COSTANZO PREVE
A cura di Alessandro Monchietto
Presentazione del pensiero: marxismo e filosofia.
Ogni approssimazione alla ricostruzione del pensiero di un autore è anche sempre necessariamente una scelta di “ordine d’esposizione”di temi e di problemi. Occupandosi del pensiero di Costanzo Preve, autore sconosciuto ai più ma di indubbia originalità, si prova inevitabilmente un certo senso di straniamento. L’immagine che si aveva di Marx sino a quel momento va in pezzi, e al suo posto sopravviene una spiacevole sensazione di smarrimento, di disagio, e diciamolo, anche un certo fastidio. “Ma chi si crederà mai di essere questo signore, che in maniera quasi innocente stravolge opinioni consolidate e accettate dai più grandi studiosi marxisti degli ultimi centocinquant’anni?”
La maggior parte dei lettori (soprattutto tra coloro che hanno alle spalle anni di onorata e sincera “militanza”) risponde con un’alzata di spalle, abbandona il libro e si dedica a qualche ben più proficua occupazione.
Non è il caso ovviamente dell’autore di questo breve saggio, che ha invece deciso di dedicare la sua tesi di laurea proprio allo studio di questo singolare filosofo.
Nel tentativo di affievolire questo spaesamento, e di agevolare la lettura del saggio, in questa introduzione ne esporrò brevemente il contenuto e la struttura.
Inizierò trattando il concetto di economia in Marx, ed in particolare la distinzione tra economia politica classica, critica dell’economia politica ed economia politica critica di “sinistra”. Saranno analizzate poi le conseguenze della scelta marxiana di individuare nell’economia politica l’oggetto da criticare e rovesciare, prima fra tutte la rinuncia marxiana alla fondazione filosofica della propria teoria. Affronteremo infine il delicato tema della presenza/assenza di una teoria politica nel pensiero marxista, e delle sue possibili cause.
Nel secondo capitolo, mi dedicherò al problema della ricostruzione del profilo filosofico originale di Marx. In questo capitolo verrà affrontato inizialmente il concetto di scienza e quello di scienza filosofica; passeremo poi allo studio della nozione di alienazione nel pensiero marxiano, con un breve excursus sul concetto di Gattungswesen e sull’influenza esercitata dal pensiero di Aristotele; infine sarà dedicato un paragrafo all’analisi del materialismo in Marx, e delle innovazioni proposte dal professor Preve a questo riguardo.
Nel terzo ed ultimo capitolo analizzeremo invece quelli che (per Preve) sono gli errori più rilevanti presenti nel pensiero marxiano, ossia la tesi della capacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia e proletaria (rivelatasi largamente inesistente), la concezione della borghesia come unica classe-soggetto del capitalismo (dove, in realtà, il capitalismo si sviluppa per via largamente impersonale), e infine l’ipotesi dell’incapacità del sistema capitalista di sviluppare pienamente le forze produttive (dove in realtà si esperisce quotidianamente la sua smisurata abilità proprio in questo, anche se ciò avviene in un contesto di distruzione ecologica e antropologica).
Spero con ciò di aver fatto cosa utile al lettore.
1.1 Ho deciso di iniziare questo saggio soffermandomi brevemente sul concetto di economia in Marx, poiché spesso da qui nascono i primi malintesi. Non è insolito infatti sentirsi dire che Marx, dopo una prima fase giovanile in cui si era limitato a una critica di tipo prettamente filosofico al modo di produzione capitalistico, avesse saggiamente abbandonato questo instabile terreno per abbracciare la ben più solida scienza economica, scelta che gli permise di elaborare la sua teoria della genesi e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Non intendo assolutamente negare un fatto indubitabile, ossia la scelta marxiana (compiuta probabilmente a Manchester nell’estate 1845[1]) di individuare nell’economia politica il terreno privilegiato di critica.Vorrei però sgombrare il campo da possibili equivoci e definire con chiarezza i termini della nostra discussione.
Si è spesso tentato infatti(soprattutto in un’ottica di mobilitazione politico-elettorale) di vedere Marx come una sorta di “economista eretico”, ”economista di estrema sinistra”o meglio come un “economista dalla parte dei salariati”. Costanzo Preve invece, riprendendo tesi già elaborate negli anni settanta da Claudio Napoleoni, rileva come Marx in realtà non abbia mai condiviso né l’oggetto né il metodo dell’economia politica, e che per questo la sua critica dell’economia politica non sia affatto assimilabile a ciò che Napoleoni chiama “economia politica critica” (da Ricardo a Keynes, da Schumpeter a Sraffa).
Come Preve afferma in un suo recente scritto, “la critica dell’economia politica di Marx non è un’ ‘economia’ nel senso di Smith e Ricardo, ma è una vera e propria ‘scienza filosofica’ nel senso di Ficthe e di Hegel, in quanto interpella criticamente l’insieme olistico della società capitalistica, con i suoi vari aspetti religioso, politico, sociologico, culturale, eccetera, organicamente interconnessi”[2].
In questa frase, troviamo già esposta la tesi per cui quella di Marx è una scienza filosofica (tesi che tratteremo ampiamente nel prossimo capitolo); per il momento però vorrei soffermarmi sul concetto di critica dell’economia politica e sulle conseguenze che da essa si possono trarre.
Come si può facilmente dedurre dalla breve citazione di cui sopra, Preve è convinto che Marx, pubblicando nel 1867 il primo libro del Capitale, non intendeva affatto portare un “contributo” di sinistra all’economia politica ma intendeva impostare una critica complessiva della società capitalistica (di cui l’economia politica era la nuova religione globale di legittimazione).
Mentre quindi la critica dell’economia politica non è per nulla una “economia” in senso proprio ma una teoria generale della società, l’economia politica critica ha come oggetto specifico la distribuzione del reddito fra i vari gruppi sociali, ed in questo contesto rappresenta gli interessi della classe salariata.
