IL COMUNISMO E' UNA
DITTATURA?
Una delle accuse più infamanti da sempre mosse al comunismo è
di essere una dittatura, avversa ad ogni forma di democrazia e di libertà: Marx
stesso parla di “dittatura del proletariato” con l’idea che il movimento operaio
debba imbracciare le armi e scendere sulle piazze per abbattere il sistema
capitalistico e instaurare un governo dittatoriale capeggiato dal movimento
operaio stesso. Tuttavia, la “dittatura del proletariato” delineata da Marx non
è il fine ultimo a cui aspira il comunismo, ma è, piuttosto, una fase
transitoria che, nel tempo, verrà superata. Marx è infatti convinto che le idee,
da sole, non siano in grado di mutare la realtà: viceversa, si tratta di
cambiare la realtà per far mutare le idee, giacchè esse sono un prodotto della
realtà stessa ( “ non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che
determina la coscienza ”); e una volta cambiato l’assetto della realtà
attraverso la rivoluzione, e dunque instaurato dittatorialmente il regime
comunista, muteranno necessariamente anche le idee dominanti, proprio perché
esse “ non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali
dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee ”. Le nuove
idee dominanti verranno così ad adattarsi alla nuova realtà storica: nel momento
in cui nelle coscienze regnerà l’ideologia comunista e sarà stata abbattuta la
divisione in classi degli uomini (e lo sfruttamento che la caratterizza), allora
anche lo Stato perderà di significato e dovrà inevitabilmente estinguersi; esso,
infatti, altro non è se non lo strumento con cui, nella storia, una classe ha di
volta in volta dominato le altre ed è naturale che con l’abolizione delle classi
scompaia anche lo strumento mediante il quale esse si dominano a vicenda. Venute
meno le classi e, con esse, lo Stato, cesserà di esistere anche la dittatura del
proletariato sulle altre classi, proprio in virtù del fatto che non ci saranno
altre classi: si esce così dalla fase di dittatura del proletariato per passare
a quella ultimale di anarchia, vero obiettivo del comunismo; con l’anarchia
torneranno a pulsare con vigore la libertà e la democrazia diretta e l’intera
macchina statale finirà “ nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel
museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo ”
(Engels, “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”). Si
possono anche fare altre considerazioni in merito: in primo luogo, è
storicamente accertato che nessun Paese comunista sia mai riuscito a passare
dalla fase a quella anarchica; proprio in questo (oltre al fatto che non si è
riusciti a far dilagare la rivoluzione nel resto dell'Europa) risiede il grande
limite della Rivoluzione Russa, che, dopo aver eliminato la divisione in classi
e lo sfruttamento di matrice capitalistica, si è sempre più cristallizzata in un
rigido e statico apparato dittatoriale che, con Stalin, è giunto al culmine.
Altra considerazione, rivolta in particolar modo a tutti quelli che
inorridiscono di fronte al comunismo per il suo carattere dittatoriale: ogni
forma di governo, anche se può sembrar strano, è una dittatura di una classe
sulle altre, giacchè lo Stato è sempre, come abbiamo detto, lo strumento di cui
una determinata classe si serve per reprimere gli appetiti delle altre e per
esprimere la propria egemonia. Per ciò dittature sono il fascismo, il nazismo,
il comunismo (nella sua fase di “dittatura del proletariato”) ma anche la
repubblica democratica, intesa come forma di tirannide ordita dalla borghesia a
discapito di tutti gli altri ceti; a questo punto si obietterà che, nell’ambito
della repubblica democratica, ciascuno è libero ed uguale di fronte alla legge.
A queste obiezioni si può, molto semplicemente, rispondere che non ci sarà mai
una reale uguaglianza giuridica e politica finchè non vi sarà anche
l’uguaglianza sociale. Nella repubblica democratica, infatti, la disuguaglianza
tra il lavoratore e il datore di lavoro non sussiste solo malgrado l’esistenza
della libertà giuridica, ma, anzi, sussiste in virtù di essa, che consente al
datore di lavoro di sfruttare i suoi operai. E’ vero che l’operaio è libero (e
non costretto da sanzioni giuridiche) a vendere la propria forza-lavoro, ma se
non la vendesse che cosa farebbe? Morirebbe di fame. L’operaio è dunque libero
di scegliere il padrone che lo sfrutterà, è libero di non lavorare, cioè di
morir di fame, è libero di lavorare 12 ore al giorno, cioè libero di morir di
fatica. Allo stesso modo, di fronte alla legge, l’operaio e il capitalista sono
uguali solo formalmente: il capitalista che vanta la possibilità di avvalersi
dell’avvocato più costoso trionferà sempre e comunque sull’operaio che si vede
costretto dalle ristrettezze economiche a schierare un avvocato d’ufficio. Se ne
evince che la libertà della repubblica democratica e liberale, tanto acclamata,
è solo fittizia: ma, nonostante ciò, non si tratta di aggiungere all’uguaglianza
politica e giuridica quella sociale, come credono alcune frange socialiste. Al
contrario, per via delle contraddizioni eclatanti affiorate dalle prime due
forme di “libertà”, si tratta di abbattere con le armi la repubblica democratica
e liberale, perché infetta da ferite insanabili, e sostituirla con la dittatura
del proletariato, caratterizzata dalla spiccata uguaglianza sociale. Per
ricorrere ad un’immagine alquanto efficace, occorre abbattere l’edificio della
repubblica democratica, poggiante su fondamenta instabili, per costruirne uno
nuovo: quello comunista. Si può poi far notare che il comunismo, nella sua fase
transitoria di dittatura, è sì una dittatura, ma è una dittatura democratica,
perché instaurata dalla stragrande maggioranza degli uomini a vantaggio della
stragrande maggioranza degli uomini. E si differenzia dalle altre dittature
(tipo quella nazista e fascista) non solo perché è temporanea, ma anche per gli
obiettivi a cui aspira: si propone infatti di liberare l’uomo dalle catene della
servitù e dello sfruttamento; e come di una cura medica si è soliti guardare non
tanto alle modalità, quanto piuttosto ai risultati, allo stesso modo è bene non
guardare alle modalità con cui il comunismo si realizza, ma ai risultati cui
esso conduce. E nel nostro caso, la posta in palio, ovvero la libertà reale del
genere umano e il debellamento di ogni forma di schiavitù, è così alta da
meritare di essere ottenuta con qualsiasi terapia, anche con le armi. E che si
arrivi alla rivoluzione non dipende tanto dalla volontà delle classi subalterne,
sfruttate all’esasperazione, quanto piuttosto dalle stesse condizioni generate
dal sistema capitalistico.
PERCHE' ABOLIRE LA
PROPRIETA' PRIVATA?
Che diritto possono arrogarsi i comunisti di abolire la
proprietà privata? Tutto risulta più chiaro se ci chiediamo preventivamente: che
diritto si ha di avere una proprietà privata? In base a quale norma si può dire
che una cosa è nostra e solo nostra, precludendola a tutti gli altri uomini?
Quale è il diritto che sta alla base e legittima l’appropriarsi di terre, di
frutti e, in ultima analisi, dei mezzi di produzione? Marx fa notare, in un
passo de “L’ideologia tedesca”, che “ l’economia politica parte dal fatto
della proprietà privata. Non ce la spiega. ” Ciò significa che la proprietà
è sempre stata considerata alla stregua di un postulato, ovvero la si è sempre
accettata acriticamente, come un qualcosa che non necessita di spiegazioni.
Proprio come la religione poggia sul postulato dell’esistenza di Dio, così
l’economia si è, da sempre, fondata sul postulato della legittimità della
proprietà privata e, in modo analogo alla religione, il postulato costitutivo su
cui poggia è sempre più andato circondandosi di un alone mistico e solenne , a
tal punto che nella società borghese vigente non vi è alcun reato più sacrilego
che mettere in discussione la proprietà privata. Se tuttavia conduciamo
un’analisi storica, non possiamo non pervenire allo sconcertante risultato che
la proprietà privata nasce come vero e proprio furto con cui ci si appropria
indebitamente di ciò che in origine era un bene collettivo, ovvero non era di
nessuno o, se preferiamo, era di tutti. Possiamo avvalorare questa tesi, per
smentire coloro i quali la riterranno una mera aberrazione mentale, adducendo un
esempio particolarmente significativo: nell’Inghilterra del Cinquecento, si
verificò in tutta la sua drammaticità il fenomeno delle “enclosures”, delle
recinzioni delle terre, che venivano sottratte al regime dell’ “openfield” con
le sue pratiche comunitarie; talvolta le recinzioni (che avvenivano quasi sempre
con metodi violenti e brutali) investirono anche le terre incolte considerate
dai villaggi, da tempo immemorabile, come proprietà collettiva per i pascoli. A
questo punto qualcuno obietterà che, pur ammettendo che la proprietà privata
affondi le sue radici in un furto, resta pur sempre vero che solamente quando si
è proprietari a pieno titolo di una terra la si lavora al massimo per farla
fruttare il più possibile, producendo in tal modo più cibo e benessere per
tutti; quando invece manca la proprietà effettiva, viene anche meno l’interesse
a far fruttare al meglio una terra che non è propria. Ma quest’osservazione non
fa fronte al problema di fondo: si tratta sempre e comunque di un furto,
produttivo o non produttivo che sia. In modo lucido e brillante, Marx stesso,
nel “Manifesto del partito comunista”, risponde a questa critica: “ è stato
obiettato che, con la soppressione della proprietà privata, cesserà ogni
attività e si diffonderà una pigrizia generale. Se così fosse, la società
borghese sarebbe da parecchio tempo andata in rovina a causa dell'indolenza, dal
momento che in essa chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. ”
Altra accusa che viene sprezzantemente mossa ai comunisti è di voler sottrarre
la proprietà ai più ricchi per poi, anziché ridistribuirla ai più poveri,
tenersela: quest’accusa, che ignora totalmente i princìpi marxisti che
alimentano il comunismo, non tiene conto che i comunisti non si propongono di
realizzare una distribuzione più equa della proprietà privata (come invece ha
ritenuto più volte giusto fare la borghesia), poiché così facendo si resterebbe
sempre nell’alveo della tradizione borghese e della sua convinzione della
sacralità della proprietà privata. Si tratta, viceversa, non di redistribuire,
bensì di eliminare la proprietà privata, anche perché, limitandosi a
redistribuirla, essa continuerebbe ad esistere nella sua forma di furto. In
conclusione, alla domanda “che diritto si ha di abolire la proprietà privata?”
si può rispondere che il diritto a cui si fa appello è lo stesso a cui si
richiamano coloro ai danni del quale è stato perpetrato un furto e che chiedono
che ad esso venga posto un riparo. E come si fa ad abbattere la proprietà
privata? Con la rivoluzione: e a tal proposito Marx dice che “ per
trasformare la proprietà privata e spezzettata, oggetto del lavoro individuale,
in proprietà capitalistica, occorsero naturalmente più tempo, sforzi e
sofferenze di quanto non ne esigerà la metamorfosi in proprietà sociale della
proprietà capitalistica, che di fatto si basa già su un modo di produzione
collettivo. Là si trattava della espropriazione della massa da parte di alcuni
espropriatori; qui si tratta dell'espropriazione di alcuni usurpatori da parte
della massa ”. Per citare le parole che Marx spende in merito nel celebre
“Manifesto del partito comunista”: “ Voi inorridite perché noi vogliamo
eliminare la proprietà privata. Ma nella vostra società esistente la proprietà
privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste proprio
in quanto non esiste per quei nove decimi. Voi ci rimproverate dunque di voler
abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà
per la stragrande maggioranza della società. ”
PERCHE' ABBATTERE IL
SISTEMA CAPITALISTICO?
