale come dominio della struttura sociale sulla coscienza: "Non c’è altro che tenga. Privo di riguardi verso se stesso, l’Illuminismo ha bruciato anche l’ultimo resto della propria autocoscienza." Il rapporto scientifico di dominio dell’uomo sulla natura si rovescia in rapporto di dominio della società su quella forza del pensiero (l’Illuminismo stesso) che avrebbe dovuto emancipare l’uomo dall’inconsapevolezza, dalla mancanza di autonomia dalla natura, ecc.; la società borghese, il capitale, il lavoro sono il fine di quell’emancipazione umana, che non trova perciò in se stessa la sua ragion d’essere. Il rovesciamento del dominio dell’uomo sulla natura in dominio della società sull’uomo può essere presentato a partire da due punti di vista: da un lato attraverso un’analisi prettamente sociale (come alienazione, reificazione, mercificazione); dall’altro mostrando come l’Illuminismo contenga in se stesso, nella sua essenza, il suo destino, quindi come la ragione illuministica sia per definizione votata al suo ribaltamento 2. La critica dell’Illuminismo al mito e al mondo magico parte dal presupposto che si debba eliminare il rapporto paritario che l’antropomorfismo mitico e l’animismo magico instaurano fra l’uomo e la natura divinizzata. Il primo fu Senofane a criticare "gli dèi molteplici che somigliano ai loro creatori, gli uomini", ma già le cosmologie presocratiche segnano, secondo Horkheimer e Adorno, un distacco fra la visione mitica del rapporto uomo-natura e la visione illuministica tesa al dominio dell’uno sull’altra. "Come le immagini della generazione dalla terra e dal fiume, giunte ai Greci dal Nilo, diventarono qui principi ilozoistici, elementi, così l’inesauribile ambiguità dei demoni mitici si spiritualizzò nella forma pura delle essenze ontologiche". La genesi dell’Illuminismo, a ben vedere, affonda le sue radici proprio in ciò che intende criticare; in quella mitologia da cui, quasi spontaneamente, si genera il logos filosofico, la razionalizzazione dell’antropomorfismo mitico e la riduzione a elemento materiale dei principi naturali personificati o divinizzati. L’Illuminismo però, non pago della nascita dei concetti filosofici di ‘spirito’ e ‘materia’ - l’uno dalla mitologia, l’altro dalla cosmologia - si scaglia (in età moderna) anche contro le idee di Platone, la metafisica di Aristotele, la verità gli universali, l’ontologia, ecc. "Nell’autorità dei concetti generali esso crede ancora di scorgere la paura dei demoni […]. D’ora in poi la materia dev’essere dominata al di fuori di ogni illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti, di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’Illuminismo, sospetto" . Adorno e Horkheimer individuano, a questo proposito, una precisa dialettica Illuminismo-mito che riferiscono sostanzialmente all’esposizione fenomenologica hegeliana dell’Aufklärung . La lotta dell’Illuminismo contro il mito non è, come si è visto, un’opposizione fra due termini assolutamente eterogenei; vi è una genesi storico-ideale della filosofia, del pensiero razionale (logos) e quindi dello stesso Illuminismo (inteso come ragione, pensiero in continuo progresso) che procede dal mito, quindi proprio dall’attribuzione indebita di caratteri divini all’uomo e alla natura o, il che è lo stesso, di caratteri umani al dio. La nascita della filosofia, in questi termini, fa nascere lo stesso atteggiamento illuministico della ragione, la quale ha buon gioco a criticare quelli che considera residui mitici (idealismo, metafisica, ontologia, ecc.), con l’intento di eliminarli del tutto. Anche le idee di Platone vengono tacciate di irrazionalismo, nella misura in cui non si attengono ai cosiddetti ‘dati di fatto’, neutralmente e lucidamente considerati da una ragione che non intende lasciare nulla, tra quello che cade sotto la sua considerazione, di inspiegato e non razionalizzato. Da parte sua, il mito-filosofia, nel momento stesso in cui prova a difendere la sua ragion d’essere, conferma la necessità di scendere a patti con l’Illuminismo e il suo modo di usare analiticamente la ragione. "L’Illuminismo è totalitario", ingloba in sé anche il suo opposto. La lotta dell’Illuminismo contro l’antropomorfismo e contro la proiezione del soggettivo nella natura si concretizza da una parte nella fissazione dell’uomo come principio assoluto e dominatore del mondo naturale, dall’altra nella costruzione di un sistema teorico chiuso (razionalista o empirista che sia) nel quale sia tutto calcolabile e al quale tutto sia riducibile. La demitizzazione completa dell’universo arriva al suo apice, dicono gli autori, solo quando "il numero divenne il canone dell’Illuminismo." La stessa società borghese sembra proprio reggersi sull’equivalente scambio di merci, che annulla ogni differenza qualitativa, riducendo a unità-quantità tutto ciò che le si presenta sotto mano. "L’essere si scinde d’ora in poi nel logos - che si riduce col progresso della filosofia, alla monade, al mero punto di riferimento -, e nella massa di tutte le cose e creature esterne. […] Senza riguardo alle differenze, il mondo viene sottomesso all’uomo" [corsivi nostri]. Questo doppio binario (numero e uomo, essere a-qualitativo e logos illuministico, massa di tutte le cose e dominio umano) sul quale l’Illuminismo, a detta degli autori, sembra viaggiare, approda alla costituzione del Sé, cioè alla identità della coscienza, della cultura e della ideologia della civiltà occidentale . Potrebbe non risultare chiaro al lettore il rapporto strettamente