Secondo Preve, quindi, il centro della teoria marxiana non sta nel semplice riconoscimento “del fatto dello sfruttamento” (Ausbeutung) che si nasconde nello scambio fra forza-lavoro e capitale, ma si situa invece nella connessione organica fra due piani, il piano filosofico della teoria dell’alienazione ed il piano economico della teoria del valore. Come vedremo più avanti, questa affermazione sarà ricca di conseguenze.
Preve arricchisce questa sua tesi indagando in maniera inedita il rapporto Aristotele-Marx. Come sappiamo Aristotele individua nel metron e nella lotta alla dismisura la differenza radicale fra oikonomia (l’economia, e cioè la legge riproduttiva della casa comune, il nomos dell’oikos), e chrematistiké (la crematistica, e cioè l’arte di accumulare più ricchezze private possibili).
Per il nostro autore Marx inizia dove Aristotele si era fermato. Marx infatti nota che la produzione capitalistica è per natura illimitata, e lo afferma anche apertamente: “Il movimento del capitale - egli scrive - è senza misura”[3]. L’economia politica fondata da Adam Smith con la Ricchezza delle Nazioni del 1776 non è a rigore una “economia” nel senso di Aristotele, ma una crematistica moderna, che pone il principio dell’illimitatezza potenziale dell’accumulazione capitalistica non come problema da indagare ma come ovvietà da constatare[4].
Come possiamo stabilire facilmente, questa tesi ci segnala chiaramente come il metodo e l’oggetto di Marx siano differenti e non coincidenti con quelli dell’economia politica inaugurata appunto da Adam Smith.
1.2 La scelta di Marx di individuare l’economia politica classica come il grande oggetto da criticare e rovesciare, ma anche da privilegiare, non è però priva di conseguenze.
Come viene dimostrato ampiamente da Preve nel primo capitolo di Marx inattuale[5], questa decisione comporta la rinuncia marxiana alla fondazione filosofica della propria teoria, con la conseguente rinuncia ad attribuire alla conoscenza filosofica uno spazio autonomo.
Il filosofo torinese non critica questa scelta, cosciente del fatto che se Marx non l’avesse compiuta il marxismo non sarebbe mai nato; ma ritiene sia stata proprio questa decisione a inibire a Marx ed al marxismo successivo l’unico rimedio capace di prevenire le inevitabili derive storicistiche, utopistiche ed economicistiche. Secondo il nostro autore infatti chi riduce la filosofia a sopravvivenza premoderna e precapitalistica oppure a sofisticata secolarizzazione protoborghese della religione finisce con il negare alle sue stesse produzioni teoriche lo spazio critico di autoriflessione.
“ In estrema sintesi, solo la pratica costante ed esplicita della conoscenza filosofica (il cui presupposto socratico non è solo quello di sapere di non sapere, ma è quello di mettere in mezzo, es meson, il sapere di non sapere) può, o forse potrà, o forse avrebbe potuto, evitare al marxismo di oscillare tra i due poli viziosi e convergenti, opposti e complementari, antitetici e solidali, della pseudo-scienza e della quasi-religione[6]. Lo statuto autentico della religione e della scienza può essere indagato solo da un terzo, e cioè dalla filosofia.
[…] la filosofia sarebbe invece utile, perché essa è appunto non l’arbitro, che dovrebbe decidere chi ha ragione (questa è un’illusione che mi guardo bene dal sostenere), ma appunto il terzo interlocutore, che socraticamente invita alla razionalità dialogica. La razionalità dialogica non è possibile se non ci si mette totalmente in discussione. Se al posto di questa messa in discussione totale si invoca una sorta di “principio di esenzione” (secondo la formulazione di un libro molto bello, anche se pochissimo noto, di Edoardo Benvenuto), la religione e la scienza si avvitano su se stesse e diventano incapaci di autoriflessione teorica e di autocollocazione storica”[7].
Per Preve la filosofia era proprio il tipo di conoscenza che, nella sua pratica socratica di tipo dialogico, poteva essere(e non è stata) il solo luogo comunicativo in cui criticare le pretese ideologiche dello storicismo, dell’economicismo e dell’utopismo.
Come viene ribadito in un altro scritto, “la funzione della filosofia può infatti essere paragonata a quegli ingranaggi salvavita che segnalano l’emissione di gas da un cattivo impianto di riscaldamento e la cui conoscenza può fare la differenza tra la vita e la morte. Lo spazio della filosofia è infatti uno spazio di controllo, autocontrollo, verifica e segnalazione di pericoli, ed il metodo dialogico che la filosofia ha ereditato dal suo fondatore Socrate permette ai vari soggetti politicamente attivi di diventare consapevoli della propria prassi”[8].
Non possiamo assolutamente criticare Marx per non aver previsto tutto questo, poiché non c’è cosa più sterile della critica realizzata “col senno di poi”, ma è indubbio che chi voglia riprendere seriamente un pensiero anticapitalista debba inevitabilmente confrontarcisi.
1.3 Secondo il nostro filosofo torinese, un’ulteriore conseguenza di questa decisione consiste nell’assenza di una teoria marxiana dello stato. Riprendendo un tema molto discusso in Italia nella seconda metà degli anni Settanta[9], Preve ne stravolge le coordinate tradizionali, e rifacendosi agli studi di Pierre Rosanvallon[10] e di Bernard Chavance[11] descrive il progetto marxiano come l’elaborazione di un comunismo utopico, frutto del rovesciamento dialettico del precedente capitalismo utopico di A.Smith.
Iniziamo con una citazione:
“Marx è soprattutto colui che ha pensato il comunismo secondo la modalità che i pensatori religiosi hanno chiamato ‘teologia negativa’, in cui la divinità non è descritta con categorie ontologiche ricavate da un’estrapolazione dell’ente umano generico, e cioè dell’uomo in generale, ma è ricavata per differenza contrastiva assoluta da questo fondamento stesso. Nello stesso modo Marx ricava il concetto di comunismo (che di conseguenza non definisce mai se non in modo volutamente generico) da una teologia negativa del modo di produzione capitalistico.