Ciò che rivela delle contraddizioni a cui non è possibile far
fronte e che non può in alcun modo essere salvato, va abbattuto, proprio come un
corpo agonizzante privo di ogni speranza di salvezza. E come nel caso di una
costruzione vacillante, non solo si ha la certezza matematica che cadrà, ma ci
si deve anche adoperare affinchè crolli al più presto, in modo tale da
sostituirla con un edificio solido e dalle fondamenta stabili. Così si presenta
oggi il capitalismo agli occhi dei comunisti: come un edificio pericolante che
non deve essere aggiustato (perché ha troppe contraddizioni) ma abbattuto, in
modo tale da accelerare la sua caduta. Quali sono, dunque, le contraddizioni che
viziano il sistema capitalistico? Marx ne individua parecchie, prima fra tutte
la concorrenza. Il capitalismo, come è noto a tutti, si fonda sull’idea
concorrenziale secondo cui ciascuno gode della possibilità di inserirsi sul
mercato, di contrattare in assoluta libertà e di vincere la concorrenza tenendo
i prezzi più bassi o offrendo merci più pregiate. E tuttavia, se letta in
trasparenza, la storia insegna che la concorrenza stessa, per sua inclinazione
naturale, tende a ridursi sempre più, fino a sfociare nell’oligopolio o, nel
peggiore dei casi, nel monopolio. Questo avviene grazie ad accordi, a truffe, a
raggiri che portano all’eliminazione delle parti deboli e all’affermarsi sempre
maggiore delle grandi aziende, che si accordano tra loro per rimuovere dal
mercato i concorrenti. Ne consegue che, paradossalmente, vien meno la
concorrenza, ossigeno del capitalismo: per un assurdo meccanismo, la logica
capitalistica, imperniata appunto sul sistema concorrenziale, nega se stessa,
capovolgendosi in oligopolismo, ovvero negazione della concorrenza. Alla domanda
“dove porta la concorrenza?” si può tranquillamente rispondere: alla negazione
della concorrenza. Un’altra insuperabile contraddizione che inquina il sistema
capitalistico consiste nel fatto che, a partire dalla nascita delle industrie
con l’avvento della rivoluzione industriale, il lavoro in fabbrica è diventato
sempre più, con il passare degli anni, cooperativistico, mentre il frutto di
tale lavoro è diventato in misura via via crescente proprietà privatistica: come
a dire che, nel sistema capitalistico, sono sempre in di più a produrre,
attraverso forme di collaborazione, ma il frutto di tale lavoro è appannaggio di
sempre meno individui privilegiati. Ciò implica che si apra sempre più la
forbice tra modo di produzione e distribuzione della ricchezza: Marx dice
testualmente, nel “Manifesto del partito comunista, che nella società
capitalistica, man mano che passa il tempo, “ chi lavora non guadagna e chi
guadagna non lavora ”, e questa contraddizione lampante dovrà portare, nella
prospettiva marxista, all’abbattimento del sistema capitalistico, rigurgitante
di una miriade di errori. Spostiamo ora la nostra attenzione su come vivono gli
operai il capitalismo: secondo Marx, strenuo difensore del materialismo, non c’è
nulla che meglio del lavoro realizzi l’essenza umana. Grazie ad esso, l’uomo
trasforma la natura, imprime su di essa il proprio suggello, scavalca
materialmente quella distinzione tra soggetto e oggetto superata solo idealmente
da Hegel, domina la natura e la soggioga ai suoi interessi. Ne dovrebbe
conseguire, stando le cose in questi termini, che l’operaio si trova in una
situazione privilegiata, poiché trascorre quasi tutta la giornata al lavoro. Ma
non ogni forma di lavoro realizza l’essenza umana; più precisamente, il lavoro
inquadrato nella struttura dello sfruttamento capitalistico non solo non
realizza l’essenza umana dell’operaio, ma anzi la mortifica. Infatti, l’operaio
non concepisce più il lavoro come uno strumento per dominare la natura, ma,
viceversa, come uno strumento con cui la natura lo domina: egli non è libero di
appropriarsi del frutto del suo lavoro, che gli viene brutalmente strappato,
sicchè arriva a concepirlo come un mostro a lui avverso, come un feticcio. E
poi, non potendo più trovare la propria realizzazione nel lavoro, l’operaio la
cerca altrove: nell’alcol e nella prostituzione, ovvero nelle sue funzioni più
bestiali e disumane, cosicchè “ il bestiale diventa l'umano e l'umano il
bestiale ” (Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”). Con
l’avvento delle macchine, poi, gli sono richieste competenze sempre minori e più
dequalificate, tant’è che con la catena di montaggio si riduce a dover compiere
singoli passaggi automatici che, oltre a rendergli insostenibilmente tedioso il
lavoro, lo abbruttiscono perfino: l’operaio diventa un accessorio della
macchina, quasi un suo prolungamento. Se ne conclude che: “ il lavoro
alienato [=sottratto all’operaio] 1) aliena all'uomo la natura ; 2) aliena
all'uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così
all'uomo il genere; (---) il lavoro alienato fa dunque 3) della specifica
essenza dell'uomo, tanto della natura che dello spirituale potere di genere,
un'essenza a lui estranea, il mezzo della sua individuale esistenza; estrania
all'uomo il suo proprio corpo, come la natura di fuori, come il suo spirituale
essere, la sua umana essenza; 4) che un'immediata conseguenza, del fatto che
l'uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale,
dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell'uomo dall'uomo. Quando l'uomo
sta di fronte a se stesso, gli sta di fronte l'altro uomo. ” Un altro
fattore che inficia il sistema capitalistico e che, secondo le previsioni
marxiste, lo porterà inevitabilmente a crollare consiste in quella che Marx
definisce, con un’espressione divenuta celebre, “legge della caduta tendenziale
del saggio di profitto”. Per non soccombere alla concorrenza, il capitalista
deve investire in misura crescente il profitto ricavato in macchinari, ovvero in
capitale costante, e per non diminuire i propri profitti deve cercare di tenere
sempre più basso il capitale variabile (gli stipendi). Ciononostante, Marx é
convinto dell'esistenza di una legge tendenziale di caduta del saggio di
profitto , con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche
mani. E questo, a sua volta, forma un binomio indisgiungibile con l'
immiserimento crescente degli operai : con l'avvento delle macchine, che possono
sostituire il lavoro di molti operai, aumentano i disoccupati e, quindi, anche
l'offerta di forza-lavoro sul mercato, cosicchè anche per questo aspetto i
salari tendono a diminuire: aumenta la povertà e il numero dei disoccupati, di
conseguenza il capitalista può tenere più bassi i prezzi dei salari e
guadagnarci di più. In questa situazione si genera la massima contraddizione tra
il carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione e il carattere
sociale sempre più rilevato della produzione, tra lo sviluppo delle forze
produttive (il proletariato) e il numero sempre più ristretto di capitalisti: e
Marx può affermare che “ la produzione capitalistica genera essa stessa, con
l'inevitabilità di un processo naturale, la propria negazione ”. Infine,
sull’inadeguatezza del sistema di produzione capitalistico, si possono ricordare
le due crisi economiche che l’hanno travolto, rispettivamente, negli anni ’70
dell’Ottocento (“grande depressione”) e nel 1929: a differenza di tutte le altre
crisi che si erano precedentemente verificate nella storia, le due poc’anzi
citate sono state generate non dalla sottoproduzione ma, viceversa, dalla
sovrapproduzione che caratterizza il sistema capitalistico. Il che vuol dire che
la loro causa scatenante non è rintracciabile nella carenza di prodotti, ma
nella loro sovrabbondanza, per via della quale non li si riesce a smerciare; e
questo avviene anche in virtù del fatto che i produttori, per non essere
travolti dal turbine della concorrenza, si vedono costretti a tenere sempre più
bassi gli stipendi, cosicchè gli operai non possono acquistare i prodotti del
sistema capitalistico: e questi ultimi si depositano invenduti nei magazzini.
Per far fronte all’eccessiva produzione, non resta altro da fare che licenziare
una nutrita schiera di operai affinchè cali la produttività e tutto torni alla
normalità. Ma gli operai che si vedono privati del loro lavoro muoiono
letteralmente di fame, poiché, se in una situazione campagnola, dove abbondano i
campi e vi è un’esosità di prodotti agricoli, ci si può in qualche modo
arrangiare, la città, dal canto suo, non perdona. Sintetizzando molto, il succo
delle due crisi è che, per non soccombere alla concorrenza, si cerca di produrre
il più possibile e ai costi più bassi e per fare questo si ricorre sempre più
alle macchine, lasciando a casa parecchi operai e quelli che conservano il loro
posto li si remunera sempre più scarsamente, con la paradossale conseguenza che
non vi sono più acquirenti: la povertà è così generata dalla ricchezza o, se
preferiamo, dal sistema capitalistico. Queste due crisi tipicamente “moderne”,
divampate con una violenza senza precedenti, mettono, fra le altre cose, in luce
l’illusorietà di quelle tesi propugnate dai liberisti, tesi secondo le quali
ciascuno, perseguendo il proprio interesse privato, sta in realtà perseguendo
gli interessi di tutti: il perseguimento dei propri interessi da parte dei
singoli capitalisti ha invece portato ad un immiserimento crescente per il resto
della società. Da queste considerazioni si evince la necessità di sancire la
fine del capitalismo e dei suoi orrori e di sostituirlo con il comunismo: e non
è un caso che, proprio mentre in America e nell’Europa capitalistica, dilagava
la crisi del ’29, nell’Unione Sovietica si verificava un irresistibile sviluppo
economico dovuto in buona parte all’isolamento di quel Paese dall’economia
mondiale e ai processi di industrializzazione forzata che vi erano stati
avviati. Da tutte queste considerazioni, possiamo evincere la necessità di
abbattere il sistema capitalistico, tanto più che, come dice Marx nel
“Manifesto”, con parole vibranti, “ i proletari non hanno da perdervi altro
che le proprie catene. Da guadagnare hanno un mondo. ”
COMUNISMO VUOL DIRE TORNARE
AL PRIMITIVO STATO DI NATURA?
