La vicenda di Abelardo ed Eloisa
A PARIGI
Partecipando alle lezioni di Guglielmo, Abelardo ne critica le idee e spesso lo contesta, uscendo, come egli stesso racconta, <vincitore dalle dispute>. Gli altri discepoli che frequentano le lezioni con lui, particolarmente quelli più bravi, sono sdegnati e indignati nei suoi confronti, anche perché era il più giovane e l'ultimo arrivato.
<Come allievo di Guglielmo>, racconta Abelardo, <forse sopravalutando le mie capacità, aspirai a dirigere io stesso una scuola, cercando un luogo adatto alla realizzazione di questo disegno>.
Gli parve adatta la cittadina di Melun ben nota per essere residenza reale (all'epoca regnava Filippo I di Francia). Guglielmo accortosi delle intenzioni dell'allievo, cercò di fare di tutto per impedirgli di fondare la scuola. Ma a Melun, Abelardo trovò l'ambiente a lui favorevole in quanto l'atteggiamento ostile di Guglielmo gli aveva conciliato la simpatia dei signori della corte del re. La sua fama di dialettico, che offuscava quella dei suoi compagni e del suo maestro, si diffuse in un batter d'occhio. Non solo. Ma Abelardo ne combinò subito un'altra. <Sopravalutando ancora le mie capacità, trasferii la mia scuola a Corneuil, più vicina a Parigi, per avere più frequenti occasioni per aggredire i miei nemici nelle dispute>!.
Dopo una pausa di qualche anno (era dovuto andare in Bretagna perché per l'impegno e l'intensità di studio si era ammalato di esaurimento nervoso), torna a Parigi più battagliero che mai. Guglielmo era nel frattempo diventato vescovo. Abelardo, velenosamente riferisce che Guglielmo aveva cambiato ordine religioso, mostrando più zelo (religioso) per avere una prelatura più importante, e continuando a tenere le lezioni di retorica, alle quali Abelardo aveva pensato bene di partecipare… <per costringerlo a modificare, anzi, a rinunciare del tutto al suo precedente punto di vista sulla questione degli universali>
Quando Guglielmo fu costretto a correggere il suo pensiero, le sue lezioni caddero in tale discredito che a stento gli era concesso di trattare le altre parti della dialettica, <come se>, commenta Abelardo, <in questa questione degli universali consistesse l'argomento più importante di quest'arte>.
Non solo. Ma accadde che tutti i discepoli entusiasti seguaci di quel maestro, passarono in massa al corso di Abelardo.
Guglielmo pensò di affidare il suo corso a un suo successore il quale andò a offrirlo ad Abelardo. Ma Guglielmo non potendo sostenere il bruciante dolore da cui era logorato, cercò di fare allontanare il suo successore con l'astuzia, e, non avendo appigli cercò di far togliere la cattedra a colui al quale l'aveva affidata, accusandolo di colpe infamanti.
Abelardo torna quindi a Melun dove l'invidia di Guglielmo non fece che accrescere l'autorità di Abelardo. Nel frattempo Guglielmo si trasferisce con tutti suoi frati, e Abelardo pensando a una tregua ritenne di riavvicinarsi a Parigi, portando la sua scuola sulla collina di st. Geneviéve. Ma Guglielmo ritornò con il suo manipolo di frati e scolari, screditando a questo modo colui al quale aveva affidato la cattedra, che perdette quei pochi scolari che gli erano rimasti.
Nel frattempo Abelardo dopo una parentesi nella sua Bretagna in quanto il padre aveva deciso di convertirsi alla vita monastica, seguito, nella stessa decisione, dalla madre (3), al rientro pensò di andare a seguire, provocatoriamente le lezioni di Anselmo di Laon (4) che era stato maestro di Guglielmo, e aveva gran fama per la lunga pratica di insegnamento.
Abelardo lo sminuisce riferendo che: <questa sua fama era dovuta più alla lunga pratica dell'insegnamento che all'ingegno o alla memoria>, aggiungendo sarcasticamente che <se qualcuno andava da lui per consultarlo su qualche questione in cui si sentiva incerto, se ne ritornava ancora più incerto.> <Egli> prosegue Abelardo <sembrava ammirevole agli occhi di coloro che lo ascoltavano, ma risultava una nullità se lo invitavano a discutere> (…ed era lui a farlo!). <Sapeva usare parole a meraviglia, ma diceva cose banali e prive di significato. Quando accendeva quel suo fuoco, riempiva la casa di fumo, ma non la riempiva di luce. Il suo albero era tutto di foglie e sembrava grande e imponente ma appariva del tutto privo di frutti…mi avvicinai a lui per cogliere i frutti, ma egli era come il fico sterile maledetto dal Signore>.
Abelardo diviene meno assiduo alle lezioni (che erano pagate volta per volta dagli studenti), ma questo comportamento è considerato sprezzante dagli altri discepoli che istigano il maestro contro di lui..