Questa è la sua forza, ma anche ovviamente la sua debolezza.
[..] Il comunismo di Marx è dunque un ‘rovesciamento dialettico’ dell’utilitarismo in ciò che dovrebbe essere il suo contrario, ma che in realtà finisce per essere il suo sdoppiamento replicato e la sua generalizzazione ‘collettivistica’ ”[12].
Chiudiamo questo capitolo con una citazione che illumina una ambiguità ineliminabile nel pensiero di Marx, e che ci apre la strada per la trattazione del profilo filosofico originale di Marx che affronteremo nel prossimo capitolo:
“Marx vorrebbe quindi giungere alla ‘deduzione scientifica’ della necessità storica della comunità umana ‘comunista’ (egli chiama comunismo semplicemente il suo ideale di comunità umana universalistica emancipata dall’alienazione) passando attraverso una forma di sapere non solo caratterizzato, ma addirittura fondato e radicato sul presupposto dell’individualismo atomistico.
É qui, in poche parole, l’enigma di Marx”[16].
2.1 Ho terminato il capitolo precedente con un riferimento ad un’inestricabile ambiguità presente nel pensiero di Marx, che il nostro filosofo torinese non esita a chiamare un vero e proprio “enigma”. Per riallacciarci al discorso appena affrontato, e per richiamare al lettore i termini essenziali della questione, proporrò un’ulteriore citazione:
“Da Manchester[17] Marx tornò non sbarazzandosi del concetto di alienazione (come ha imprudentemente affermato la scuola althusseriana), ma innestando la teoria dell’alienazione nella teoria del valore fino a farne un’unità inscindibile. E’ possibile questo? E’ possibile innestare una teoria filosofica dipendente da un’antropologia e da una dialettica risalente addirittura agli antichi greci su una teoria economica che ha invece presupposti utilitaristi e che è per sua natura indifferente od ostile alla dialettica?
Questo non è uno dei problemi della concezione di Marx. Si tratta del problema, del solo ed unico problema teorico reale”[18].
Per affrontare correttamente questa rilevante questione, è necessario iniziare interrogandosi sullo statuto scientifico della teoria marxiana.
Nel marxismo, il termine “scienza” ha sempre costantemente avuto due significati intrecciati ma incompatibili: il primo derivante dalla nozione di “scienza filosofica”(Wissenschaft) elaborata dall’idealismo classico tedesco e da Fichte ed Hegel in particolare, il secondo derivante dalla tradizione di Galilei e Newton e confluito infine nel positivismo ottocentesco. Nel primo significato, “scientifico” è ciò che è logicamente ed ontologicamente conforme al proprio concetto, sulla base del preventivo riconoscimento dell’esistenza di un fondamento. Nel secondo significato “scientifico” è ciò che è regolarmente prevedibile, sulla base di un sapere che ha nella matematica e nell’esperimento i propri fondamenti, che in questo caso però sono solo epistemologici, e non logico-ontologici, e non hanno perciò bisogno di nessuna filosofia di riferimento.
Nel novecento l’interpretazione prevalente in ambito marxista[19] rivendicava con orgoglio lo statuto scientifico dell’analisi di Marx, visto come un Galileo delle scienze sociali[20] che con i suoi studi aveva inaugurato una sociologia materialista o meglio una metodologia delle scienze sociali (per usare la terminologia di un autorevole marxista come Galvano Della Volpe).
2.2 Come anticipato, questo paragrafo sarà dedicato all’analisi del cosiddetto idealismo di Marx.
Permettetemi però di tornare brevemente sul tema affrontato nello scorso paragrafo. Un attento lettore infatti si potrebbe chiedere: “Ma allora Preve vuole negare totalmente qualsiasi valore scientifico al pensiero di Marx? Non è questa una mossa sbagliata, ed anzi controproducente?” Certo caro lettore, se così fosse Preve starebbe commettendo un grave errore “buttando via il bambino con l’acqua sporca”(come recita il saggio proverbio popolare). Ma fortunatamente così non è. E per dimostrarlo ci serviremo nuovamente di una sua citazione:
“É ragionevole pensare che Marx, intorno ai venticinque anni di età, ha avuto prima una sorta di intuizione filosofica abbastanza generica, l’intuizione di una comunità umana solidale conforme all’essenza naturale dell’uomo e libera da ogni ‘alienazione’ ( questa confusa intuizione è l’oggetto dei quaderni inediti, pubblicati dopo la sua morte con il titolo redazionale di Manoscritti economico-filosofici del 1844), e soltanto dopo ha costruito una legittimazione scientifica che potesse dimostrare l’avvento storico inevitabile di questa sua intuizione, una legittimazione scientifica definita poi materialismo storico e teoria pura dei modi di produzione sociali”[25].
Per il nostro filosofo Marx ha avuto l’intuizione del comunismo come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”, e della necessità di trasformare il mondo e non solo più di “interpretarlo” come avevano fino ad allora fatto i filosofi, molto prima di poter minimamente “dimostrare” questo suo comunismo.
Preve, infatti, non nasconde che in Marx siano presenti sia un dato utopico di origine romantica, sia un dato scientifico, consistente nella costruzione di quattro concetti scientifici fondamentali (modo di produzione sociale, forze produttive sociali, rapporti sociali di produzione, ideologie e sistemi ideologici) e nell’applicazione sistematica di questi quattro concetti al modo di produzione capitalistico.
Per il nostro autore “l’elemento utopico e quello scientifico fanno entrambi parte in modo indissolubile del modello di Marx, che è dunque un’utopia scientifica (sottolineatura mia N.d.A.). Sbagliano dunque, e di grosso, quegli autori marxisti posteriori che hanno cercato di isolare il solo elemento utopico ( si pensi al tedesco Ernst Bloch) oppure il solo elemento scientifico (è il caso del francese Louis Althusser)”[26].