Come abbiamo spiegato in precedenza, agli albori della storia
non vi erano proprietà private né divisioni in classe, non si era ancora attuato
il dominio dell’uomo sull’uomo che caratterizza la società moderna. Sembra che
dunque, i comunismi, volendo abolire la proprietà privata e la suddivisione
degli uomini in classi, intendano regredire dall’era moderna alla preistoria. In
realtà le cose non stanno così. Occorre in primo luogo chiedersi che cosa ha
fatto scaturire il passaggio dalla collettività delle proprietà alla divisione
delle proprietà e degli uomini in classi. Marx sostiene che l'uomo è un prodotto
dell’ambiente materiale in cui vive, sicchè, in qualche misura, non è scorretto
dire (come aveva fatto Feuerbach) che “ l’uomo è ciò che mangia ”, ma
egli non si accontenta di mangiare esclusivamente ciò che gli offre la natura e
così la modifica per mangiare ciò che egli stesso produce. Ecco perchè man mano
che si procede nella storia, per via del crescere della cultura, i bisogni umani
diventano sempre più complessi e per poterli soddisfare occorre un lavoro sempre
più sofisticato, che può essere attuato solo attraverso la divisione del lavoro
e, con essa, la divisione in classi, che è il motore della storia: e con essa
nasce la società moderna. Essa genera ricchezza e progresso ma nello stesso
tempo provoca divisioni di classe e disuguaglianze, suddivide gli uomini in
sfruttati e sfruttatori, il lavoro in lavoro intellettuale e lavoro manuale. E
così come la fase di “comunismo primitivo” è stata sorpassata perché inadeguata
e ricca di contraddizioni, così anche la fase dell’età moderna va superata, per
i motivi e le contraddizioni che abbiamo sottolineato nel paragrafo precedente.
E la società moderna giunge al culmine proprio con il sistema capitalistico, in
cui il dominio dell’uomo sull’uomo non è più mascherato da norme giuridiche che
di fatto sanciscono l’inferiorità di determinati gruppi sociali (come di fatto
era nel Medioevo o ai tempi dei Greci), ma si manifesta in virtù di quella
libertà meramente fittizia che è la libertà giuridica: non vi è alcuna regola
che sancisca la subordinazione di alcune classi sociali rispetto ad altre, ma,
di fatto, grazie alla libertà in vigore, si arriva al punto in cui lo
sfruttamento è permesso dalla legge. Ma i comunisti, volendo superare la fase
dell’età moderna, non per questo intendono regredire al comunismo preistorico
della povertà: il comunismo venturo sarà, hegelianamente, il superamento del
capitalismo e la riproposizione del comunismo primitivo ad un livello
incommensurabilmente superiore; non sarà più comunismo della povertà, ma della
ricchezza, in quanto sintesi dei due momenti storici ad esso precedenti. E in
quanto sintesi, mutuerà gli aspetti più efficaci dei due momenti che lo
precedono, depurandosi di quelli inadeguati: più precisamente, dal primo momento
(comunismo della povertà) desume la forma di proprietà collettiva dei mezzi di
produzione e dal secondo (società moderna) l’ evoluto apparato di produzione
industriale. In sintesi, instaurando il comunismo, non solo non si ritorna alla
preistoria, ma, anzi, si supera addirittura la forma di produzione e di società
attualmente in corso.
IL COMUNISMO SI SCAGLIA
CONTRO LA RELIGIONE ?
Il comunismo è nemico di ogni religione e della libertà di
culto: questa è la tesi di fondo con cui da generazioni e generazioni si attacca
il comunismo, etichettandolo come ateo e anticlericale. La questione merita di
essere meglio analizzata: il comunismo di cui Marx è vessillifero non si propone
affatto l’abbattimento violento della religione e della libertà di culto, come
in quegli stessi anni intendeva fare Feuerbach, le cui considerazioni religiose
si intrecciavano con quelle politiche. Egli sottolineava, infatti, il carattere
pericolosamente conservatore della religione, sottolineando come in essa, l'uomo
tenda a diventare schiavo di un'entità superiore, e uno schiavo incatenato nel
"mondo delle idee", diceva Feuerbach, diventa inevitabilmente anche schiavo
nella realtà materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio diventasse
anche schiavo di un padrone reale. Ne consegue che per Feuerbach la liberazione
politica dell'uomo dovrà passare per l'eliminazione della religione: infatti,
solo dopo la scomparsa della religione l'uomo cesserà di essere schiavo di Dio
e, successivamente, dei padroni materiali. Diametralmente opposta è, invece, la
concezione di Marx, secondo la quale “ la religione è l'oppio del popolo
” : secondo Marx, infatti, l'uomo ricorre alla religione perchè materialmente
insoddisfatto e trova in essa, quasi come in una droga, una condizione
artificiale per poter meglio sopportare la tragica situazione materiale in cui
vive. Per Marx, dunque, non è la religione che fa sì che si attui lo
sfruttamento sul piano materiale, ma, al contrario, è lo sfruttamento
capitalistico sul piano materiale che fa sì che l'uomo si crei, nella religione,
una dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a
sperare: “ questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza
capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto ”, dice Marx nella
“Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”. Ne consegue che se per
Feuerbach per far sì che cessi l'oppressione materiale occorre abolire la
religione, per Marx, invece, una volta eliminata l'oppressione, crollerà anche
la religione, poichè l'uomo non avrà più bisogno di "drogarsi" per far fronte ad
una situazione materiale invivibile. E’ dunque del tutto inutile scatenarsi in
una feroce lotta contro la religione, poiché essa altro non è se non il
necessario derivato della insostenibile condizione capitalistica che travaglia
il mondo, è “ il suo punto d’onore spiritualistico ”, “ la
realizzazione fantastica dell’essenza umana ”, “ il suo entusiasmo, la
sua sanzione morale, il suo solenne completamento ”. Ma questo non toglie
che la religione debba essere aspramente criticata, visto che, come spiega Marx
in un linguaggio scintillante di metafore, “ l’esigenza di abbandonare le
illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha
bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la
critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola. La critica ha
strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l'uomo porti la catena
spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori
vivi. La critica della religione disinganna l'uomo affinché egli pensi, operi,
dia forma alla sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione,
affinché egli si muova intorno a se stesso e, perciò, intorno al suo sole reale.
La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a
che questi non si muove intorno a se stesso. ” La religione, pur essendo
l’esalazione spirituale dello sfruttamento capitalistico, la speranza in una
felicità futura contrapposta alla miseria presente, deve essere superata e
sostituita dalla felicità reale, cosicchè la critica della religione smonta la
tesi secondo cui l’essenza eccelsa per l’uomo è Dio o il denaro e ad essa
contrappone quella imperniata sulla convinzione secondo la quale “ l'uomo è
per l'uomo l'essere supremo ”. Alla fede in Dio subentra quella nell’uomo e
nel partito: per usare un’espressione di Gramsci, “ il partito prende il
posto, nella coscienza, della divinità e dell’imperativo categorico ”; il
partito del movimento operaio si configura pertanto esso stesso come una sorta
di religione avente i suoi dogmi e i suoi riti: “ religione, nel senso che
anch’esso è una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perché
ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia
nell’uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale ”
(Gramsci, “Sotto la mole”). Quest’idea che alla religione basata sulla
venerazione di un Dio al di là del mondo se ne debba sostituire una incentrata
sulla fede nel partito e nelle capacità dell’uomo è costante nel marxismo:
nell’incipit di “ In memoria del manifesto dei comunisti” (1895) di Antonio
Labriola leggiamo un forte e sarcastico richiamo ai riti della tradizione
cristiana: “ di qui a tre anni noi socialisti potremo celebrare il nostro
giubileo. La data memorabile della pubblicazione del Manifesto dei comunisti
(febbraio 1848) ci ricorda il nostro primo e sicuro ingresso nella storia ”.
Riassumendo: non si deve eliminare la religione per far sì che lo sfruttamento
materiale si sgretoli, bensì si deve distruggere lo sfruttamento materiale
(=capitalistico) e, una volta caduto, anche la religione perderà la sua ragion
d’essere e l’uomo tornerà a riporre le sue speranze nel mondo reale, senza
proiettarle in un fantasmagorico aldilà. Il problema consiste nell'abolire, più
che la religione, le condizioni storiche che la rendono possibile.
QUALE E’ LA DIFFERENZA TRA
COMUNISTI E SOCIALISTI?