teoretico fra mito e Illuminismo, perché da un lato essi paiono allontanarsi in quanto il primo vive dell’identificazione uomo-natura e il secondo della loro separazione; allo stesso tempo però si afferma che entrambi perseguono il dominio sulla natura, anche se attraverso forme diverse; poi si dice che l’Illuminismo deriva direttamente dalla razionalizzazione del mito operata dalla filosofia (e quindi in questa ipotesi il mito è irrazionale), ma insieme che già il mito è Illuminismo in quanto spiegazione in termini razionali della realtà. Allora, ci si potrebbe chiedere, il mito è ‘già’ o ‘non ancora’ Illuminismo? La risposta, seguendo gli autori, è che il mito è al contempo ‘già’ e ‘non ancora’ Illuminismo. Il problema è dato dal fatto che Adorno e Horkheimer istituiscono questa dialettica ‘aporetica’ mito-Illuminismo/Illuminismo-mito; dunque, dicono, se la moderna razionalità intende separali, in realtà, non sa che essi sono ‘da sempre’ uniti, sebbene la loro unione sia profondamente contraddittoria. Ma è proprio questa contraddizione a costituire l’essenza della nostra moderna e borghese civiltà. Il problema che loro pongono è anche teorico, ma soprattutto etico. L’uomo (come genere e come civiltà occidentale) si è invischiato, in età moderna, in una difficoltà reale della quale, in tempi mitici, non era appieno consapevole (gli mancava la piena consapevolezza del ‘lume’ della ragione). Il trionfo dell’Illuminismo porta alle estreme conseguenze il contraddittorio rapporto dell’uomo con se stesso e con la natura. Gli dà una spiegazione scientifica, apparentemente emancipata dal mito, ma questa spiegazione non elimina, secondo gli autori, la contraddizione reale, la quale resta e anzi si fa più pesante in una condizione in cui, la ragione potrebbe (ma non lo fa), recuperare quel nesso originario che il mito ‘sembrava’ istituire fra il genere umano e la natura. Horkheimer e Adorno non forniscono soluzioni: vogliono al contrario che ad andare a fondo sia proprio ogni pretesa di ‘soluzione’. La ‘dialettica’ dell’Illuminismo (cioè a dire che anche l’Illuminismo ha una sua dialettica, può avere forti capacità critiche nei confronti di una realtà irrazionale, etc.) sta a significare che la ‘contraddizione reale’ va necessariamente esplicitata, in tutta la sua paradossalità, anche quando risulti insostenibile e fastidiosa a una ragione che desidera a tutti i costi ‘far quadrare i conti’. Ma, se i conti non quadrano, va detto ed evidenziato, senz’altro. Dunque si potrebbe dire che il rapporto mito-Illuminismo e Illuminismo-mito (l’uno rimanda a l’altro e viceversa) è rapporto dialettico nella misura in cui il mito è già il tentativo dell’uomo di venire a patti con le forze naturali, certo da una posizione ancora di ‘inferiorità’ e non pienamente razionale. L’Illuminismo perciò, criticando il mito, non fa altro che realizzarlo, completarlo, superarlo (nel senso hegeliano dell’aufheben). Ma questo superamento, la ‘falsa coscienza’ dell’Illuminismo lo presenta come annientamento del mito in quanto tale. L’Illuminismo assolutizza se stesso e così facendo si ripropone in veste ‘mitica’, non criticabile, non superabile a sua volta, come esso ha voluto invece fare con il mito. Questa assolutizzazione della ragione, in età moderna, è la "colpa" che Horkheimer e Adorno attribuiscono alla logica occidentale, alla scienza, al progresso, ecc. E’ un’assolutizzazione che passa sopra a tutto e fa terra bruciata; passa sopra la natura, ma - non si dimentichi il nazismo - anche sopra all’uomo. 3. Vediamo allora come Horkheimer e Adorno ci presentano questo cammino dell’Illuminismo verso la nascita della soggettività moderna-contemporanea. "L’emergere del soggetto [distinto dalla natura-oggetto] è pagato col riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti. […] La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando. Il mito trapassa nell’Illuminismo e la natura in pura oggettività. Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano." Il progresso del pensiero è in realtà un regresso sociale e umano. La presa di consapevolezza da parte del soggetto (del singolo uomo e del genere umano) di essere capace di dominare razionalmente la realtà e soprattutto la natura (con la scienza), paga uno scotto senza precedenti, che nell’età moderna si concretizza non solo nel dominio dell’uomo sull’uomo, ma nel dominio delle cose (merci, lavoro, capitale) sugli uomini. Il rapporto mitico uomo-natura, nel quale l’uno e l’altra erano in simbiosi, viene sostituito da un rapporto di estraniazione dell’uomo dal mondo naturale. L’estraniazione segna negativamente quell’apparente positività con la quale l’Illuminismo crede di appropriarsi delle cose. Il possesso, il dominio, il comando, il potere esercitato dalla ragione sulle cose è in realtà un allontanamento, un distacco e, nella società borghese contemporanea, un rovesciamento del dominio: l’uomo socializzato controlla la natura, ma a sua volta è controllato dalla struttura economica della società. La consapevolezza con la quale egli diventa il soggetto assoluto del rapporto uomo-natura, viene annullata nell’inconsapevolezza con la quale è assoggettato al potere economico borghese. "Perché le pratiche localizzate dello stregone cedessero il posto alla tecnica industriale universalmente applicabile, era prima necessario che i pensieri si rendessero indipendenti dagli oggetti, come avviene nell’Io conforme alla realtà." La nascita della società borghese, della scienza tecnologicamente applicata, del soggetto