Con ciò Preve afferma che il pensiero marxiano comprende inscindibilmente due elementi fortemente interconnessi e separabili solo con un’operazione di astrazione provvisoria, e cioè l’analisi del capitalismo e la sua critica radicale dal punto di vista del suo superamento “comunista”. Come abbiamo visto infatti, per il nostro filosofo quella di Marx è un’utopia scientifica (l’ossimoro è ovviamente intenzionale) in cui un’ispirazione utopica tardoromantica ha suscitato una specifica critica dell’economia politica basata sulla coincidenza fra la teoria filosofica dell’alienazione e la teoria economica del valore.
Per comprendere pienamente questo discorso però è necessario affrontare il tema centrale di questo secondo paragrafo, ossia l’idea per cui Marx è un’idealista inconsapevole[27].
Inizieremo dunque con una citazione tratta da un recente libro di Preve dedicato al rapporto tra Marx e gli antichi greci, che ci presenta i termini fondamentali della questione:
“La filosofia implicita di Karl Marx è una peculiare forma di idealismo universalistico dell’emancipazione umana, e si configura storicamente come l’ultimo rilevante episodio della storia dell’idealismo tedesco. Fondamento filosofico della specifica forma di idealismo di Marx non è il concetto di Io (come in Ficthe) e neppure il concetto di Spirito (come in Hegel), ma è il concetto di “ente umano generico” (Gattungswesen). Detto in altri termini, il fondamento del pensiero di Marx è una fusione fra ontologia ed antropologia.”[28]
Prima di passare all’analisi dell’alienazione in Marx (tramite cui esamineremo anche il concetto di Gattungswesen), e del suo materialismo, chiuderei con una citazione previana che sintetizza compiutamente il percorso fin ora compiuto:
“Filosoficamente, io considero Marx non un materialista (tanto meno dialettico!), ma l’ultimo esponente della grande scuola dell’idealismo classico tedesco iniziata con Ficthe. Tanto per essere chiari, un idealista al cento per cento, costretto a rimuovere psicanaliticamente il proprio idealismo vivendolo con falsa coscienza necessaria come materialismo.Dal punto di vista ‘scientifico’, Marx è interno al sogno positivistico (iniziato dal francese Comte) di produrre una conoscenza scientifica unitaria del presente storico che fosse però anche predittiva e prognostica. Era questa la concezione di ‘scienza’ del tempo, e considerarla oggi con sufficienza equivale, a mio modesto parere, a considerare con sufficienza Aristotele perché non aveva ancora letto Newton e Darwin”[33].
Lo stesso concetto di alienazione può essere inteso in modi diversi. In un primo significato, alienazione significa abbandono progressivo di una situazione originaria per definizione pura, ed appunto ancora non “alienata”. Come sappiamo, questo significato è caratteristico del pensiero religioso che per definizione è un pensiero dell’Origine, non solo perché Dio come Creatore è all’Origine del mondo, ma anche perché la storia umana è una storia per definizione peccaminosa in quanto si “distacca” dalla sua origine, cui si tratterebbe appunto di ritornare e di restaurare in tutta la sua incorrotta purezza.
In quest’ottica, quando si scopre (ed è il caso di Lucio Colletti) che la teoria dell’alienazione è strettamente intrecciata con la teoria del valore, e che quindi non è possibile separare un Marx scienziato da un Marx fortemente influenzato dal pensiero hegeliano e dialettico, si è fatalmente portati a vivere il marxismo semplicemente come una secolarizzazione dell’escatologia giudaico-cristiana, situazione che non può che concludersi con un congedo definitivo da Marx e dal marxismo in generale.
Preve non nasconde che questa “grande-narrazione abbia caratterizzato il marxismo storicamente esistito[..], perché il marxismo è fondamentalmente stato un’ideologia di una classe profondamente subalterna[34], e le classi subalterne tendono spontaneamente e con ineluttabilità magnetica ad una concezione religiosa del mondo”[35]. Ma a suo parere Marx riteneva l’ente naturale generico alienato non tanto rispetto ad una sua origine, quanto rispetto alle sue possibilità ontologiche ed antropologiche: “La nozione centrale del concetto di alienazione in Marx non è quello di ‘origine’ (archè), ma quello di ‘possibilità’, più esattamente di ‘essente-in-possibilità’(dynamei on)”[36].
In quest’ottica il termine alienazione (Entfremdung) non deve essere concepito in rapporto a un’origine perduta nel ciclo della peccaminosità umana, ma deve essere invece più sobriamente inteso come estraniazione dalle concrete possibilità ontologiche di una vita sensata. Per Preve, “l’alienazione è tale solo in rapporto (sottolineatura mia, N.d.A.) alle potenzialità immanenti (dynamei on) dell’ente naturale generico (Gemeinswesen, Gattungwesen)”[37].
Come si può notare, l’interpretazione previana è opposta rispetto alla precedente; invece di legare il pensiero marxiano alla tradizione giudaico-cristiana, Preve segnala l’innegabile influenza esercitata dal pensiero greco (ed in particolare aristotelico) su Marx.
In quest’ottica Marx viene interpretato come un pensatore aristotelico della possibilità ontologica, e non come un pensatore del determinismo positivistico e della connessa concezione necessitaristica di scienza; il comunismo perciò “resta una possibilità ontologica interna agli sviluppi sociali del capitalismo, non certo un esito necessariamente veicolato da aumenti della composizione organica del capitale, cadute tendenziali del saggio di profitto, crescite esponenziali della coscienza di classe operaia e proletaria e via fantasticando e auspicando soluzioni provvidenziali in chiave economicistica e/o sociologistica della storia”[40].
Secondo Preve, un altro punto in cui è possibile constatare quanto l’eredità aristotelica abbia influito su Marx è la nozione marxiana di natura umana; come viene fatto notare, “tutta l’antropologia filosofica di Marx, e cioè la sua concezione della natura umana in società,[..] coincide pressoché al cento per cento con la teoria di Aristotele sull’uomo come essere per natura politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) e come essere dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo scientifico (zoon logon echon)[41]. Questo fa di Marx una sorta di aristotelico moderno, se pensiamo che invece tutto il pensiero politico detto ‘moderno’ [..] nasce con Thomas Hobbes con una radicale e provocatoria inversione di prospettiva (rispetto all’antropologia aristotelica, N.d.A.)”[42].