Tra comunisti e socialisti è sempre intercorso un rapporto di
amore e odio: ciò che li distingue è, essenzialmente, il rapporto con la
rivoluzione. Per i socialisti, infatti, non si tratta di abbattere il sistema
capitalistico, ma di governarlo, di renderlo più vivibile e umano. Per usare
un’espressione impiegata da un socialista svedese del Novecento, il capitalismo
per i socialisti deve essere, al pari di una mucca, munto per poter sfamare il
maggior numero possibile di persone; esso non deve essere lasciato in balia di
se stesso, assolutamente libero e senza leggi che lo regolino (come invece
credeva quel liberismo che trovava in Adam Smith il suo eroe), bensì va
direzionato e gestito accuratamente affinchè non si inceppi, come di fatto è
avvenuto nel 1929. Per i comunisti, al contrario, si tratta non già di riformare
il capitalismo in senso sociale, bensì di abbatterlo con la rivoluzione a mano
armata. Questa divergenza di vedute che sta alla base della divergenza e,
spesso, della conflittualità tra le due correnti di pensiero, spiega perché
spesso i comunisti arrivarono addirittura a vedere nei socialisti e nel loro
esasperato tentativo di salvaguardare il capitalismo il loro peggior nemico,
addirittura più pericoloso rispetto ai liberali: infatti, se i liberisti, con la
loro sfrenata smania di non imbrigliare minimamente il capitalismo, lo difendono
in maniera piuttosto ingenua, i socialisti invece, proponendosi di governarlo
con ponderatezza, ne frenano la caduta. Ed è per questo motivo che i comunisti
italiani videro nell’avvento del fascismo l’ultima mossa, marcatamente violenta
e reazionaria, di un capitalismo ormai agonizzante che stava per cadere; si
dovettero però ricredere nel momento in cui il fascismo si alleò con la Germania
di Hitler. Ma l’antipatia non è univoca: spesso, anche i socialisti hanno
nutrito una cordiale avversione per i comunisti e per le loro velleità
rivoluzionarie. Come prova lampante di questa asserzione, potremmo ricordare la
tragica repressione perpetrata in Germania, nel 1919, dai socialisti ai danni
dei comunisti della “Lega di Spartaco”: essa si concluse in un bagno di sangue e
persero la vita, tra gli altri, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, barbaramente
trucidati. Che i socialisti guardassero con sospetto alla volontà comunista di
sopprimere la società borghese è anche testimoniato dalle vicende italiane degli
anni ’20 del Novecento: quando, all’indomani del feroce assassinio del leader
socialista Giacomo Matteotti, tutti i partiti di opposizione al fascismo
abbandonarono il parlamento e si ritirarono, in segno di protesta,
sull’Aventino, di fronte alle pressanti richieste dei comunisti di scendere
sulle piazze per abbattere, finchè si era ancora in tempo, il regime fascista, i
socialisti e i liberali preferirono restare arroccati sull’Aventino a proseguire
la loro opposizione puramente formale, poiché temevano vivamente che dal
fascismo si sarebbe potuti passare al comunismo di ispirazione sovietica. A tal
proposito, sul giornale socialista “Giustizia” si potè testualmente leggere: “
noi non vogliamo mettere in movimento le masse perché quando sono scatenate
non si è sicuri se si fermeranno a Kerenskij, andranno sino a Lenin o
oltrepasseranno anche Lenin ” Dopo aver delineato le motivazioni che fanno
del socialismo e del comunismo due movimenti se non del tutto inconciliabili,
per lo meno molto distanti, è bene chiedersi come sia nata tale divergenza di
prospettive. In realtà, essa, latente o manifesta a seconda dei casi, è sempre
esistita e si spiega con la fondazione, nel 1875, del Partito della
Socialdemocrazia tedesca (SPD): esso nacque, con il congresso di Gotha, dalla
fusione di due correnti dalle idee alquanto contrastanti. Da una parte, vi era
infatti l’ala marxista, rappresentata da Marx ed Engels in persona, che trovava
nella rivoluzione e nell’abbattimento del sistema capitalistico i suoi princìpi
ispiratori; dall’altra parte, vi era una corrente che trovava in Lassalle il suo
maggior rappresentante e che, piuttosto che sulla rivoluzione, faceva leva su
una tenace battaglia parlamentare ed era anche disponibile a scendere a
compromessi con le frange più reazionarie pur di scalzare i borghesi dalla loro
posizione egemonica (Lassalle stesso intrattenne una fitta corrispondenza
epistolare con Bismarck, l’antidemocratico e reazionario cancelliere tedesco che
aveva portato alle stelle il militarismo più fervente). Marx non esitò, fin da
principio, a mettere alla berlina la posizione lassalliana, criticandone
soprattutto l’inattualità dell’alleanza coi ceti reazionari che essa si
proponeva al fine di neutralizzare i borghesi: allearsi con l’aristocrazia per
spazzar via la borghesia altro non era, secondo Marx, che fare un salto indietro
in quel passato in cui a dominare la società era l’aristocrazia. Viceversa,
sosteneva Marx, il merito della borghesia era stato quello di distruggere con la
Rivoluzione francese quei residui aristocratici che inquinavano l’era moderna e
di aver aperto la strada al moderno scontro di classe tra borghesi e proletari.
Quest’opposizione di idee non impedì però la fusione dei due movimenti
(lassalliano + marxiano) in un sol partito, la SPD, che visse fin dall’inizio in
un’invalicabile ambiguità: si doveva aspirare alla rivoluzione, secondo i
princìpi di matrice marxiana, o ci si doveva limitare al riformismo, cercando di
far passare leggi che fossero favorevoli alla classe operaia, come invece
suggerivano le tesi lassalliane? Marx si accorse subito del paradosso e scagliò
i suoi velenosi strali (nell’opera “Critica del programma di Gotha”) all’appena
nato partito, sottolineando l’assurdità dell’ambiguità poc’anzi tratteggiata e
avanzando la tesi che prima o poi il problema sarebbe dovuto esplodere. E Marx
aveva ragione: dopo la sua morte, la situazione all’interno della SPD non tardò
a degenerare, a tal punto che non si fu più in grado di tenere le varie correnti
che la costituivano. Come inevitabile conseguenza, si andò incontro ad u rapido
scorpamento del partito: vi fu chi, come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, si
sganciò dalla SPD perché, fedele fino in fondo all’ideologia marxista, non volle
rinunciare alla prospettiva rivoluzionaria e alla nuova società che ne sarebbe
scaturita; vi fu poi chi, come Bernstein, arrivò a sostenere l’esigenza
impellente di revisionare la dottrina marxista (anche perché le profezie di Marx
sembravano ogni giorno più lontane dal concretizzarsi), espungendo la
possibilità di una rivoluzione. In “I presupposti del socialismo e i compiti
della socialdemocrazia” Bernstein afferma che la rivoluzione altro non è se
un’idea, nel senso kantiano del termine, ovvero è un modello da imitare pur
nella consapevolezza che resterà sempre irrealizzabile. Infine, vi fu uno stuolo
di pensatori, capeggiato da Bebel e da Kautsky, presso i quali continuava a
sopravvivere la convinzione dell’assoluta necessità della rivoluzione, ma che di
fatto continuavano ad operare pragmaticamente nella vita sociale e politica (e
per questo motivo furono detti “ortodossi”), poiché, sulle orme dell’ultimo
Engels, concepivano la rivoluzione come una spallata finale al sistema
capitalistico. Dalle posizioni dei “revisionisti” muoveranno quelli che siamo
soliti definire “socialisti”, mentre da quelle dei “rivoluzionari” prenderanno
spunto i “comunisti”. Similmente, verso la fine dell’Ottocento e il principio
del Novecento, maturavano in Russia, con impeto sempre maggiore, i fermenti
rivoluzionari e la soluzione prospettata dai bolscevichi (così detti perché
maggioritari all’interno del partito) si scontravano apertamente con quelle dei
menscevichi (minoritari nel partito): i primi, sulla scia del marxismo più
coerente, si sbizzarrivano in celebrazioni fantastiche della rivoluzione, i
secondi guardavano con simpatia alla SPD tedesca che andava sempre più
incanalandosi in posizioni riformiste. Il fronte sul versante di Sinistra, in
Russia, era ulteriormente frammentato dalla presenza di un terzo movimento (i
“social-rivoluzionari”), il cui consenso poggiava soprattutto sul mondo
contadino, e se alla fine, con la Rivoluzione russa, prevalsero i bolscevichi fu
soprattutto in virtù del fatto che in quel Paese spazio per la democrazia non ce
n’era e lo zarismo soffocava senza mezzi termini ogni forma di organizzazione
anche lontanamente “sovversiva”, rendendo in tal modo impossibile una
prospettiva riformista. E i bolscevichi sono quelli che comunemente
identifichiamo con i comunisti, mentre i menscevichi rappresentano quelli che
siamo soliti definire socialisti. Per concludere questa carrellata di
avvenimenti e di motivazioni per cui i comunisti e i socialisti si sono
allontanati, si può ricordare come anche in Italia si siano sentiti gli influssi
di quei dibattiti teorici che avevano portato un po’ in tutta Europa alla
spaccatura tra i due movimenti: e fu sull’onda di tali tensioni che, nel 1921,
con il Congresso di Livorno, i comunisti italiani si staccarono dal partito
socialista.
LE PREVISIONI DI MARX NON
SI SONO AVVERATE?