dominatore, sono tutti momenti che si costituiscono a partire dall’abbandono del rapporto ‘intersoggettivo’ uomo-natura. Ma - si chiedono gli autori - come è potuto accadere ciò? "Come totalità linguisticamente sviluppata, che mette in ombra, con la sua pretesa di verità, la fede mitica più antica, le religioni popolari, il mito solare, patriarcale, è già Illuminismo, con cui l’Illuminismo filosofico può misurarsi sullo stesso piano. […] La mitologia stessa ha avviato il processo senza fine dell’Illuminismo (…)" [corsivo nostro]. Allora possiamo vedere la precisa dialettica che viene fin da subito instaurata fra mito e Illuminismo nello stesso momento in cui il mito (vissuto e sentito nel mondo magico, pre-filosofico) diventa precisamente ‘mitologia’, cioè discorso, ragionamento, pensiero sul mito. La critica mossa dall’Illuminismo alla mitologia, non solo la obbliga a difendersi, scendendo sul piano logico, il piano dell’Illuminismo ( il riferimento è a Hegel e alla lotta dell’Illuminismo contro la fede che, per difendersi dalla critica deve ‘discutere’, articolare il linguaggio, fare del logos e cioè scendere sul piano logico-razionale a lei estraneo; allo stesso modo succede anche al mito criticato dall’Illuminismo), ma la riconosce in quanto discorso (logos) sul mito; in questo senso il mito è già Illuminismo, dal mito prende le mosse l’Illuminismo. Gli autori tendono a distinguere ‘mito’ da ‘mitologia’ (e lo si vedrà meglio più avanti): il mito in quanto tale è il rapporto originario uomo-natura, la mitologia invece è già sistemazione logica, pensata, articolata, di quel rapporto. L’originario rapporto di parità uomo-natura(divinizzata), nella mitologia, nell’ordinamento del mito e della tradizione mitica, è già andato perduto. Il soggetto teoretico, il filosofo, il logos e quindi il germe dell’Illuminismo ha già preso piede, iniziando un inarrestabile cammino che porterà l’umanità alla società moderna-contemporanea, all’estraniazione totale dell’uomo dalla natura pur da esso dominata. Il Sé a cui è pervenuta la civiltà europea, dicono gli autori, è in realtà schiacciato e non emancipato dall’irrazionalità, in una società che si presenta fondata sul rapporto di dominio del collettivo sull’individuale, della quantità indifferente sulle differenze qualitative, della giustizia livellatrice sulla libertà personale, ecc. "L’uomo si illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di ignoto. Ciò determina il corso della demitizzazione dell’Illuminismo […]." Ma la paura in realtà resta, nella misura in cui l’ignoto diventa per eccellenza il tabù della scienza positivistica (ultimo prodotto dell’Illuminismo). Non c’è un rapporto di inclusione fra la ragione e ciò che ragione non è, c’è al contrario un rapporto di esclusione messo in atto dalla ragione stessa, la quale così facendo espelle da sé il mito (il mana, come lo chiamano gli autori), riproponendolo come ciò che rimane fuori, ma che pur sempre rimane. Da una parte la civiltà occidentale si libera di ciò che non è conforme alla ragione, domina la natura, l’ignoto, ecc.; dall’altra però non elimina la paura stessa dell’ignoto, lasciandolo fuori della sua organizzazione sociale e scientifica, la quale viene a poggiare su criteri di ‘uguaglianza’, omologazione e dominio che, al dunque, annullano ogni libertà essenziale dell’individuo. 4. L’Illuminismo investe anche il campo dei rapporti fra le scienze e più precisamente fra la scienza e l’arte, fra il segno e l’immagine; oltre che il più complesso rapporto fra linguaggio e realtà. Viene inoltre tematizzato il rapporto fra Illuminismo e dialettica, intesa quest’ultima come capacità critica della ragione di negare l’esistente evitando accuratamente di assolutizzarlo. Ma vediamo meglio. La rottura dell’originario mana (unità di uomo e natura) fa sì che si distinguano anche, secondo Horkheimer e Adorno, il linguaggio (la parola come segno) dall’immagine (parola come imitazione della natura). "Come segno, la parola passa alla scienza; come suono, come immagine, come parola vera e propria, viene ripartita fra le varie arti […]. La separazione di segno e immagine è inevitabile." In questa sorta di divisione del lavoro teorico fra scienza e arte, per cui l’una conosce la natura senza somigliarle, l’altra si limita ad essere solo copia della natura, il neopositivismo, la scienza contemporanea, abdica totalmente alla tensione conoscitiva e si riduce a "gioco" matematico, chiuso in se stesso, con le sue regole automatiche, le quali non sono riferite direttamente alla realtà, tanto meno al pensiero inteso classicamente: "L’Illuminismo ha accantonato l’esigenza classica di pensare il pensiero - di cui la filosofia di Fichte è lo svolgimento radicale […]." Questa divisione del lavoro serve, dicono gli autori, all’autoconservazione del dominio sociale, nella misura in cui non solo elimina la possibilità della critica (il pensiero a stretto rigore non pensa, il linguaggio scientifico è un segno separato dalla realtà, l’arte è copia acritica della natura), ma preclude ogni possibilità all’uomo di conoscere. "Il pensiero si reifica in un processo automatico che si svolge per conto proprio, gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente sostituire." L’apparato teorico così costituito (il positivismo scientifico) rende asservito il pensiero a meccanismi ad esso estranei; nei quali non solo il pensiero stenta a riconoscersi ma sui quali non esercita alcun potere. Questo è l’aspetto più contraddittorio e autodistruttivo dell’Illuminismo