Riallacciandomi a quest’ultima citazione, ritengo necessario soffermarmi su un concetto finora poco trattato, ossia la nozione di Gattungswesen.
Secondo Preve, utilizzando il termine Gattungswesen (che si può tradurre come “essenza del genere”, o meglio come “essenza umana generica”) Marx intende dire che l’uomo, a differenza degli altri animali, non ha un’essenza specifica che si trasmette per eredità naturale, ma ha un’essenza aperta che gli permette di costituire forme diversissime di socialità.
Per chiarire meglio la questione, credo sia necessario soffermaci su questa citazione tratta da Marxismo e filosofia:
“Quando parliamo di alienazione, cioè di cessione e di perdita, bisogna subito dire chi è che aliena e che cosa aliena. Chi aliena è l’uomo, e non l’uomo naturale sebbene l’uomo già storicamente costituito (e non c’è dunque nessuna paura di cadere nel naturalismo astorico o nell’umanesimo astratto interclassista), e ciò che aliena è la sua essenza umana generica (Gattungswesen). Egli non aliena dunque solo la sua essenza umana, che è l’insieme dei rapporti di produzione, e non comprende l’elemento naturale e biologico della sua costituzione antropologica complessiva, ma aliena qualcosa di più, la sua essenza umana generica, in cui ciò che conta veramente è la parola ‘generica’. La parola ‘generico’ si contrappone alla parola ‘specifico’. Le termiti non si alienano assolutamente nel loro termitaio, così come le api non si alienano assolutamente nel loro alveare. Come si vede, il concetto di essenza umana non deve essere confuso con quello di natura umana, che è più ampio, e comprende una sintesi di naturale e di storico, mentre l’essenza umana è solo storica, e chi si ferma ad essa sbocca in un povero sociologismo. Anche la natura è ovviamente storica, ma la sua storicità è più lenta, e dunque l’uomo antropologicamente è l’unione di due temporalità distinte anche se interconnesse. Proprio perché l’uomo è un ente naturale generico il capitalismo lo aliena, perché lo strappa alla sua genericità e lo rende specifico, cioè specifico ai soli rapporti capitalistici di produzione, che vengono appunto specificati, nel senso di animalizzati ”[43].
Preve parte dall’affermazione marxiana per cui “non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso”[53]. Come scrive in un suo recente lavoro “in filosofia, a differenza che per alcune pratiche burocratiche semplificate, l’autocertificazione non è un principio metodologicamente infallibile”; a suo parere infatti, “nella congiuntura storica concreta del decennio 1835-1845 solo l’autocertificazione soggettivamente veridica di ‘materialismo’ permetteva di fatto di rompere con l’insieme delle ideologie dominanti”[54]. Come abbiamo d'altronde visto precedentemente, Preve afferma che Marx è “un idealista al cento per cento, costretto a rimuovere psicanaliticamente il proprio idealismo vivendolo con falsa coscienza necessaria come materialismo”[55].
3.1 Siamo giunti all’ultima parte di questo nostro breve saggio. Dopo esserci fermati ampiamente sullo statuto filosofico e sugli aspetti per così dire più vitali del pensiero marxiano, in questo capitolo analizzeremo i punti più problematici di questo stesso pensiero ed in particolare quelli che Preve chiama “errori di previsione”.
Iniziamo dunque elencando i punti che falsificano le analisi di Marx (ovviamente, secondo il nostro autore), per poi soffermarcisi adeguatamente sopra. Secondo Preve[68]:
1) Le classi subalterne non sono state in grado di resistere alla radicalizzazione della sottomissione reale del lavoro al capitale che le ha integrate nei gruppi sociali di produzione capitalistici. Esse hanno così smentito empiricamente l’attribuzione metafisica che ne aveva fatto un Soggetto inter-modale.
2) La borghesia storica non esiste più, così come non esiste più quella “coscienza infelice” che le permetteva di conservare un atteggiamento critico nei confronti del suo stesso dominio, e che si era manifestata nella grande letteratura (Balzac, Dickens, Tolstoi, Zola, Proust, Thomas Mann, ecc.), o nel grande pensiero (Kelsen, Husserl, Cassirer, Croce, Durkheim, ecc.). La nuova élite dirigente, positivista ed economicista, è una classe nichilista che conosce soltanto la legge dell’accumulazione infinita del capitale, indifferente ai costi umani ed ecologici.
3) Il neocapitalismo per ora vittorioso si è mostrato capace di sviluppare le forze produttive ad un ritmo prodigioso, nonostante i danni enormi che ha inflitto sia all’uomo che alla natura. Ha potuto legittimarsi come il solo ordine possibile, facendo riferimento alle virtù di mercato, alla democrazia rappresentativa, alla “religione dei diritti umani”[69] e alla seduzione di un consumismo generalizzato.
Come si nota, Preve colpisce alcuni tra i nuclei portanti del pensiero marxista tradizionale. Quest’operazione non viene compiuta in nome di uno sterile spirito di decostruzione; il filosofo torinese è interessato al contrario alla rinascita di un dibattito serio e fecondo su Marx, ma ritiene che l’accettazione acritica di punti rivelatisi infondati possa rappresentarne soltanto un deleterio impedimento.