Marx aveva profeticamente pronosticato che la società avrebbe
ineluttabilmente sempre più assunto le sembianze di una piramide al cui vertice
vi sarebbe stato un ristretto numero di individui ricchi e alla cui base,
invece, una miriade di operai diseredati e destinati a vivere in condizioni di
povertà insostenibile. Il fatto che lo sviluppo delle forze produttive stesse
crescendo, ma al tempo stesso non accennasse a diminuire la miseria del
proletariato, appariva a Marx, insieme ad un' accresciuta coscienza di classe da
parte degli operai, la condizione per il sovvertimento dell'assetto
capitalistico e la transizione ad una nuova formazione economico-sociale. Il
pensatore tedesco era pervenuto a queste conclusioni basandosi sul fatto che,
con il sopravvento delle macchine e del lavoro dequalificato tipico della realtà
industriale, gli strati del ceto medio costituenti la borghesia sarebbero
gradualmente scivolati ad ingrossare le fila del proletariato. Con il senno di
poi, si può essere indotti a pensare che l'analisi marxiana, secondo la quale la
società sarebbe andata sempre più polarizzandosi al punto da far esplodere la
rivoluzione, non si sia avverata (e anche con la Rivoluzione russa il sistema
capitalistico ha scricchiolato senza però cedere): infatti, dopo la morte di
Marx, si è affermata una sempre più variegata composizione sociale, tant'è che
la società si è dimostrata rappresentabile non già a forma piramidale (come
credeva Marx), ma a forma romboidale. Non è vero, cioè, che ci sono pochissimi
ricchi al vertice, pochi borghesi nel mezzo e una miriade di poveracci alla
base; al contrario, vi sono pochi ricchi al vertice, pochi poveri al fondo, e
una caterva di borghesi che occupano la parte centrale. La teoria marxiana
sembra dunque aver clamorosamente fallito ma, in realtà, i marxisti più
ferventi, sono riusciti a correre ai ripari, cercando di sostenere che la
polarizzazione, contrariamente a quel che sembrerebbe, c'è stata. Si fa infatti
notare che gli operai di oggi vivono senz'altro meglio rispetto a quelli di
duecento anni fa, ma ciononostante il reddito medio dell'operaio di oggi è di
gran lunga più distante da quello del capitalista rispetto a quanto non fosse
per gli operai del passato. In altri termini, l'operaio oggi sta meglio di
duecento anni fa, ma in sostanza il divario con il capitalista si è accentuato:
si è cioè aperta nettamente la forbice tra il guadagno dell’operaio e quello del
“padrone”. E bisogna poi tenere in considerazione il fatto che, nell'ottica
marxiana, il capitalismo è un fenomeno mondiale, che con l'età dell'imperialismo
si spinge ad invadere l'intero pianeta. Dunque, se ragioniamo sul piano
mondiale, la distanza tra ricchi e poveri è sicuramente cresciuta, come aveva
previsto Marx; semmai, si può notare che è cambiato il fronte della lotta di
classe, ovvero il confine tra sfruttati e sfruttatori non è più tra operai e
capitalisti dell'evoluta società europea, ma fra abitanti dei Paesi ricchi
(operai compresi) e abitanti dei Paesi poveri, il che significa che oggi anche
l'operaio europeo sta dalla parte dei capitalisti che sfruttano il terzo mondo,
giacchè acquista e vive grazie al benessere acquisito sulle spalle dei Paesi
poveri. Ne consegue un progressivo depotenziamento della spinta rivoluzionaria
del proletariato europeo, in quanto anch'esso siede al tavolo degli sfruttatori
del "mondo civile", pur accontentandosi delle sole briciole. Dunque la carica
rivoluzionaria in ambito europeo si è attenuata nella misura in cui i proletari
prendono parte alla spartizione dei beni del terzo mondo, sentendosi appagati e
dimenticandosi della rivoluzione esaltata da Marx. Naturalmente questo tentativo
di difendere il marxismo dall'accusa che, almeno in apparenza, la polarizzazione
profetizzata da Marx non c'è stata, spiegando che in realtà c'è stata ma in modo
diverso dal previsto, poteva costituire per Popper un fulgido esempio di teoria
non scientifica perchè non falsificabile. Infatti, la teoria della
polarizzazione è il classico esempio di teoria non falsificabile, poichè si può
sempre trovare il modo di rispondere a qualsiasi obiezione le venga mossa: e una
teoria, dice Popper, è scientifica non quando è verificabile, ovvero quando può
appellarsi a dati di fatto che la avvalorino, poichè altrimenti anche la teoria
secondo la quale Dio esiste potrebbe essere scientifica, in quanto provata da
molteplici dati di fatto. Viceversa, una teoria può dirsi scientifica, prosegue
Popper, se è falsicabile, ovvero se vi sono dati di fatto che possono smentirla:
la teoria galileiana della caduta dei gravi è scientifica perchè sarebbe potuta
essere smentita dai dati di fatto. Il marxismo, dal canto suo, non è agli occhi
di Popper una teoria scientifica (come invece vuole presentarla Marx) perché di
fronte ad ogni critica o accusa può sempre essere in qualche maniera aggiustata.
Marx sembra dunque, entro certi limiti, aver sbagliato, anche se egli sapeva
benissimo che la società tende sempre a generare nuovi ceti medi: tuttavia, era
convinto che il processo ai suoi tempi in atto creasse sì nuovi ceti medi, ma ne
smantellasse, in misura notevolmente maggiore, di vecchi, sicchè sarebbero stati
più i ceti medi a sparire che non a nascere. E il pensatore tedesco aveva
soprattutto in mente i contadini e gli operai, che, di fronte alla tecnologia
pulsante delle fabbriche, erano costretti a soccombere e a finire nelle
compagini del proletariato. E qui si può effettivamente sostenere che le
convinzioni marxiane fossero parzialmente sbagliate: il ceto medio è cresciuto
esponenzialmente; certo, i vecchi ceti medi sono, per lo più, spariti, ma quelli
nuovi sono cresciuti in modo ragguardevole, contro ogni aspettativa marxiana.
L’errore di Marx nasce dal fatto che egli, nella foga del suo materialismo
storico, ha finito per dare troppo peso all’economia (che infatti spingeva verso
la scomparsa dei piccoli borghesi) e non ha preventivato che la politica potesse
frenare l’inarrestabile crisi dei ceti medi: e infatti nel Novecento,
soprattutto negli anni successivi alla grande crisi del ’29, saranno sempre più
frequenti le scelte politiche che tenderanno ad evitare il decadimento dei ceti
medi; il fascismo e il nazismo, ad esempio, faranno di tutto per salvarli,
proprio perché ne erano espressione politica. La politica prevalente negli anni
’30 del Novecento sarà dunque, in generale, volta a mantenere in vita i ceti
medi perché essi costituivano un irrinunciabile serbatoio di consensi.
PERCHE’ LA RIVOLUZIONE
PROPRIO IN RUSSIA?
Perché la rivoluzione tanto agognata dai comunisti di tutto
il mondo doveva esplodere in una realtà così arretrata e periferica come la
Russia del 1917? Perché la sovversione del sistema capitalistico doveva avvenire
in un Paese che ne era quasi del tutto sprovvisto e in cui la stragrande
maggioranza della popolazione era dedita ad attività agricole, lungi dal
coinvolgimento in attività industriali di qualsiasi genere? Queste domande
mettono bene in evidenza la stranezza che sta apparentemente alla base della
Rivoluzione russa, quello che forse era il Paese più arretrato d’Europa e in cui
lo sviluppo industriale non aveva ancora avuto modo di penetrare in maniera
massiccia o, per lo meno, paragonabile alla vicina Germania, dotata di un
proletariato all’avanguardia con una vivissima coscienza di classe. E, come
aveva insegnato Marx, perché potesse esservi una rivoluzione operaia occorreva
prima instaurare un apparato industriale dal quale potesse muovere i suoi passi
un moderno proletariato in grado di abbattere il sistema capitalistico: la
rivoluzione proletaria si sarebbe dunque dovuta configurare come figlia e
parricida del capitalismo. Ma in Russia, a differenza della moderna Germania,
mancavano entrambe le cose. E i menscevichi intendevano appunto, in piena
sintonia con i princìpi marxisti, aspettare che si sviluppasse un sistema
capitalistico avanzato prima di lanciare la parola d’ordine della rivoluzione ed
erano comunque convinti che la rivoluzione operaia avrebbe avuto il suo
epicentro in Germania. Di tutt’altro avviso erano i bolscevichi, che volevano un
passaggio diretto dalla guerra mondiale che stava in quegli anni sconvolgendo
l’Europa alla rivoluzione proletaria in Russia, bruciando la tappa dello
sviluppo industriale e saltando direttamente dall’arretratezza contadina (la
servitù della gleba era stata abolita solo nel 1861) alla modernità di un regime
comunista. E questo non era il solo aspetto in aperto contrasto con le tesi
marxiste: i bolscevichi, infatti, erano anche favorevoli ad una riforma agraria
che redistribuisse ai contadini le terre; quest’idea bolscevica, però, era molto
più vicina alle tesi borghesi affiorate già con la Rivoluzione francese che non
ai princìpi marxisti secondo cui la terra non deve essere redistribuita, ma
collettivizzata. Perché dunque i bolscevichi seguirono una linea divergente da
quella tracciata a suo tempo dal padre del marxismo? Tutto si spiega se teniamo
presente che la situazione russa era estremamente arretrata e diversa rispetto a
quella in cui aveva operato Marx: e il merito dei bolscevichi risiede appunto
nell’aver adattato le tesi marxiste alla particolarissima situazione russa,
dando un grande peso (che Marx non aveva mai dato) ai contadini per poterne così
conquistare la piena fiducia. Il programma bolscevico, in origine, era molto
semplice: bloccare la guerra ed effettuare la riforma agraria. Intanto, lo zar
aveva abdicato e il potere era stato raccolto dal partito di ispirazione
liberale: si trattava però di un potere instabile, poiché il nuovo governo
gestiva un potere che non si era conquistato e pertanto le leggi che varava
venivano applicate solamente se i soviet (i consigli operai) erano d’accordo. In
questa paradossale ambiguità di potere caratterizzata da un governo
semiesautorato, si innestò la riflessione di quello che fu il leader e l’eroe
della Rivoluzione russa: Lenin. Tornato in Russia dall’esilio svizzero nel 1917,
godendo dell’appoggio del governo tedesco, che ha astutamente capito che nel
partito bolscevico (favorevole alla pace) può sperare una breve uscita della
Russia dallo scacchiere bellico., Lenin trova un partito bolscevico dalle idee
confuse e decide di stabilizzarlo sfruttando la propria abilità di teorico
marxista. Ed è per questo che egli pubblica le celeberrime “Tesi d’aprile”. In
esse si affrontano molti dei problemi che travagliavano la Russia: in primo
luogo, come effettuare una rivoluzione in un paese tanto arretrato quale era la
Russia. Secondo Lenin, urgeva una rivoluzione immediata, senza passare per il
capitalismo, il che sembra assurdo poiché non ha senso fare la rivoluzione
socialista in un paese dove non c’è il capitalismo. Ma Lenin sosteneva
l’esigenza della rivoluzione proprio per questo: in un paese che di più
arretrati non ce n’erano, non aveva senso alcuno che a governare fosse la
borghesia. Ne venne fuori una situazione paradossale, in disaccordo con le
previsioni di Marx: la piena industrializzazione russa doveva essere gestita non
dalla borghesia (come era avvenuto in tutti i paesi europei), bensì dal
proletariato. Lenin ci tiene a precisare che il capitalismo non è un fatto di un
singolo paese, bensì è un processo di portata mondiale, sicchè non ci si deve
aspettare la rivoluzione da paesi capitalisticamente progrediti (quali la
Germania o l’Inghilterra), ma dal più arretrato e feudale di tutti (la Russia
appunto), poiché essa è “ l’anello debole ” della catena del capitalismo
mondiale. La rivoluzione sarebbe dunque divampata in Russia (il paese più
arretrato) per poi coinvolgere l’intero mondo, trovando il suo epicentro in
paesi progrediti quali la Germania o l’Inghilterra: non è dunque corretto
parlare di tante e singole rivoluzioni, bensì vi è una sola grande rivoluzione,
destinata ad abbattere l’unico capitalismo che infesta il mondo. E del resto,
notava Lenin, se la rivoluzione avesse attecchito solo in Russia, una volta
terminata la guerra, le grandi potenze reazionarie europee si sarebbero
coalizzate per estinguerla brutalmente. Questo ci permette di capire come il
Lenin delle Tesi d’aprile avesse in mente un’idea che verrà poi meglio
esplicitata da Trotsky : l’idea di ‘rivoluzione permanente’, che altro non era
che la convinzione che la rivoluzione dovesse svilupparsi in tutto il mondo per
annientare in esso il capitalismo. Una delle grandi novità proposte da Lenin
nelle Tesi d’aprile fu la parola d’ordine “ tutto il potere ai soviet ”:
aveva dichiarato aperta ostilità al governo provvisorio di Kerenskij, in nome
della lotta intransigente contro la guerra, definita come imperialista
indipendentemente dall’assetto politico del paese e aveva espresso la volontà di
trasformare il partito di forza minoritaria in forza di maggioranza, guida di
una nuova rivoluzione, quella appunto destinata a conseguire il potere ai
soviet. Una parola d’ordine che comportava il massimo di democrazia diretta e di
autogoverno per le masse popolari veniva così sostenuta attraverso l’esaltazione
del ruolo del partito, posto implicitamente al di sopra delle masse stesse, alle
quali doveva insegnare a vincere. L’iniziativa spontanea delle masse, che aveva
portato ai soviet (Lenin riconobbe sempre il carattere spontaneo delle nuove
organizzazioni), doveva assoggettarsi alla direzione del partito: le masse
potevano sbagliare, anzi il loro cammino era disseminato di errori, mentre il
partito era infallibile. La concezione di Lenin sulla rivoluzione era nettamente
diversa da quella di tutte le altre forze socialiste, poiché infatti Lenin, come
accennavamo, voleva arrivare immediatamente al regime socialista, senza passare
per il capitalismo. In una delle prime Tesi d’aprile egli dice che “
l’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla
prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa
dell’insufficiente grado di coscienza del proletariato alla seconda fase che
deve dare il potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini
”. Lenin voleva arrivare al socialismo bruciando le tappe del capitalismo per
diversi motivi: uno di questi consisteva nella convinzione che la guerra avesse
creato una crisi profonda degli equilibri politici e dei rapporti di forza nella
società in tutta Europa. La Russia sarebbe stato il punto di partenza della
rivoluzione che avrebbe presto (secondo Lenin) raggiunto tutto il pianeta
proprio perché essa era l’anello debole della catena imperialista, ovvero era il
paese in cui il rovesciamento del potere esistente era più facile e rapido.