che, invece di realizzare il sapere, lo distrugge trasformandolo in mero calcolo utilitaristico, in formalismo logico, in un ambito separato dalla realtà, dalla natura, dall’essere delle cose. Il soggetto conoscente è incapace di conoscere; la realtà impenetrabile si riproduce meccanicamente secondo criteri e metodi alieni alla ragione. Se il ‘lume’ della ragione si presenta come progresso conoscitivo, in realtà sottomette il pensiero a regole estranee e opprimenti. "Non c’è essere al mondo che la scienza non possa penetrare, ma ciò che può essere penetrato dalla scienza non è l’essere" . Di fronte a questa estraneità del pensiero alla realtà, giace la realtà stessa, la quale viene risparmiata dalla critica: essa viene in fondo riprodotta e giustificata così come è. E’ una realtà ingiusta e brutale quella a cui stiamo assistendo, dicono gli autori, tale che richiederebbe un’impietosa critica. La negazione dialettica (o negazione determinata) del reale è ciò che solamente può scardinare la durezza impenetrabile della realtà. "Nel concetto di negazione determinata, Hegel ha indicato un elemento che distingue l’Illuminismo dalla corruzione positivistica a cui egli lo assegna. Ma finendo egli per elevare ad assoluto il risultato consaputo dell’intero processo della negazione: la totalità sistematica e storica, contravvenne al divieto e cadde a sua volta nella mitologia." Vediamo allora a cosa esattamente si riferiscono i due autori. Il procedimento dialettico hegeliano, secondo Horkheimer e Adorno, riesce bene a utilizzare il carattere fondamentale del pensiero illuministico, cioè quello di negare, per superare e togliere, gli aspetti contraddittori e irrazionali del reale. Ma ricadendo nell’esigenza di affermare comunque la razionalità, di affermarla nonostante l’irrazionalità di una realtà poco prima negata, cede al carattere paradossale dell’Illuminismo: la critica dell’Illuminismo al mito (come l’esempio classico e originario di irrazionalità nella storia del pensiero occidentale) ristabilisce il mito stesso. Il mito di una realtà pienamente razionale. Gli autori utilizzano qui il termine ‘mito’ in un’accezione differente rispetto a quella usata finora. Il mito antico era l’immediata interpretazione umana della natura, superata la quale, da parte dell’Illuminismo, si instaura il ‘mito’ di una realtà pienamente razionale. Chiaramente il primo ‘mito’ è differente dal secondo, ma, nella sostanza, quello che vogliono sottolineare i due autori è che così come il mito originario si presentava resistente ad ogni intervento critico della ragione, anche il mito moderno (la ragione assolutizzata e incontestabile) si presenta impermeabile alla possibilità di essere a sua volta sottoposto a critica. 5. L’ultima argomentazione presentata dai due autori riguarda la formazione e l’autoconservazione del soggetto borghese (del Sé ideologico ma anche della struttura di potere vigente nella società contemporanea). Viene descritta un’allegoria particolarmente suggestiva fra il racconto omerico del dodicesimo canto dell’Odissea (il passaggio di Odisseo davanti alla Sirene) e la nascita della civiltà occidentale, che nella modernità culmina con l’instaurarsi di un controllo e dominio assoluto dell’uomo sulla natura e su una parte del genere umano. Odisseo rappresenta l’umanità che "ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo […]." Il canto delle Sirene cui Odisseo (l’io occidentale-borghese) deve resistere rappresenta il "passato; quel passato in cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura, o meglio in cui non distingueva Sé dagli oggetti naturali. Lo sforzo di Odisseo di resistere al richiamo della natura-vita, rappresentata da quel canto, è necessario per conservare l’integrità dell’individualità personale dell’uomo borghese, ma soprattutto per mantenere quei rapporti di dominio dell’uomo sull’uomo, ben rappresentati, secondo gli autori, dal mito omerico. Sulla nave di Odisseo i suoi compagni hanno le orecchie tappate con la cera; il loro unico compito è quello di remare. "E’ ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato. […] Essi diventano pratici. […] Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé […] ode, ma impotente, legato all’albero della nave […]. I compagni […] riproducono, con la propria vita, la vita dell’oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo sociale". L’analogia istituita da Horkheimer e Adorno fra il mito omerico e la struttura della società borghese è tale per cui la soggettività di chi domina (il proprietario della terra, dei mezzi di produzione), sebbene consapevole di rivestire un ruolo sociale che lo obbliga ad avere un rapporto di dolore ed estraniato con la natura (le Sirene), sa altresì di non poterne fare più a meno, pena la mancata autoconservazione di sé e della sua proprietà (fuori dei rapporti borghesi di produzione non è consentito sopravvivere). D’altra parte il lavoratori (compagni di Odisseo) mancano forzatamente di consapevolezza e coscienza sociale (hanno le orecchie tappate); la loro unica occupazione è materiale, volta alla riproduzione di sé e del padrone stesso. Essi sono quella parte del genere umano asservita (inconsapevolmente) al dominio borghese. Questo quadro assolutamente desolante e fortemente critico, viene però, secondo Horkheimer e Adorno, riscattato nella misura in cui la stessa ideologia borghese (l’Illuminismo della società contemporanea) rivela la sua interna paradossalità e inconsistenza teorica. "Misure come quelle prese sulla