Il secondo libro della Repubblica |
Una teoria della giustizia contrattualista
L'opinione comune sulla giustizia, dice Glaucone, si basa sull'idea che commettere ingiustizia sia un bene e subirla un male. Ma le persone che non hanno la forza di prevalere sugli altri e temono che gli altri possano a loro volta sopraffarle, trovano vantaggioso mettersi d'accordo per non farsi ingiustizia a vicenda. Così hanno cominciato a porre leggi e a far patti fra loro, e hanno chiamato nomimos (legittimo e conforme alle consuetudini) e dikaios (giusto) ciò che è stabilito dal nomos. [359a ss] Questa è la genesi e la sostanza (ousia) della giustizia: un modus vivendi stipulato fra persone che non hanno la forza di sopraffarsi a vicenda. Si tratta, però, di una via di mezzo tra una opzione migliore, ma impraticabile, e cioè commettere ingiustizia senza pagarne la pena, e una opzione peggiore, che si vuole evitare: subire ingiustizia senza avere la forza di vendicarsi. Ma se fosse possibile mettere in pratica l'opzione migliore, nessuno sceglierebbe la giustizia. La posizione di Glaucone anticipa il contrattualismo, nella versione datagli da Hobbes: si pattuisce la giustizia, che è una costruzione convenzionale, per debolezza e per paura; ci si distacca dal comportamento giusto non appena si ha la forza o l'occasione di farlo senza danno. Una posizione analoga è esposta da Tucidide nel dialogo fra Ateniesi e Melii, quando si dice che la giustizia è preferibile solo nel caso di una "uguale necessità" fra le parti in causa. Il mito dell'anello di GigeGlaucone mette a confronto due figure: da una parte, una persona completamente ingiusta, che pratica l'ingiustizia con competenza, abilità retorica e coraggio e con una notevole capacità di "ingegneria sociale", e che usa la violenza tutte le volte che occorre; dall'altra, un giusto, semplice e nobile, che non voglia aver reputazione (dokein) di agathos. ma esserlo. Non avendo la fama di giusto, egli sarà privato di tutti gli incentivi e le ricompense sociali alla giustizia. Immaginiamo che entrambi proseguano nel loro comportamento fino alla morte, l'ingiusto con la sua apparenza e la sua buona fama perfidamente guadagnata, l'ingiusto con la sua onestà e la sua cattiva reputazione. Chi sarà il più eudaimon? [361b ss] Il giusto, prosegue Glaucone, verrà maltrattato da tutti e alla fine giustiziato in modo infamante. L'ingiusto invece avrà potere e successo. |
La giustizia come scelta prudenzialeE discorsi del genere sono fatti anche dalla gente comune e dai poeti, che raccontano che la temperanza e la giustizia sono gravose, e buone solo per la doxa, l'opinione, e il nomos, la convenzione; che insegnano a rispettare i potenti ingiusti e a disprezzare i deboli e i poveri, anche se migliori di loro; che fanno credere che il favore degli dei, ammesso che esistano e si diano pensiero delle cose umane, si possa comprare con preghiere e sacrifici. [364b ss]
Chi ama la filologia heideggeriana, può vedere che la versione greca di questa citazione di Simonide usa in luogo di apparenza dokein (sembrare, essere ritenuto) e per verità aletheia. Questa parola contiene la radice del verbo lanthano (nascondere, nel senso di sottrarre alla vista e all'attenzione), e designa ciò che non è nascosto, e dunque è scoperto. Il senso della citazione di Simonide è dunque qualcosa di simile a: "chi riesce a darla ad intendere prevale su chi si comporta in modo scoperto". Stando così le cose, conclude Adimanto, nessuno è giusto semplicemente perché vuole essere tale, ad eccezione di chi, per sua divina natura, prova ripugnanza a commettere ingiustizia, o se ne astiene perché è riuscito ad afferrare la scienza (episteme) [366c-d]
Ma questa situazione, prosegue Adimanto, è dovuta al tipo di argomentazioni che sono state usate per educare alla giustizia:
Una giustizia il cui valore è fondato sull'opinione che la società ha di noi, sulla reputazione e sulle ricompense ad essa connesse è una giustizia che ci rende eteronomi, cioè dipendenti da una legge che è stata posta da altri. Per questo dobbiamo "sorvegliarci a vicenda" e gli interessati non sono i migliori guardiani di se stessi, come avverrebbe se ciascuno dipendesse da una legge che pone egli stesso, autonomamente. Una giustizia indipendente dalla doxaAdimanto sottolinea che non accetterebbe mai da Socrate un argomentazione a favore della giustizia basata sulle opinioni e sugli incentivi sociali. Non dobbiamo dimenticare che Socrate, vivo nel dialogo, è morto da tempo al momento in cui il dialogo viene scritto: anche per questo, sarebbe inaccettabile rappresentare Socrate, che è stato giustiziato per aver sfidato i valori condivisi, come un sostenitore del conformismo, dell'utilitarismo e dell'eteronomia morale. Occorre dimostrare che la giustizia è un bene il quale ha valore soprattutto per sua propria natura, e solo in via secondaria per i vantaggi che arreca. [367c ss]