Questa tesi era già stata sostenuta con grande precisione da Lenin, nel marzo
1917, dall’esilio svizzero: “ la Russia è un paese contadino, uno dei paesi
più arretrati d’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e
immediatamente. Ma il carattere contadino del paese […] può dare alla
rivoluzione democratica borghese in Russia un’ampiezza formidabile e far sì che
la nostra rivoluzione sia il prologo della rivoluzione socialista mondiale, sia
un passo verso di essa ”. Giocava poi a favore della Russia un altro
fattore, notava Lenin: la rivoluzione in Russia non avrebbe assunto il carattere
di rivoluzione proletaria (come nel resto d’Europa), non sarebbe cioè stata una
ribellione di una sola classe sociale (gli operai), ma della stragrande
maggioranza della società (operai e contadini), all’interno della quale il
partito bolscevico doveva avere un ruolo di guida. Considerando il nuovo stato
come il potere della stragrande maggioranza del popolo, contrapposto ad
un’esigua minoranza (sia pure la minoranza degli ex privilegiati), Lenin vedeva
nel parlamentarismo un inutile orpello, reso oltre tutto antiquato dalle
trasformazioni politiche in tutto il mondo. La formula “ dittatura
democratica degli operai e dei contadini ” riassumeva bene il concetto: si
sarebbe dovuto trattare di una dittatura, poiché non avrebbe lasciato alla
minoranza borghese e aristocratica il diritto di opporsi, ma democratica poiché
avrebbe comunque rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione. Di
questa dittatura democratica i soviet sarebbero stati la migliore espressione ed
è per questo che nelle “Tesi d’aprile” campeggia il motto ‘il potere ai soviet’.
E quando Lenin dice che bisogna conferire tutto il potere ai soviet, intende
soprattutto dire che è opportuno uscire, il più presto possibile, da quella
strana ambiguità di potere per cui il potere effettivo è in mano al governo
democratico-liberale ma senza il consenso dei soviet non può fare nulla. La
soluzione arriverà quando i bolscevichi attueranno la Presa del Palazzo
d’Inverno, attuando così la Rivoluzione russa vera e propria. Tuttavia l’idea
leniniana di estendere la rivoluzione all’intera Europa e, successivamente,
all’intero pianeta, sembrò sempre più sfumare: dopo i gloriosi anni che vanno
dal 1918 al 1920 e che si connotano per un acceso fervore rivoluzionario su
scala europea, la situazione precipitò nel momento in cui vi fu un brusco
riflusso reazionario che dissipò ogni velleità rivoluzionaria e permise
l’affermarsi di governi spiccatamente autoritari, tra cui il fascismo e,
successivamente, il nazismo. Dopo che Lenin fu morto, nel 1924, le problematiche
della rivoluzione furono ereditate dai suoi successori: in particolare, scoppiò
un vivacissimo dibattito tra chi sosteneva, come Trotzky, che la rivoluzione,
per non morire, dovesse assolutamente coinvolgere il resto del mondo e chi, come
Stalin, propugnava l’idea del “socialismo in solo Paese”. Alla fine prevalsero
le posizioni staliniane e l’Unione Sovietica, da quel momento in poi, rimase
isolata dal resto del mondo e ripiegò sempre più verso una dittatura.
PERCHE' IL MATERIALISMO?
Perché il marxismo aderisce alle tesi materialistiche e
respinge quelle idealistiche? Marx ed Engels, all’inizio della loro formazione
filosofica, abbracciarono entrambi l’idealismo hegeliano all’epoca imperante. In
particolare, si accostarono alla Sinistra hegeliana, particolarmente attenta
alla realtà concreta e propensa a concepire la filosofia come critica razionale
della situazione esistente. Mostrando l'inadeguatezza della realtà rispetto a
ciò che é razionale, la teoria diventa prassi che migliora la situazione reale
esistente. Nella sua tesi di laurea sulla “Differenza tra la filosofia della
natura di Democrito e quella di Epicuro” (1841), Marx interpreta la situazione
della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie
ellenistiche dopo Platone e Aristotele, chiedendosi se sia possibile un nuovo
cominciamento filosofico dopo il compimento della filosofia nelle grandi sintesi
sistematiche. Dopo Hegel, la filosofia riprende la sua funzione illuministica di
critica della realtà; così come, dopo Aristotele, Epicuro, “ il più grande
illuminista greco ”, aveva portato fino in fondo la critica della religione,
combattuto il fatalismo e rivendicato la libertà dell'autocoscienza umana; Marx,
in piena sintonia con la Sinistra hegeliana, è ancora pienamente convinto che le
idee possano mutare la realtà. Verso la fine del 1843, però, egli si convince
che per modificare la realtà occorre la forza, ma considera la teoria anch’essa
una forza, quando s’impadronisce delle masse: “ l’arma della critica non può
sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere abbattuta per
mezzo della forza materiale, ma la teoria diventa, essa pure, una forza
materiale, quando s’impadronisce delle masse ”. Già dalla tesi di laurea,
tuttavia, traspare un marcato interessamento per il materialismo, simboleggiato
appunto dalle personalità di Democrito e di Epicuro; nello stesso tempo, però,
com'egli stesso afferma, non riesce a passare indenne dalle ammalianti sirene
dell'hegelismo: e la sfera materialistica convive in Marx con quella
idealistica, tant'è che egli si propone come sintesi delle due tradizioni. Dalla
concezione materialistica desume la convinzione che l'elemento di base della
realtà sia la materia, da quella idealistica, invece, mutua il procedimento
dialettico elaborato da Hegel. Marx nota infatti, con straordinaria acutezza,
come il limite di ogni materialismo sia sempre stata la scarsa attenzione
rivolta alla storia, attenzione che invece è centrale nella filosofia hegeliana:
ed è per questo che il pensatore di Treviri intende prendere il meglio dal
materialismo e dall'hegelismo, scartando invece quegli aspetti ritenuti
inadeguati. E mettendo insieme le due teorie, così diverse tra loro, nasce un
ibrido esplosivo: un materialismo letto in chiave storica e dialettica , con il
quale Marx dà una giusta sistemazione alla dialettica hegeliana, facendola
poggiare dove è giusto che poggi. Hegel ha infatti avuto il merito di elaborare
il celebre procedimento dialettico (tesi, antitesi, sintesi), ma la dialettica
da lui intesa è una dialettica capovolta, che poggia sulla testa, ovvero sulle
idee: e Marx, mantenendola invariata ma basandola sulla materia, la fa poggiare
sui piedi, ponendo fine al suo stare a testa in giù. Come abbiamo detto, Marx
muove i suoi primi passi nel contesto della Sinistra hegeliana, costituita da
quei sostenitori di Hegel che del suo pensiero privilegiavano la faccia
rivoluzionaria, convinti cioè che fosse opportuno realizzare anche in modo
rivoluzionario ciò che si configurava come giusto e frutto di una certa
razionalità. Ed è per questo che il giovane Marx, durante la sua provvisoria
adesione alla Sinistra hegeliana, vede nell'hegelismo uno sforzo per cambiare la
realtà verso un ampliamento dei diritti politici in senso democratico-borghese.