nave di Odisseo al passaggio davanti alle Sirene sono l’allegoria presaga della dialettica dell’Illuminismo". Ciò che sembrava la realizzazione della libertà, dell’emancipazione dell’uomo (come singolo e come genere), il trionfo della ragione, si presenta al dunque come la realizzazione più cruda e irrazionale di un’oppressione e coercizione dell’uomo su se stesso oltre che sulla natura. Il mito poi (in questo caso quello di Odisseo) è ciò che, paradossalmente, rappresenta meglio la logica interna dell’Illuminismo; di quel pensiero razionale che intendeva invece dal mito liberarsi definitivamente. Excursus I. Odisseo, o Mito e Illuminismo 1- La dialettica dell’Illuminismo è testimoniata esemplarmente dall’Odissea nel suo complesso. Il nucleo originale è mitico, ma, organizzato dallo spirito omerico, si distacca da quella tradizione popolare da cui pure proviene. C’è una contraddizione, secondo gli autori, fra ‘mito’ e organizzazione mitologica nell’epos, cioè fra mito tramandato oralmente e mito raccontato, scritto, rielaborato razionalmente: "[…] cantare l’ira di Achille e le peripezie di Odisseo è già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può più cantare, e il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo borghese […]." Come sappiamo, c’è un rapporto dialettico fra mito e Illuminismo: da una parte la ragione organizzatrice (rappresentata in questo caso dalla mano di Omero) mette a punto una ricostruzione scritta del mito che emancipa l’uomo (la civiltà occidentale) dalla "preistoria", dall’assenza di un rapporto razionale fra uomo e natura; d’altra parte però l’inizio dell’Illuminismo risale proprio alla tradizione mitica più remota. Il passaggio dal ‘mito’ all’approccio illuministico segna anche un passaggio a forme di ‘dominio’ dell’uomo sulla natura che - come ha ben compreso Nietzsche - si presentano fortemente ambivalenti: è il progresso umano e civile dell’uomo che distrugge la vitalità del suo rapporto con le forze naturali. E’ un progresso distruttivo quello a cui l’Illuminismo conduce. Non c’è opera che testimoni in modo più eloquente dell’intreccio di mito e Illuminismo di quella omerica, testo originale della civiltà europea." Secondo Horkheimer e Adorno, l’itinerario di Odisseo è lo stesso itinerario del soggetto (del Sé) moderno-borghese, il quale, prima di prendere coscienza della sua razionalità, deve emanciparsi faticosamente da uno stadio di civiltà ancora legato a culti, forme di dominio e di vita mitiche. L’emancipazione dal mito, tuttavia, non annulla il mito in quanto tale, che anzi, proprio nell’Odissea, diventa metafora della struttura borghese della società e dell’individuo come tale. 2- L’astuzia di Odisseo rappresenta il ‘lume’ della ragione, contrapposto a una brutalità tutta naturale e mitica, comunque originaria, nella quale l’uomo si trova a dover combattere con forze ed istinti caratterizzati negativamente nell’epos omerico (Polifemo, la maga Circe, le Sirene, etc.). "L’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi, è l’astuzia." L’astuzia di Odisseo rappresenta un ‘ordine’ (la patria, la famiglia a cui l’eroe tenta di ritornare attraverso il suo lungo viaggio); quell’ordine borghese che permette la riproduzione e l’autoconservazione dell’uomo entro schemi e rapporti da lui dominati e regolati. "Ecco il segreto del processo tra epos e mito: il Sé non costituisce la rigida antitesi all’avventura, ma si costituisce, nella sua rigidezza, solo in questa antitesi, unità solo nella molteplicità di ciò che quell’unità nega." Il distacco dal mito, che nell’epos omerico viene descritto, porta l’uomo a irrigidirsi. Assistiamo, in altri termini, a una sorta di razionalizzazione (come irrigidimento) della vita e della coscienza umana, che si presenta come una conquista di civiltà, raggiunta attraverso un’avventura epico-mitica. Una conquista descritta mitologicamente e che al contempo emancipa (o crede di emancipare) definitivamente l’uomo dal mito. L’irrigidimento costitutivo del Sé (della coscienza umana moderno-borghese) sta proprio nella contraddittoria convinzione di essersi per sempre liberato del mito e nel credere che questa liberazione sia anche la realizzazione stessa del progresso. L’astuzia di Odisseo si manifesta anche come superamento del "sacrificio" (sacrificio dell’uomo al dio) e come consapevolezza da parte dell’eroe nell’usare il linguaggio. Ma vediamo in che senso. Notano gli autori che nell’epos omerico non vi sono descritti veri e propri sacrifici umani; vi è piuttosto la presa di coscienza, da parte di Odisseo, dell’inganno che il sacrificio in quanto tale rappresenta. Rendere, da parte dell’uomo, un sacrificio al dio vuol dire non solo ingraziarselo (e attraverso di lui ingraziarsi la natura), ma in qualche modo dominarlo, comunque controllarlo, sebbene da una posizione di inferiorità, e limitarne il potere. Ma l’uomo, in cuor suo, dicono Horkheimer e Adorno, non può non sapere che la divinità a cui ci si sacrifica in realtà viene in questo modo a far parte di uno scambio tutto umano, il cui valore ultimo certo non va al dio. "Se lo scambio è la secolarizzazione del sacrificio, il sacrificio stesso appare già come il modello magico dello scambio razionale, un espediente degli uomini per dominare gli dèi, che vengono rovesciati proprio dal sistema degli onori che loro si rendono." Che cosa fa allora Odisseo di diverso dal sacrificio-scambio? Che cosa aggiunge a questa forma magico-mitica di inganno reso agli dèi? La vicenda a cui gli autori si riferiscono