Il nostro autore fa notare a proposito come il marxismo abbia per più di un secolo tentato di dimostrare un fatto paradossale, ossia l’illusoria tesi per cui “Marx aveva ragione nel 100% di quello che diceva, e al massimo vi potevano essere errori di fraintendimento e di interpretazione”; poco oltre prosegue:
“L’idea che un pensatore abbia capito tutto e non vi siano nel suo pensiero incoerenze, incertezze, illusioni ecc., è un’idea superstiziosa. Il soffocante abbraccio di questi fanatici amici di Marx ha a lungo impedito la naturale applicazione dello stesso metodo critico di Marx al suo proprio pensiero marxiano e sopratutto al marxismo successivo. E’ infatti del tutto assurdo che il geniale scopritore del metodo della critica alle ideologie fosse, egli solo nella lunga storia del mondo, del tutto immune da un condizionamento ideologico nell’elaborazione della propria dottrina. E’ anche assurdo che egli sia stato l’unico pensatore della storia del mondo ad avere conseguito una perfetta ed assoluta trasparenza sull’uso critico delle proprie fonti ideologiche, scientifiche e filosofiche.
Il culto di Marx ha impedito per quasi un secolo un’analisi critica del suo pensiero. Naturalmente, vi era una ragione per spiegare questa follia. Marx doveva essere infallibile in tutte le cose che diceva, perché magicamente la sua infallibilità potesse essere trasmessa e trasferita ai dirigenti politici del movimento comunista burocratizzato”[70].
Come viene qui chiaramente illustrato, ma come è anche sostanzialmente noto, per i burocrati del comunismo storico novecentesco l’infallibilità di Marx era una risorsa ideologica, “perché il decretare infallibile il fondatore della ditta significava simbolicamente proiettare questa infallibilità originaria sulla loro presente infallibilità verso i seguaci fideisti e creduloni”[71].
Preve però non si limita a questa semplice affermazione: come tiene a precisare in un saggio successivo a suo parere “il marxismo, fenomeno largamente indipendente da Marx, non fu né un errore di interpretazione degli epigoni, né un tradimento di politici corrotti e neppure un travisamento religioso di plebi fideistiche ed irrimediabilmente subalterne e bambine, ma fu un ‘adattamento darwiniano’ assolutamente necessario. Nella forma aporetica e non coerentizzata datagli da Marx, il marxismo sarebbe stato impossibile, o sarebbe diventato al massimo quello che è diventato ora, e cioè una gnosi salvifica della storia ad un tempo gratificante (filosoficamente) ed impotente (politicamente)”[72]. Come viene ripetuto più avanti, “il cosiddetto ‘marxismo’ è [..] solo un adattamento darwiniano alla committenza ideologica imperativa di un ben preciso soggetto sociale prima inesistente, e cioè la classe operaia di fabbrica evocata dalla seconda rivoluzione industriale, che ebbe nella Germania il suo paese guida in Europa. [..] Il marxismo è diventato una gigantesca forza storica per almeno un secolo (1890-1990) non nonostante i suoi macroscopici errori scientifici, ma proprio grazie a questi errori scientifici. Un marxismo ‘giusto’ e conforme a Marx sarebbe rimasto una interessante elucubrazione testimoniale ultraminoritaria. Il marxismo ‘frainteso’ e ‘tradito’ è invece divenuto, proprio in grazia dei fraintendimenti e dei tradimenti, una gigantesca forza storica”[73].
In quest’ottica il marxismo è visto come un modello teorico che, anche partendo da tesi originali di Marx, le combinava insieme in modo tale da togliere a queste tesi ogni carattere aperto e problematico, conferendole una chiusura dogmatica facilmente spendibile sul terreno della “mobilitazione dei militanti” e soprattutto della loro “rassicurazione religiosa circa il buon esito finale garantito dei loro sforzi e delle loro aspirazioni”.
È giunto però il momento di interrogarsi proprio sull’entità e sulle reali capacità di questi stessi militanti, ossia quella che Marx chiama classe operaia di fabbrica.
Come sappiamo, fu lo stesso Marx ad assegnare alla classe operaia, proletaria e salariata il compito e la funzione di emancipare insieme a se stessa anche l’intera umanità, guidando la società verso la costruzione del futuro mondo comunista il cui magnifico motto sarebbe diventato “ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Per tutto il novecento si fraintese questa tesi marxiana, associando la classe operaia al Soggetto emancipatore indicato da Marx. Riferendosi alle acute analisi di Gianfranco La Grassa[74], Preve mette in luce come il Soggetto rivoluzionario marxiano fosse invece il lavoratore collettivo cooperativo associato, formatosi tramite la socializzazione capitalistica delle forze produttive, e destinato ad allearsi con le potenze mentali della produzione capitalistica da Marx definite con il termine inglese di general intellect[75]. É questo per Marx il probabile affossatore del capitalismo, non certo la classe dei lavoratori manuali di fabbrica in quanto tale. Questa classe è infatti per il filosofo di Treviri solo quella porzione di lavoratore collettivo cooperativo associato suscettibile di essere organizzata sindacalmente e politicamente.
Purtroppo però questo lavoratore collettivo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, non si è mai creato.
La Grassa spiega come l’ipotesi scientifica marxiana si sia rivelata errata per essersi strutturata a partire dalla forma della fabbrica anziché dalla forma dell’impresa. Le fabbriche infatti socializzano effettivamente la produzione, mentre le imprese invece la frammentano.
Il capitalismo però è fatto in prima istanza di imprese, e soltanto in seconda istanza di fabbriche, ed in questo modo inevitabilmente non si forma e non si può formare il lavoratore collettivo associato previsto da Marx.
Come fa notare inoltre Preve in un suo recente libro, “a differenza di come affermava erroneamente il marxismo, la classe operaia manifestava fisiologicamente una natura ribellistica (scambiata spesso per rivoluzionaria) soltanto nel primo periodo della sua recente uscita dalla precedente cultura comunitaria di tipo artigianale, bracciantile e contadina, mentre mano a mano che si ‘integrava’ nella società industriale capitalistica si adattava massicciamente sia all’economicizzazione puramente sindacalistica del conflitto sia all’incorporazione nazionalistica. Detto altrimenti, la classe operaia e salariata europea realmente esistente, e non il suo raddoppiamento ideale sognato dal comunismo, era spontaneamente socialdemocratica e non certo ‘comunista’ ”[76].