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La polis come uomo scritto in grandeLa nostra vista non è molto acuta, e non riusciamo a leggere i caratteri piccoli; se però lo stesso testo fosse riportato, a lettere più grandi, anche altrove, il nostro compito verrebbe facilitato. E dal momento che noi affermiamo che la giustizia (dikaiosyne) può essere sia di un singolo uomo (andros enos), sia della polis intera (oles poleos), sarà più facile vedere la giustizia nell'elemento più grande, e poi applicarla al minore. Si tratta, quindi, di cercare la giustizia delle poleis e poi di esaminarla anche in ciascuno di noi, cercando di cogliere nelle caratteristiche del minore la somiglianza con il maggiore. [368d ss] Per capire che cosa sia la giustizia per la città, Socrate propone di costruire una città con e per il logos [369c]. Una città così formata, è una città fatta a parole. Socrate, dunque, non sta facendo sul serio? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo chiederci se le contraddizioni della morale tradizionale, in bilico fra competizione e dipendenza dalla vox populi, siano una cosa seria o un problema sofistico. Se il mito dell'anello di Gige sia una favola o se illustri una condizione in cui si trova ciascuno di noi, in bilico fra controllo sociale e sfrenatezza interiore. Una polis nasce perché non siamo autosufficienti, ma abbiamo molti bisogni, e dunque abbiamo la necessità di fare scambi con altri, per il nostro interesse. I bisogni si soddisfano nel modo più efficiente con la divisione tecnica del lavoro: a un agricoltore, per esempio, conviene specializzarsi nella coltivazione di grano, e ricevere scarpe, vestiti e abitazioni da altri specialisti. Queste produzioni fondamentali richiederanno a loro volta attrezzi, e dunque artigiani che li fabbricano. E siccome nessun territorio può essere economicamente autosufficiente, occorreranno commercianti che si occupino delle importazioni e delle esportazioni, nonché un mercato per fare scambi. La divisione tecnica del lavoro è dovuta anche al fatto che ciascuno nasce con doti e vocazioni differenti.[369e ss] Ebbene, chiede Socrate, dove si troverà, e da dove nascerà la giustizia e l'ingiustizia, in una città così delineata? [371e] Gli uomini hanno bisogno di collaborare fra loro, ma, finché ci si ferma ai bisogni elementari, propri di una comunità dai gusti semplici che Glaucone chiama "città di porci" [372d], i problemi connessi alla giustizia e all'ingiustizia non sono ancora evidenti. Socrate, allora introduce nella città che va costruendo nel discorso il lusso, ossia la moltiplicazione e il raffinamento dei bisogni, e lo sviluppo di quello che oggi chiameremmo settore terziario. Questa moltiplicazione dei bisogni conduce ai conflitti e alle guerre: a differenza di quanto avveniva nella città dei porci, nella città lussuosa ci si abbandona ad un desiderio indefinito di ricchezza, che supera il limite del necessario. [373d]
Carattere e educazione dei guardianiPer fare bene il loro lavoro, i guardiani dovranno essere dotati di vigore fisico, di thymos, nonché della capacità di comportarsi gentilmente con chi conoscono e aggressivamente con gli sconosciuti: per questo Socrate dice che devono avere uno spirito filosofico, perché la loro caratteristica è essere amici (filoi) di quello che conoscono, nel senso di amarlo disinteressatamente. [375a ss] Il thymos designava il principio della vitalità e dunque, in senso fisico, il respiro, come è attestato in Omero, e in senso translato l'animo o il cuore, come sede delle passioni - l'ira, ma anche e conseguentemente coraggio ed ardore. In questo senso, una persona che ha del thymos può essere detta "animosa", cioè dotata della capacità e della forza passionale di reagire prontamente. Il thymos, cioè, non ha a che vedere solo con una tendenza all'ira, ma con la disposizione dell'anima ad "accendersi" e a reagire energicamente. Socrate introduce il tema dell'educazione dei guardiani, che è una questione capitale, con un frase ambiguo: si tratta di fare un racconto a mo' di mythos, e di educare questi uomini logo (col discorso).[376d] La prima educazione, ancor prima della ginnastica per il corpo, sarà la mousiké. Per mousiké si intende il complesso delle arti presiedute dalle Muse. che comprende la poesia, la letteratura, la musica in senso stretto, il teatro, il canto, la danza; comprende, in particolare, la poesia come veniva "rappresentata" nel mondo greco, ossia per mezzo del canto accompagnato da uno strumento musicale. Il mito come strumento educativoMa questo comporta che l'intero patrimonio della tradizione culturale greca, a partire da Omero ed Esiodo, vada sottoposto a una rigorosa censura, se deve essere messo a contatto con i giovani: questa tradizione presenta infatti divinità amorali, assai peggiori degli uomini, e in continua competizione fra loro. E per questo forma i bambini secondo l'etica competitiva caratteristica della morale aristocratica: ma il fatto che questa morale sia condivisa non è questione di natura, bensì di educazione.[378c ss] Socrate afferma che la poesia dovrà essere posta sotto controllo, in modo da trasmettere ai giovani una teologia alternativa a quella omerica, e più simile a quella implicita nell'Apologia. Questa teologia deve trasmettere l'idea di una divinità eticamente razionale, che vuole e determina soltanto il bene e che non mente né muta il suo aspetto per ingannare gli uomini, ma è assolutamente semplice e vera, anche perché menzogna e conflittualità sarebbero aspetti contraddittori con la potenza divina.[379a ss] Nessuno apprezza ciò che è veramente una falsità (alethos pseudos), cioè una menzogna con l'aspetto di una verità. Avere nel proprio patrimonio di sapere queste "vere bugie" mantiene nell'ignoranza come agnoia, cioè come mancanza non tanto di istruzione (amathia) quanto di conoscenza. Chi non ha istruzione può rendersene conto e avvertire il desiderio da imparare, ma chi è indottrinato da una "vera bugia" si trova in una condizione peggiore, perché la "vera bugia" comporta una illusione di conoscenza. [382a ss] In questo modo, conclude Socrate, i phylakes della città verranno educati a temere il divino e ad essergli il più possibile simili.
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