è quella descritta nell’Odissea a proposito del ‘falso’ sacrificio reso a Posidone; mentre il dio viene accontentato da ingenti sacrifici nella terra degli Etiopi, Odisseo può fuggire indisturbato e mettersi in salvo. L’uso ‘astuto’ e indiretto del sacrificio lo trasfigura e ne rovescia il senso originario; porta alla coscienza dell’uomo la possibilità di falsificare e dissimulare il rapporto con gli dèi, esclusivamente per il suo vantaggio personale. "Ma inganno, astuzia e razionalità non sono semplicemente opposti all’arcaismo del sacrificio. Odisseo non fa che elevare ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che è forse la ragione più intima del carattere illusorio del mito." Ecco allora che questa presa di coscienza è un passo oltre la magia del sacrificio, il quale, in questo modo, viene realizzato dall’uomo come consapevole inganno, come scambio moderno-borghese ante litteram, come dominio cosciente sulla natura divinizzata, come rovesciamento infine del rapporto di dominio del dio sull’uomo. Questo stacco illuministico dal mito è rappresentato bene anche dal modo in cui Odisseo usa il linguaggio e precisamente il suo nome. Udeis in greco vuol dire nessuno; con questo significato del proprio nome Odisseo si presentò a Polifemo il quale, reso cieco dall’eroe, pur chiedendo aiuto ai Ciclopi venne frainteso quando questi gli chiesero chi l’avesse ridotto a quel modo: "Nessuno!" rispose. "Nasce così la coscienza del significato: nelle sue angustie Odisseo si accorge del dualismo, in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse." Secondo gli autori, questa ulteriore presa di coscienza, da parte dell’eroe mitico, lo solleva dall’immediatezza del rapporto con le cose, con gli oggetti e la natura. L’immediatezza con cui le parole vengono attribuite alla realtà viene definitivamente rotta e mediata, da quel momento in poi, dal pensiero. La coscienza di Odisseo comincia appositamente a separare le parole dalle cose, a rendere problematico il riconoscimento dell’uomo nel proprio nome. Assistiamo, dicono gli autori, a un duplice sdoppiamento; da una parte il linguaggio si separa dalla cosa designata, potendo di per sé assumere significati anche opposti, che indicano opposte realtà, dall’altra è l’uomo stesso a sdoppiarsi nel proprio nome, ingannando la realtà al fine di autoconservarsi come individuo dotato di ragione e capace di dominare astutamente le circostanze esterne. Dall’astuzia di Odisseo "[…] emerge il nominalismo, il prototipo del pensiero borghese. L’astuzia dell’autoconservazione vive di questo processo in atto fra parola e cosa.[…] L’astuto pellegrino è già l’homo oeconomicus a cui somigliano tutti gli uomini dotati di ragione." Excursus II. Juliette, Illuminismo e morale 1. Kant e la ragione strumentale: "L’Illuminismo è, per dirla con Kant, "l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro"". Secondo gli autori, Kant ha avuto il merito di cogliere il senso più profondo dell’Illuminismo, inteso come processo di conoscenza sistematica e scienza tout court; ha presentato però la ragione scientifica come uno "strumento" e cioè come un mezzo di conoscenza non dotato a sua volta di autocoscienza. Insomma, per dirla con Hegel, ciò che manca alla teoria della conoscenza di Kant è la capacità della ragione soggettiva di conoscere l’essenza delle cose e di riconoscerla come la propria essenza. Permane una distanza tra il soggetto e la realtà, non colmata dalla scienza, sebbene questa si presenti come l’unico modo di sistemare la verità delle cose. Certamente l’Illuminismo kantiano ha conquistato al soggetto la ‘libertà’ di agire indipendentemente da autorità esterne ed estranee alla sua logica, ma non ha risolto, in sede teorica e pratico-morale, la possibilità che quella libertà conquistata venga contraddetta e negata. "Alla base dell’ottimismo kantiano per cui l’agire morale sarebbe razionale anche là dove quello immorale ha buone probabilità di successo, è l’orrore di fronte al pericolo di una ricaduta nella barbarie." Dunque, la possibilità che il percorso ‘lineare’ del progresso scientifico e morale dell’uomo moderno venga contraddetto, arrestato e al limite anche rovesciato, si dà nonostante quell’ottimismo kantiano-illuministico, che si rivela in realtà, secondo gli autori, come paura malcelata dell’irrompere nella ‘civiltà’ di elementi irrazionali. L’Illuminismo tende ad autoconservarsi come dominio borghese dell’uomo sulla natura; nel corso di questo assoggettamento dell’una all’altro intervengono distorsioni, contraddizioni reali, regressioni che coinvolgono la stessa scienza. Nella sua Critica della ragion pura, dicono gli autori, Kant ne ha dato conto; è l’Illuminismo ‘ideologico’ (cioè quello collegato direttamente al potere e alla struttura economico-borghese) che cela queste difficoltà "dietro l’apparente chiarezza dei suoi giudizi." Dunque, il merito di Kant starebbe proprio nel suo tentativo (seppure non riuscito) di trovare all’interno della scienza un posto anche per la ‘contraddizione’; ossia di spiegare razionalmente l’irrazionalità, le difficoltà logiche e morali difronte a cui necessariamente si trova la moderna e illuministica coscienza umana. 