Preve fa qui riferimento alle analisi svolte da Zygmunt Bauman[77] in un libro intitolato Memorie di classe, in cui il noto sociologo spiega come già a partire dagli anni venti dell’Ottocento in Inghilterra (e poi progressivamente in altri paesi) la classe operaia abbia dovuto accettare il terreno obbligato della cosiddetta “economicizzazione del conflitto”, tramite cui rinunciava ad imporre il ritorno a forme produttive precedenti o alternative per inserirsi sul nuovo terreno della distribuzione maggiormente equa dei beni e dei servizi prodotti capitalisticamente. Secondo il filosofo torinese questo fattore, sommato alla cosiddetta nazionalizzazione delle masse e all’integrazione consumistica, rivelò l’incapacità rivoluzionaria della classe operaia, che invece di dimostrarsi quella classe universale cui Marx anelava si dimostrò essere una classe intrinsecamente subalterna.
Preve comunque non intende affatto colpevolizzare Marx per questo errore; come scrive in un suo recente saggio, “la prima cosa che si impara studiando Marx e il marxismo è che non ha senso retrodatare la consapevolezza di un fenomeno, positivo o negativo che sia, ad un momento storico precedente in cui non ne erano ancora apparse le condizioni di visibilità”[78].
3.2 Con ciò ci siamo lasciati alle spalle una delle tesi più “scandalose” (per il tradizionale pensiero comunista) del nostro filosofo di Torino. In questo paragrafo affronteremo però un altro tema perlomeno altrettanto spinoso, ossia la sua nozione di Borghesia.
Secondo l’impostazione tradizionale, la borghesia è la classe sociale portatrice dei rapporti di produzione capitalistici; essa è dunque ritenuta una vera e propria classe-soggetto, a cui si contrappone la classe-soggetto (ritenuta intrinsecamente rivoluzionaria) dei proletari. Come abbiamo appena visto, La Grassa e Preve smentiscono in toto questa seconda tesi, dimostrando anzi come la classe operaia sia facilmente assimilabile nella logica del capitale tramite un’opera di integrazione statalistica e consumistica.
Ma il nostro autore dimostra come anche la prima affermazione, sottoposta ad un’attenta analisi, si riveli errata. Preve afferma: “Ritengo che ogni concezione della borghesia come classe-soggetto del capitalismo, concezione che porta in fondo a identificare i due termini (con la Borghesia che diventa il ‘lato soggettivo’ del Capitalismo, e il Capitalismo che diventa il ‘lato oggettivo’ della Borghesia) sia errata nell’essenziale, e dunque da abbandonare”[79].
Per il nostro autore infatti il capitalismo è un sistema autoriproduttivo largamente impersonale, mentre la borghesia è un soggetto sociale collettivo assai complesso. Come scrive in un suo saggio, “l’abitudine a concepire il capitalismo in modo antropomorfico è dura a morire. Il capitalismo, però, non è il teatro delle azioni coscienti di un Soggetto collettivo denominato Borghesia, ma il luogo sistemico di una riproduzione anonima e impersonale, che si tratta di conoscere bene”[80].
La tesi di Preve è che oggi si stia assistendo ad un sistema sostanzialmente post-borghese e post-proletario in cui il capitalismo “ha liberalizzato la sua etica e il suo riferimento alla religione, e lo ha fatto spinto dalla sua intrinseca logica ad allargare la mercificazione universale dei beni e dei servizi, per cui oggi sono mercificati beni e servizi che la borghesia classica intendeva invece preservare dalla sua stessa attività mercificante. I marxisti sciocchi e superficiali naturalmente non capiscono questa distinzione elementare, e continuano a definire ‘forze conservatrici’ le forze economiche e politiche capitalistiche, laddove ovviamente è il contrario. Esse non ‘conservano’ proprio nulla”[81].
Il modo di produzione capitalistico è stato indubbiamente promosso e sviluppato da una classe sociale europea chiamata “borghesia”, ma ormai da quasi vent’anni si è passati ad una fase che il nostro autore designa come ultracapitalistica, in cui gli agenti imprenditoriali della produzione capitalistica non coincidono più con la classe sociale denominata appunto “borghesia”[82].
Ma le analisi del nostro autore non si fermano a questo. Preve afferma addirittura che “lo stesso materialismo storico di Marx è [..] un prodotto storico integrale della ‘coscienza infelice’ della borghesia europea, nella misura in cui il suo codice filosofico si basa sull’analisi coerente dell’incompatibilità fra universalizzazione reale della coscienza umana e particolarismo inevitabile degli interessi privati capitalistici.
[..] Il comunismo di Marx, basato sulle due nozioni di libera individualità integrale, da un lato, e di universalizzazione dei bisogni del genere umano, dall’altro, nozioni che risalgono entrambe alla filosofia classica tedesca e a Hegel, punto massimo e vetta insuperata del grande pensiero borghese europeo, è un comunismo che viene dialetticamente ricavato dalle determinazioni contraddittorie del pensiero borghese stesso, e solo di esso”[83].
Come si vede per il filosofo torinese il pensiero di Marx è stato il prodotto filosofico di uno svolgimento dialettico della coscienza infelice della Borghesia, ossia il prodotto della “consapevolezza filosofica borghese del fatto che all’interno della produzione capitalistica non ci potrà mai essere superamento dell’alienazione, alienazione che non è altro che la coscienza infelice della borghesia stessa di fronte alla propria stessa produzione parzialmente inconsapevole e non voluta, il mondo dello sfruttamento capitalistico”[84].
In ogni caso, il carattere post-borghese e post-proletario del moderno capitalismo non significa affatto la fine delle sue contraddizioni, ma semplicemente il fatto che queste contraddizioni non potranno più essere descritte e rappresentate nella forma in cui sinora il marxismo le aveva interpretate.