In un secondo tempo, però, (dal 1843 in poi) si accorge dell’impotenza delle
idee rsipetto alla materialità e ipotizza un vero e proprio capovolgimento
dialettico, poichè è convinto che con una semplice trasformazione dialettica di
idee non si possa cambiare la realtà (come invece credeva la Sinistra), ma al
contrario è cambiando dialetticamente la realtà, ovvero passando dalle “ armi
della critica ” alla “ critica delle armi ”, che cambiano anche le
idee ed è proprio questo il succo del materialismo marxiano: “ per sopprimere
il pensiero della proprietà privata è del tutto sufficiente il comunismo
pensato; per sopprimere la proprietà privata effettiva, reale, occorre una
effettiva, reale azione comunista ” . Se la dialettica tratteggiata da Hegel
era una dialettica di idee, che si svolgeva precipuamente sulle pagine dei
libri, la dialettica di Marx, viceversa, poggia sulla realtà materiale e si
svolge nelle piazze come rovesciamento rivoluzionario della situazione
materiale: non si tratta di cambiare le idee affinchè cambi la realtà, ma di
cambiare la realtà perché cambino anche le idee. Come già accennato, si tratta
di un materialismo storico, ovvero di una sintesi tra il materialismo di
Feuerbach e la storicità di Hegel. Ciò implica che per Marx la realtà
fondamentale sia quella materiale, rispetto alla quale tutte le altre sono
derivate: le idee esistono, ma sono derivate dalla materia ed è per questo che
ad essa sono subordinate. Il presupposto di tale dottrina consiste nel fatto che
la storia sia governata essenzialmente da fattori materiali e che questi fattori
siano di carattere economico, cosicchè la storia è basata sull'economia, mentre
tutto il resto (rapporti politici, giuridici, arte, religione, ecc) costituisce
elementi sovrastrutturali. La struttura della realtà, pertanto, è la materialità
economico-sociale e tutto il resto è una sovrastruttura ideologica: a tal
proposito Marx può affermare, in opposizione alle idee di Hegel e della
Sinistra, che " non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che
determina la coscienza ", o, come asserisce nel “Capitale”, “ il movimento
del pensiero non è che il riflesso del movimento reale, trasportato e
trasformato nel cervello dell'uomo ”; non sono cioè le idee a cambiare la
realtà, ma è la realtà stessa a cambiare le idee. In questa prospettiva occorre
affrontare il problema del rapporto tra struttura e sovrastruttura: alcuni
interpreti del marxismo hanno letto, forzando un pò il pensiero marxiano, tale
rapporto come meccanico, per cui la struttura dovrebbe determinare in modo
meccanico e deterministico la sovrastruttura; ne consegue l'inevitabilità di ciò
che avviene e questo servì a molti marxisti (tra cui Engels) per dilazionare nel
tempo il momento dello scoppio della rivoluzione, come a dire che il capitalismo
dovrà inevitabilmente cadere prima o poi perchè le condizioni
economico-materiali portano inevitabilmente in quella direzione e pertanto non
bisogna scendere in piazza a fare la rivoluzione. Questa interpretazione, che,
propugnando un rigido meccanicismo, nega ogni forma di libertà all'uomo, fu
adottata soprattutto dalla II Internazionale, ma in realtà è molto sganciata dal
pensiero di Marx: infatti, egli è convinto che, accanto al rapporto fondamentale
struttura-sovrastruttura, vi sia anche un effetto di rimbalzo per cui se è vero
che la vita determina le idee è anche vero che le idee non sono stagnanti, ma,
al contrario, possono trasformarsi in prassi. In altre parole, il fatto che il
proletariato maturi una coscienza di classe è sì dato dalle condizioni materiali
in cui vive, ma è poi necessario per far sì che esso scenda in piazza a fare la
rivoluzione: è necessario che il proletariato diventi in sè e per sè , ovvero
oltre a costituire un movimento (in sè) deve anche avere coscienza di
costituirlo (per sè). Il fatto di esserlo è un elemento strutturale, ma il fatto
di sapere di esserlo è strutturale, ossia ideologico: se lo fosse senza sapere
di esserlo (ovvero se ci fosse la struttura senza la sovrastruttura) non
potrebbe mai fare la rivoluzione. Dunque, è senz'altro vero e scientificamente
provato, dice Marx, che il capitalismo crollerà, ma è altrettanto vero che non
ci si deve limitare ad attendere inerti quel momento, bensì bisogna maturare una
coscienza di classe che porti il movimento proletario a decidere di abbattere il
capitalismo. Marx introduce i concetti di forze produttive e rapporti di
produzione : ogni società è caratterizzata da un insieme di capacità umane
(conoscenze, abilità, ecc) con le quali può sfruttare la natura e tali capacità
vanno appunto sotto il nome di forze produttive. Le forze produttive, aggiunge
Marx, si sviluppano sempre nell'ambito di rapporti di produzione, ovvero in
determinati rapporti sociali (nell'ambito dei quali rientrano anche le ideologie
e, più in generale, le sovrastrutture): vi sono così state età in cui le forze
produttive si sono sviluppate nell'ambito dello schiavismo e del servilismo,
fino a giungere all'era capitalistica. E i rapporti di produzione vengono
determinati dalla forza di produzione caratteristica di quello specifico momento
storico: nell'antichità regnava lo schiavismo perchè in quel momento tale
rapporto di produzione era il migliore che ci potesse essere per sfruttare in
modo ottimale le forze produttive. Ogni forza produttiva, dunque, si dà il suo
rapporto di produzione, sicchè questi ultimi rispecchiano e sono sempre
funzionali alle forze produttive. Tuttavia, può succedere che all'interno di
questo schema generale lo sviluppo vada avanti con eccessiva rapidità e ci si
trovi in una condizione in cui i livelli di rapporti produttivi si trovano
indietro rispetto alle nuove forze produttive emerse a tal punto da rivelarsi
inadeguati: come se le forze produttive si trovassero ingabbiate in rapporti
produttivi che impediscono loro di svilupparsi al meglio. Infatti, le forze
produttive, proprio perchè hanno generarato esse stesse i rapporti produttivi
per potersi sviluppare al meglio, funzionano fin troppo bene e progrediscono con
gran rapidità mentre i rapporti restano immutati e si rivelano pertanto inadatti
per il giusto sviluppo delle nuove forze sviluppatesi. Un'immagine che può
chiarire cosa intendesse Marx può essere quella, di forte sapore hegeliano, del
guscio: è quasi come se i rapporti produttivi fossero il guscio sociale dentro
al quale si sviluppano le forze produttive; quando però si sono sviluppate,
arriva il momento di spaccare il guscio e di prorompere all'esterno e per far
ciò occorre la rivoluzione, intesa come capovolgimento dialettico in chiave
materialistica. Quando i rapporti produttivi si rivelano ormai inadeguati alle
nuove forze produttive, giunge il momento di far saltare tali rapporti con la
rivoluzione: ed è quel che è accaduto in Francia, quando la borghesia, che si
sentiva ingabbiata da rapporti sociali e ideologici che ne frenavano lo
sviluppo, è scesa in piazza a fare la rivoluzione. Abbiam detto che le idee sono
un derivato delle condizioni materiali in cui l’uomo vive: ma, più nel
dettaglio, come nascono? Scrive Labriola in merito: “ le idee non cascano dal
cielo, e anzi, come ogni altro prodotto dell'attività umana, si formano in date
circostanze, in tale precisa maturità di tempi, per l'azione di determinati
bisogni, e pei reiterati tentativi di dare a questi soddisfazione, e col
ritrovamento di tali o tali altri mezzi di prova, che sono come gl'istrumenti
della produzione ed elaborazione loro. Anche le idee suppongono un terreno di
condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch'esso una
forma del lavoro. Spostare quelle e questo ossia, le idee ed il pensiero, dalle
condizioni e dall'ambito di lor proprio nascimento e sviluppo, gli è svisarne la
natura e il significato ” (“Del materialismo storico”). Anche Marx, come i
colleghi della Sinistra hegeliana, accetta l'idea di una democrazia socialista,
pur restando sempre molto vago sul futuro del socialismo, ma comunque sui regimi
liberal-democratici ha un'idea molto chiara, di netta ispirazione dialettica. Il
processo evolutivo non è lineare, non si passa cioè dal liberalismo alla
democrazia e, infine, al socialismo; al contrario, si tratta di un vero e
proprio processo, in cui vi è una tesi, un'antitesi e una sintesi, sicchè il
socialismo non può essere concepito come una tranquilla trasformazione del
liberalismo e della democrazia, ma come drastico e violento capovolgimento di
essi. Ne consegue che se per un socialista riformista malgrado ci sia la
democrazia il socialismo, come tappa successiva, non c'è ancora, per Marx invece
il socialismo non c'è proprio grazie al fatto che c'è il regime
liberal-democratico, condizione politica dell'esistenza del capitalismo: fin
tanto che ci saranno la democrazia e il liberalismo non potrà esserci il
socialismo, dice Marx, il quale arriverà solo in seguito dell'abbattimento di
entrambi; il regime liberal-democratico, infatti, è la negazione stessa di ogni
socialismo e anzi, in quanto condizione di esistenza del capitalismo,
rappresenta una delle svariate forme in cui si è manifestato nel corso della
storia lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Che Marx abbia preso le distanze
dalla Sinistra hegeliana è anche attestato da una vicenda: in quegli quegli anni
in cui divampavano i moti rivoluzionari del dopo restaurazione, sorge il
problema dell'emancipazione degli Ebrei, fino ad allora privi di diritti pari
agli altri cittadini. Se la Sinistra hegeliana si era scatenata in scritti a
favore dell'emancipazione ebraica, Marx, interessato direttamente in quanto
ebreo, interviene in modo piuttosto originale, sostenendo che il vero problema
da porsi è la trasformazione radicale e rivoluzionaria della realtà in modo tale
che perda di significato ogni differenza basata sulla religione: il problema
consiste nell'abolire, più che la religione, le condizioni storiche che la
rendono possibile. Come per Hegel, anche per Marx la storia è un processo
dialettico, ma si tratta di una dialettica materiale: nel suo complesso, la
storia si articola in tre grandi tappe: comunismo primitivo, lotta di classe,
comunismo maturo. Ma quale è il motore della storia? Marx ed Engels propongono,
soprattutto nel “Manifesto del partito comunista”, la tesi secondo la quale il
motore della storia é la lotta tra le classi : “ a storia di ogni società è
stata finora la storia di lotte di classe .”' La posizione e missione
storica delle classi é determinata dalla loro collocazione all'interno di
specifici modi di produzione. La divisione del lavoro, da cui deriva la
proprietà privata, genera la disuguaglianza sociale e, quindi, i conflitti tra
interessi particolari e interesse collettivo, tra l'attività del singolo e il
potere di chi controlla questa attività: da ciò emerge la lotta di classe.