2. Chi invece ha, certamente a suo modo, assolutizzato l’irrazionalità e l’immoralità dell’uomo moderno è Sade. L’Histoire de Juliette, secondo gli autori, è l’opera che meglio rappresenta il rovesciamento della morale illuministica e della società borghese. "La ragione è l’organo del calcolo, della pianificazione; neutrale verso i fini, il suo elemento è coordinazione. L’affinità di conoscenza e piano (fondata trascendentalmente da Kant), che dà all’esistenza borghese, razionalizzata fin nelle sue pause, un carattere, in tutti i particolari, di finalità ineluttabile, è stata esposta empiricamente da Sade un secolo prima dell’avvento dello sport. […] La peculiare struttura architettonica del sistema kantiano, come le piramidi ginniche delle orge di Sade e la gerarchia di principi delle prime logge borghesi […] preannuncia un’organizzazione di tutta la vita destituita di ogni scopo oggettivo." L’ardito paragone istituito dai due autori fra lo schematismo trascendentale kantiano (cioè l’interna e autonoma struttura intellettuale del soggetto conoscente e immerso nell’esperienza), la ‘struttura’ delle orge sadiane, l’organizzazione sportiva del mondo contemporaneo e la struttura stessa della società borghese, ci fa ben comprendere il senso che Horkheimer e Adorno attribuiscono alla nozione di ‘dialettica’. I prodotti scientifici, culturali, artistici e sociali del mondo contemporaneo (nato dallo sviluppo dell’Illuminismo premoderno, che si è innanzitutto scagliato contro il mito, ecc.) sembrano, apparentemente e secondo il senso comune, realizzare appieno la razionalità dell’uomo, identificata con il suo alto grado di civilizzazione. Ma, a ben vedere, questi stessi risultati della cosiddetta civiltà si contraddicono reciprocamente e in se stessi. Da una parte, la ragione illuministico-kantiana viene ad assumere una funzione sociale distaccata dalla più intima coscienza umana, diviene "ragione strumentale", organizzazione ‘neutrale’ di un materiale umano (l’esperienza in genere) che non riceve da questa ‘architettura razionale’ nessun accrescimento in termini di autocoscienza, consapevolezza, capacità di riconoscersi nelle cose e agire nel mondo come a casa propria e a casa propria come nel mondo. D’altra parte, questa struttura razionale, proprio a causa della sua pretesa ‘neutralità’ può essere applicata anche a ciò che razionale non è, anche a ciò che contraddice la moralità e i valori conquistati dalla ragione illuministica. La dialettica, cioè il rovesciamento nel suo opposto, che subisce la ragione strumentale, si manifesta anche nella società stessa come immoralità, come agire controllato e finalizzato dell’uomo verso scopi che prescindono dalla comprensione qualitativa dell’oggetto. C’è un totale "rovesciamento dei valori", riprodotto sistematicamente in una società che ha come scopo ultimo e fine a se stesso, non l’innalzamento della coscienza umana, ma il dominio delle cose sugli uomini in forma di "potere economico". "Sade e Nietzsche hanno eternato questa contraddizione, ma hanno contribuito così a recarla al concetto." Ossia: sebbene questi due autori abbiano aderito alla dialettica dell’Illuminismo appena esposta, l’hanno proprio per ciò portata alla coscienza, l’hanno indagata, hanno contribuito a svelarne il carattere "distruttivo" della razionalità e moralità dell’uomo moderno-borghese. "Il fatto di non aver mascherato, ma proclamato ad alta voce l’impossibilità di produrre, in base alla ragione, un argomento di principio contro l’assassinio, ha alimentato l’odio di cui proprio i progressisti perseguitano ancora oggi Sade e Nietzsche. […] L’uno e l’altro hanno preso in parola la scienza. […] Proclamando l’identità di ragione e dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della borghesia. "Dove sono i tuoi massimi pericoli ? - si è chiesto una volta Nietzsche -: nella compassione". Egli ha salvato, nella sua negazione, la fiducia incrollabile nell’uomo, che è tradita giorno per giorno da ogni assicurazione consolante." Svelare criticamente e senza appello la "deformazione" in cui è caduta la pretesa civiltà occidentale; non concedere alcuna "compassione" a questo stato di cose, è ciò che, paradossalmente, riscatta l’uomo dalla "barbarie" borghese, dalla dialettica dell’Illuminismo, dall’ipocrita ideologia borghese di progresso. L’industria culturale. Quando l'illuminismo diventa mistificazione di massa 1. Nella società contemporanea e ‘di massa’ viene istituito un nesso inscindibile fra bisogni, sistema produttivo, tecnica, dominio. Di fronte a questo potente quadrinomio l’individuo si presenta piuttosto come "consumatore" passivo. La produzione di cultura non risponde a esigenze che soddisfino la qualità umana, la coscienza, la consapevolezza critica, e così via, ma la riproduzione del "capitale investito". Il lavoratore stesso, dicono gli autori, è orientato dalla produzione anche nel suo tempo libero. "Il compito che lo schematismo kantiano aveva ancora assegnato ai soggetti, quello di riferire in anticipo la molteplicità sensibile ai concetti fondamentali, è levato al soggetto dall’industria." In altri termini: la produzione industriale di ‘cultura’ toglie al soggetto la capacità di pensare autonomamente, in virtù di se stesso, ne annienta l’interna attività intellettiva, poiché semplicemente la sostituisce con l’automatismo, la ripetitività, già data al di fuori e a prescindere dalla coscienza. "Si può sempre capire subito, in un film, come andrà a finire, chi sarà ricompensato, punito o dimenticato; per non parlare della musica leggera, dove l’orecchio preparato può, fin dalle prime battute del motivo, indovinare la continuazione, e sentirsi felice quando arriva." E’ questa una condizione di alienazione in cui l’uomo massa vive e si conserva, senza per altro averne l’esatta percezione. "I prodotti dell’industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia." La riproducibilità stereotipa di tutto determina l’annientamento di ogni differenza qualitativa e di ogni capacità creativa della ragione. Il prodotto contemporaneo dell’Illuminismo, il progresso dell’industria e la produzione capitalistica di cultura, si risolve in un annullamento della capacità intellettiva, del ‘lume’ della ragione umana. La cultura diventa "imitazione", vuota di contenuto. 