3.3 Eccoci allora giunti all’ultima parte prettamente teorica di questo capitolo. Come abbiamo visto nello scorso paragrafo, la borghesia non è stata affatto rimpiazzata dall’incalzante proletariato rinnovatore, ma entrambe le classi si sono in qualche modo consumate e sono state assorbite all’interno di un ultracapitalismo oramai mondializzato.
Ma da dove trae origine quest’errore marxiano? Secondo Preve, è dovuto ad una particolare patologia storica occidentale, ossia “l’irresistibile incantesimo della analogia storica come fattore di previsione storica scientifica”[85].
Marx, cadendo in quest’errore, aveva creduto che la transizione capitalismo-comunismo potesse essere pensata attraverso la ripetizione del modello di transizione feudalesimo-capitalismo.
In quest’ottica, la presunta incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive è ricavata da Marx dall’analogia con la reale incapacità dei ceti feudali e signorili di sviluppare le forze produttive. Ma Marx si è visibilmente sbagliato: la produzione capitalistica infatti “si è rivelata capacissima di sviluppare le forze produttive attraverso la concorrenza capitalistica stessa, sia pure in un contesto di distruzione ecologica e di uniformazione antropologica forzata del pianeta”[86].
Secondo Preve “Marx confondeva il ripetersi ciclico delle crisi capitalistiche di sovrapproduzione e di sottoconsumo, crisi cicliche che anziché indebolire rafforzano la produzione capitalistica complessiva eliminandone via via i rami secchi e le produzioni obsolete, con una crisi ‘mondiale’ del sistema”[87].
Questo abbaglio fu ereditato dal movimento comunista successivo e da molti dei suoi pensatori più eminenti, e così l’errata previsione marxista sull’incapacità della borghesia di sviluppare le forze produttive e sulla capacità della classe operaia e proletaria di attuare una vera e propria “transizione” (da un modo di produzione ad un altro) non venne mai messa seriamente in discussione.
Inoltre, secondo il nostro autore quest’incantesimo dell’analogia storica fece inevitabilmente compiere a Marx un passo indietro rispetto al suo maestro Hegel (per cui come è noto l’autocoscienza umana ideale può solo essere autocoscienza del presente storico e non può ne deve “prolungarsi” in una incerta previsione del futuro). Marx si rifiutava infatti di descrivere nei dettagli il proprio comunismo, poiché capiva che questa era stata la via sterile caratteristica della tradizione utopistica; ma, come fa prontamente notare Preve, “teneva fermo nell’affermare il comunismo, sia pure nella vaga formulazione dell’esaurimento dei bisogni in assenza di Stato politico e di mercato economico”[88]. Marx rinunciava a predeterminare le forme, ma non rifiutava affatto a predeterminare il contenuto, ed il contenuto del post-capitalismo era per lui il comunismo.
Per il filosofo torinese però questa pretesa và fermamente abbandonata; un venturo movimento anticapitalista deve accettare il fatto che “il futuro non è predeterminabile non solo per quanto riguarda le sue forme, ma anche e soprattutto per quanto riguarda il suo contenuto”.
Tramite quest’errore tuttavia è possibile vedere chiaramente quanto il pensiero aristotelico abbia influito su Marx. A differenza di Hegel, il filosofo di Treviri (come abbiamo visto) ritiene di avere il diritto di concettualizzare il prolungamento comunista del capitalismo, e (secondo Preve) lo fa proprio sulla base del principio aristotelico della categoria di “essente-in-possibilità” (dynamei on)[89].
Il comunismo marxiano non è pensato quindi come una semplice utopia, ma come lo sviluppo di una sostanzialità presente già nel capitalismo.
3.4 Siamo così pervenuti al termine di quest’ultimo capitolo, dedicato come è noto all’esame di alcuni rilevanti errori marxiani. Prima di chiudere, accenneremo brevemente alle conseguenze che il nostro autore trae da tutte queste analisi.
A differenza di molti filosofi, in cui la presa di coscienza di queste ineliminabili carenze coincise con l’abbandono del marxismo (visto come un paradigma intrinsecamente contraddittorio di cui è necessario disfarsi), il nostro autore ritiene sia possibile un ripensamento e una ripresa critica del pensiero di Marx. A suo parere “l’errore di Marx si rivela essere un tipico errore ‘scientifico’ in senso fisiologico e non patologico[..]. Le scienze procedono non nonostante gli errori, ma grazie agli errori, che ponendo il problema della loro correzione pongono contestualmente la possibilità di sintesi teoriche più avanzate e comprensive di elementi inediti”[90].
Preve segnala come solo un pensiero pseudo-religioso possa pretendere la completa infallibilità del proprio fondatore; gli errori e le inesattezze sono invece qualcosa di fisiologico, ed anzi sono proprio questi sbagli che permettono alle scienze di procedere.
Richiamandosi alle analisi svolte da Thomas Kuhn, epistemologo di fama mondiale, il nostro autore sostiene che “ogni scienza non procede per progressiva accumulazione quantitativa di conoscenze, ma per rivoluzioni scientifiche, cioè per veri e proprio ‘salti’ di modelli globali che vengono modificati ogni volta che non si possono più ‘salvare’ i modelli precedenti con vari accorgimenti ad hoc. [..] Non vedo personalmente nulla in contrario ad applicare la teoria dei paradigmi di Kuhn anche al marxismo. Come Newton a suo tempo affermò che esistevano lo spazio e il tempo assoluti, Einstein modificò radicalmente questa concezione, ma non per questo la fisica come scienza finì, nello stesso modo a mio avviso il paradigma marxiano potrebbe essere radicalmente riformato senza essere distrutto”[91].
Secondo Preve il paradigma marxiano potrebbe essere rilanciato attraverso modificazioni di tipo “kuhniano”, a partire dall’abbandono della teoria del crollo automatico del capitalismo e alla rinuncia all’ipotesi del carattere rivoluzionario in sé e per sé della classe operaia e del proletariato.
A questo punto pèrò all’autore di questo saggio non resta che fermarsi, lasciando che a questo critico compito si dedichi qualcuno più competente e dotato di lui.