Quando ad un determinato grado di sviluppo della divisione del lavoro non
corrispondono più rapporti sociali adeguati, allora, come abbiamo già detto, la
relazione tra forze produttive e forme di cooperazione sociale entra in
'contraddizione' e si produce una crisi e una transizione rivoluzionaria ad un
diverso modo di produzione e al dominio di una nuova classe. Come spiega
Labriola in “Del materialismo storico”: “ la storia è il fatto dell’uomo, in
quanto che l’uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di lavoro, e con
tali istrumenti può crearsi un ambiente artificiale, il quale poi reagisce nei
suoi complicati effetti sopra di lui, e così com’è, e come via via si modifica,
è l’occasione e la condizione del suo sviluppo. Mancano per ciò tutte le ragioni
per ricondurre questo fatto dell’uomo, che è la storia, alla pura lotta per
l’esistenza; la quale, se raffina ed altera gli organi degli animali, e in date
circostanze e in dati modi occasiona il generarsi e lo svolgersi di organi
nuovi, non produce però quel moto continuativo, perfezionativo e tradizionale
che è il processo umano. Non c’è luogo qui, nella nostra dottrina, né a
confondersi col darwinismo, né a rievocare la concezione di una qualunque forma,
o mitica, o mistica, o metaforica di fatalismo. Perché, se è vero che la storia
poggia innanzi tutto su lo svolgimento della tecnica; e, cioè dire, se è vero,
che per effetto del successivo ritrovamento degli istrumenti si generarono le
successive spartizioni del lavoro, e con queste poi le disuguaglianze, nel cui
concorso più o meno stabile consiste il così detto organismo sociale, gli è
altrettanto vero che il ritrovamento di tali istrumenti è causa ed effetto ad un
tempo stesso di quelle condizioni e forme della vita interiore, che noi,
isolandole nella astrazione psicologica, chiamiamo fantasia, intelletto,
ragione, pensiero e cosi via. Producendo successivamente i vani ambienti
sociali, ossia i successivi terreni artificiali, l'uomo ha prodotto in pari
tempo le modificazioni di se stesso; e in ciò consiste il nocciolo serio, la
ragione concreta, il fondamento positivo di ciò che, per varie combinazioni
fantastiche e con varia architettura logica, dà luogo presso gli ideologisti
alla nozione del progresso dello spirito umano. ”
COME POTRA’ L’UOMO CESSARE
DI MIRARE AI PROPRI INTERESSI PERSONALI?
Con l'avvento della nuova società, nota Marx, si espanderà il
dominio dell'uomo sulla natura (e cesserà quello dell'uomo sull'uomo): con
l'estinguersi dello Stato, inoltre, sparirà anche la politica come gioco della
lotta di classe e si passerà al regno dell'anarchia, in cui manca lo Stato, ma
non il governo; è infatti impensabile una società in cui ciascuno faccia ciò che
gli pare, tanto più che anche solo per produrre del cibo che possa sfamare i
componenti di tale società è necessario prendere decisioni. Tuttavia, esse non
saranno decisioni politiche, poichè la politica implicherebbe un confronto di
interessi diversi a seconda della classe sociale in questione (cosa impossibile
in una società senza classi), ma, al contrario, non saranno a favore di certi
gruppi sociali e a discapito di altri, bensì saranno decisioni meramente
tecniche, alla stregua di quelle che vengono prese nelle aziende, in vista non
di una classe sociale ma del funzionamento ottimale dell'azienda stessa. Si
tratterà, in altri termini, di scelte collettive volte al bene della
collettività stessa: ne consegue che dall'amministrazione politica si passa a
quella tecnica. Ma come si può pensare che, con l’avvento della società
comunista, ogni singolo uomo cesserà di mirare esclusivamente ai propri
interessi personali e invece baderà a quelli dell’intera società? Non è forse
un’evidente ingenuità pensare che l’uomo possa estirpare dal proprio carattere
quell’egoismo che da sempre lo accompagna? A quest’obiezione Marx risponde
fieramente che l’uomo di cui egli sta parlando è l’uomo del futuro, radicalmente
diverso rispetto a quello ambientato nella società capitalistica, dove regna
quel liberalismo che fa sì che ciascuno persegua egoisticamente soltanto i
propri interessi, trascurando quelli altrui. A questo proposito, il pensatore
tedesco (in “Critica del programma di Gotha”) suddivide il passaggio
dall’attuale società a quella comunista in due tappe ed è il suo stesso
materialismo storico a spingerlo in quella direzione: dopo anni e anni che si è
vissuti nella società borghese, è evidente che le coscienze di tutti (operai
compresi) ne saranno influenzati, quasi come se avessero assimilato in cuor loro
il sistema capitalistico e la sua concezione di fondo secondo cui a ciascuno
bisogna dare a seconda dei meriti. Sarebbe dunque troppo brusco il passaggio
diretto al comunismo, dove non si dà più in base ai meriti, ma in base ai
bisogni: ecco allora che Marx pone come tappa centrale il socialismo, che del
capitalismo mantiene i princìpi (a ciascuno secondo i suoi meriti) e anzi li
realizza concretamente; solo con il passare degli anni potrà sempre più
affermarsi, gradualmente, il comunismo, basato sulla piena solidarietà. Più
nello specifico, Marx fa notare che, crollato il capitalismo, vi sarà una prima
fase di "socialismo" seguita da una seconda fase di "comunismo"; nella fase del
"socialismo" vigerà il motto “ a ciascuno secondo il suo lavoro ”,
ovvero, ridotto all'osso, il socialismo che scaturirà nell'immediato
post-capitalismo realizzerà ciò che il sistema capitalistico si era sempre
proposto di fare senza però mai riuscirci: ciascuno otterrà in base a quanto
avrà effettivamente lavorato e non come nel sistema capitalistico, dove
all'operaio che produce 10 viene dato in busta paga 3. Il socialismo della prima
fase si configurerà dunque come piena realizzazione di quella meritocrazia per
cui ciascuno guadagna in base a quanto produce; meritocrazia che nel capitalismo
era esaltata ma, con immensa ipocrisia, non veniva applicata. Naturalmente poi
una società, per essere davvero socialista, dovrà comunque soddisfare i bisogni
elementari di tutti, indipendentemente dal lavoro compiuto da ciascuno, ma ciò
non toglie che il merito dei singoli verrà premiato secondo giustizia; ecco
dunque che per Marx la società non deve essere egualitaria, ma giusta e una
società in cui tutti prendessero le stesse cose pur producendo chi più e chi
meno sarebbe ingiusta. Questa prima fase in cui imperererà il socialismo verrà
superata da quella del "comunismo", il cui motto sarà “ ciascuno secondo le
sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni ”: in tale società ciascuno
dà per quello che può e riceve in base a ciò di cui ha bisogno, il che implica
che una persona possa ricevere di meno rispetto a ciò che produce. Se nel
socialismo si dava a seconda dei meriti, nel comunismo, invece, si dà a seconda
dei bisogni, ma, ciononostante, neanche quella comunistica è una società
egualitaria, poichè, essendo intesa la ricchezza come un bene comune, ciascuno
darà alla società il proprio massimo, sapendo che a sua volta la società gli
darà tutto ciò di cui ha bisogno. Ci sarà chi darà di più e chi darà di meno, ma
ciascuno riceverà non in proporzione a ciò che ha dato (come avveniva nel
socialismo), ma in proporzione a ciò di cui ha bisogno. Viene però spontaneo
chiedersi che cosa può mai indurre una persona ad essere disponibile a dare di
più di quel che poi riceve: la risposta sta nel fatto che la nuova società sarà
senza classi e, pertanto, l'interesse dei singoli o delle parti sarà
indisgiungibile da quello della collettività. Il fatto che l’uomo di oggi sia
egoista e interessato esclusivamente ai propri interessi personali non dipende
dalla sua reale essenza, poiché, dice Marx, “ l’essenza umana non possiede
una realtà vera ”, bensì è connessa alle condizioni materiali in cui vive:
il vivere in una società che esalta il valore del singolo e del denaro e in cui
si è continuamente incitati a perseguire i propri interessi influenza
inevitabilmente la coscienza dell’uomo, riflettendosi su di essa. Quando si sarà
realizzata pienamente la società comunista, priva di divisioni in classi, e si
saranno sgretolati i princìpi che stanno alla base della società capitalistica,
allora anche le coscienze verranno influenzate dalla nuova situazione materiale
e verrà meno l’egoismo tipico dell’uomo del giorno d’oggi. Se ci pare assurdo,
oggi, pensare che l’uomo possa un giorno non badare ai propri interessi
personali e invece interessarsi di quelli altrui, è perché viviamo in una
società in cui regna l’egoismo e l’interesse personale. Al di là dell'obiezione
secondo la quale è impossibile che l'uomo cessi di badare, egoisticamente, al
proprio interesse, si è criticato il fatto che Marx, come tutti i pionieri che
scoprono qualcosa di importante, finisce per dare alla sua scoperta più peso di
quel che in realtà ne abbia. La grande scoperta marxiana in questione consiste
nell'aver colto l'importanza dell'economia per capire la storia (merito
riconosciutogli perfino da un liberale moderato come Croce), ma tuttavia Marx si
è lasciato troppo prendere dalla sua scoperta e non si è accorto che il
comportamento umano non è solamente governato da fattori economici.
Marxianamente, infatti, la gelosia (ed in generale tutti gli altri sentimenti)
deve essere letta in senso economico, riconducendosi all'idea che il matrimonio
sia un contratto e che dunque il tenere legato a sè il coniuge rientri nella
sfera economica; però pensare che tutti i sentimenti siano riconducibili ad un
livello economico è, francamente, molto riduttivo, come ha fatto notare Freud;
ed è anche molto riduttivo pensare che l'eliminazione dei conflitti economici,
avvenuta grazie all'abolizione delle classi, porti all'eliminazione di ogni tipo
di conflitto. Infatti, sostenendo che è la vita a determinare la coscienza,
ovvero che il comportamento umano è influenzato dalle condizioni materiali e
che, luteranamente, l’arbitrio dell’uomo è servo, viene meno la libertà umana.
In realtà, è bene ricordare come per Marx la storia che arriva fino all’epoca
del capitalismo non è la vera storia, ma è una sorta di lunga preistoria in cui
l’uomo è stato soggetto alle forze economiche senza riuscire a dominarle ( il
feticismo delle merci ne è la più fulgida espressione: il prodotto si erge a
dominare l’operaio); una volta che questa fase verrà superata, anche il rigido
materialismo potrà in qualche misura risultare sorpassato e sarà, finalmente,
l’uomo a dominare l’economia (e non viceversa). E del resto, fin dalla sua tesi
di laurea “Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di
Epicuro”, Marx aveva mostrato maggior simpatia per il pensiero di Epicuro che, a
differenza del rigido meccanicismo democriteo, lascia un margine di libertà
all’agire umano, non intaccando del tutto il libero arbitrio: come a dire che
nell’attuale società capitalistica l’uomo è schiavo materialmente e quindi anche
spiritualmente, ma quando lo sfruttamento materiale verrà meno, allora egli si
riscatterà e riconquisterà la propria libertà.