2. Questo processo di impoverimento culturale si presenta sotto gli occhi di tutti nei paesi industrializzati, tanto più in quelli nati politicamente dal "liberalismo". "Non per nulla il sistema dell’industria culturale è sorto nei paesi industriali più liberali, come è là che hanno trionfato tutti i suoi mezzi caratteristici, il cinema, la radio, il jazz e i magazines." Ma l’industria culturale più che avere caratteristiche politiche, nasce e si riproduce come sistema dell’amusement, del divertimento e dello svago. "Al processo lavorativo nella fabbrica e nell’ufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso nell’ozio. Di ciò soffre inguaribilmente ogni amusement." L’uomo diventa "cliente e impiegato", rincorso dalla produzione culturale fin nella sua più intima coscienza; quanto più crede di emanciparsi dal processo lavorativo, tanto più ne riproduce e mantiene i presupposti, consumandone i prodotti culturali, la merce-cinema, la merce-TV, la merce-musica, etc. 3. La realtà non può più essere criticata; la libertà del pensiero a cui l’Illuminismo diceva di aver condotto la coscienza moderna si risolve in consumo acritico delle merci. "A dimostrazione della sua divinità il reale viene sempre e solo ripetuto cinicamente. […] La nuova ideologia ha per oggetto il mondo come tale." Il cerchio si è chiuso: il progresso illuministico è approdato all’assoluta ‘positività’ della realtà estraniata dell’uomo; l’incontestabilità delle relazioni economiche e culturali instaurate dalla produzione capitalistica, diventa il ‘feticcio’ nei confronti del quale l’uomo singolo e il genere sono sottomessi come a un’autorità divina, che esce fuori del loro consapevole controllo. "Ciò serve a ribadire l’immutabilità dei rapporti. […] La libertà di ciascuno è garantita. Nessuno deve rendere conto ufficialmente di ciò che pensa. In cambio ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di istituzioni e relazioni, che formano uno strumento ipersensibile di controllo sociale." C’è però del tragico, secondo gli autori, al di sotto di quest’apparente impermeabilità delle coscienze alla ‘critica’ e all’autocritica. "La società è una società di disperati e quindi la preda di capi. […] Oggi il tragico si è dissolto nel nulla della falsa identità di società e soggetto, il cui orrore balena ancora fuggevolmente nella vuota apparenza di quello." L’individuo è, per così dire, andato a fondo. Così come a fondo è andato ogni nesso etico-morale fra individui. "Tutto viene percepito solo sotto l’aspetto che può servire a qualche cosa d’altro, per quanto vaga possa essere l’idea di quest’altro. Tutto ha valore solo in quanto si può scambiare, non in quanto è di per sé qualcosa." Assistiamo a un ‘nichilismo’ reale, del quale gli autori ci danno un quadro sociologico e antropologico molto ampio e articolato e per il quale, al momento, non forniscono soluzioni di sorta. Elementi dell'antisemitismo. Limiti dell’Illuminismo L’intero processo storico dell’occidente approda tragicamente nell’antisemitismo e nel nazismo-fascismo. Antisemitismo è innanzitutto odio e lotta da parte dei potenti-carnefici contro la natura umana in quanto tale. L’ebreo, il disadattato in generale, ricordano immediatamente le sofferenze a cui l’umanità è dovuta sottostare per dominare e autodominarsi. L’adattamento al dominio, da parte dell’uomo, non è completo, proprio nella misura in cui egli tenta l’eliminazione di chi gli ricorda di essere dominato. L’antisemitismo ha anche una precisa connotazione teologico-politica in quanto rappresenta la lotta del Dio cristiano con il Dio ebraico. Il Dio dei cristiani è costruito, secondo gli autori, a immagine e somiglianza della volontà di potenza dell’uomo; la volontà di innalzare all’assoluto ciò che si presenta come finito. Il Dio ebraico invece lascia la sua creatura nella finitezza, così come è, senza la pretesa di mediare, per superarla a forza, questa condizione naturale del vivere umano. L’antisemitismo non è un fenomeno storico e sociale ‘anormale’ ma tragicamente ‘normale’; è il prodotto più estremo dell’Illuminismo e del progresso borghese. E’ una profonda ferita etica che la ‘civiltà’ si è procurata da se stessa, e per la quale deve assumersi in pieno la colpa. L’antisemitismo può essere spiegato come un problema interno all’ideologia del borghese, il quale vuole fondare su elementi ‘di natura’ il suo dominio sociale; una natura deformata e violenta, quella "che si rivela nel genocidio." Appunti e schizzi L’ultimo capitolo della Dialettica si intitola Appunti e schizzi ed è composto da una serie di brevi interventi su contenuti diversi, scritti in forma aforistica e fra loro disomogenea. Si passa dalla considerazione della figura di Hitler come "spirito antiumano" realizzato, alla critica nei confronti della teoria degli ‘spettri’ di Freud, fino al rapporto moderno-borghese fra filosofia e divisione del lavoro. L’ambiente americano in cui i due autori vivevano fa da sfondo a questa sorta di ‘carrellata’ di figure storico-sociali a loro contemporanee.

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