Avvenne che, dopo una lezione, scherzando, uno di loro chiese ad Abelardo, con l'intenzione di farlo cadere in errore, che cosa avesse ricavato dai testi sacri. Abelardo, che non aveva ancora affrontato quegli studi, rispose, (creando le condizioni di una sfida!), <che la lettura gli sembrava salutare per la salvezza dell'anima, ma si meravigliava che agli uomini di cultura, non bastassero gli stessi testi sacri col commento delle glosse, per comprendere appieno le esposizioni dei santi Padri, tanto che avevano bisogno dell'insegnamento di un maestro> (e il riferimento era ben chiaro!).
La maggior parte dei compagni reagisce chiedendo se avesse la presunzione di essere in grado di fare questo tipo di commento, e Abelardo risponde che era pronto a cimentarsi, e di rimando si sente dire <certo che lo vogliamo>!. Gli viene quindi sottoposta una oscura profezia di Ezechiele. Abelardo non si perde d'animo e li invita a presentarsi il giorno dopo. I compagni si mostrarono disposti a concedere più tempo per preparare la lezione, trattandosi di una questione così importante. Ma Abelardo rispose indignato che egli si serviva del suo talento e che se lui riteneva di non abbandonare l'impresa, essi dovevano partecipare alla lezione quando voleva lui!.
Alla prima lezione si presentano in pochi, sembrando ridicolo che Abelardo potesse essere esperto in sacra scrittura. Ma quelli che avevano partecipato erano rimasti così soddisfatti ed entusiasti, che lo spinsero a continuare con nuove lezioni alle quali parteciparono anche gli altri.
Tutto questo servì a far aumentare l'invidia del vecchio maestro, il quale sobillato dagli allievi incominciò a perseguitarlo per le lezioni di teologia non meno di quanto Guglielmo lo aveva perseguitato per quelle di filosofia.
Alla scuola del vecchio maestro partecipavano due scolari più bravi degli altri, Alberico di Reims (che diventerà vescovo di Bourges) e Lotulfo Lombardo (legati da vincoli di amicizia saranno tra i principali oppositori di Abelardo), i quali accesi contro Abelardo, gli sobillavano Anselmo contro, per cui questo gli proibì <sfacciatamente> di proseguire nell'insegnamento, traendo come pretesto che, ancora inesperto in quello studio, se fosse caduto in errore, la colpa sarebbe stata attribuita a lui. Gli studenti ne furono indignati, e Abelardo conclude, quasi compiaciuto: <Questo provvedimento non ebbe precedenti. Quando la cosa divenne evidente, tanto più tornava a mio onore, e così la persecuzione accrebbe la mia fama>.
Dopo poco Abelardo torna a Parigi (5) dove gli viene offerta la cattedra (di Guglielmo) da cui era stato espulso. Iniziò le lezioni cercando di portare a termine quelle su Ezechiele interrotte a Laon. Le lezioni piacquero tanto che Abelardo fu considerato esperto in sacra scrittura quanto aveva dimostrato di esserlo in teologia .
Da questo momento Abelardo raggiunge fama e denaro.
UN PIANO PER CONQUISTARE ELOISA
La più bella storia d'amore di tutti i tempi, finita per ambedue gli amanti tragicamente, ha inizio nel momento in cui Abelardo è al massimo del successo come insegnante nella scuola di Parigi. Nell'ebbrezza del successo (a circa trentotto anni), come egli stesso racconta, si lascia prendere dalla <superbia (mi ritenevo il solo filosofo rimasto al mondo) > e <dalla lussuria (io che fino ad allora avevo condotto una vita castissima, iniziai a rilasciare le briglie dei miei desideri>. Ma la grazia divina> scrive Abelardo, anticipando il racconto degli eventi, <mi diede il rimedio per entrambe le malattie, contro la mia stessa volontà: mi guarì dalla lussuria privandomi di ciò con cui l'esercitavo; dalla superbia, umiliandomi con il rogo del libro di cui andavo più fiero>.
Per soddisfare il suo desiderio di lussuria, escogita un piano per conquistare la sedicenne Eloisa, infiammato dall'amore per questa fanciulla, della cui cultura letteraria si parlava in tutta Parigi. Era bella, ma più ancora, era colta. <Se nell'aspetto non era tra le ultime, per la profonda conoscenza delle lettere era la prima> .
Eloisa era bella secondo i canoni dell'epoca. Di statura alta ma ben proporzionata col corpo, bella fronte che armonizzava con le altre parti del viso, aveva denti bianchi e perfetti in un'epoca in cui i denti erano normalmente malati e cadevano anzitempo o venivano estirpati quando erano dolenti. Pur avendo quasi diciassette anni era una donna già matura negli studi, ma anche pronta ad affrontare tutte le esperienze dell'amore, con la disponibilità e apertura della donna colta e intelligente. Come dice Abelardo, <aveva tutto ciò che più seduce gli amanti>.
Essa viveva con uno zio, il canonico Fulberto, molto avaro ma anche molto ansioso di vedere sua nipote progredire sempre più nelle materie letterarie. Con l'intervento di amici Abelardo gli chiese di accoglierlo nella casa, vicina alla scuola (annessa alla cattedrale di Notre-Dame) dove insegnava, a qualsiasi prezzo perché le cure domestiche lo ostacolavano nel lavoro e le spese pesavano eccessivamente. Questi motivi convinsero Fulberto, il quale tutto preso dal contemplare i suoi guadagni e al tempo stesso convinto che la nipote avrebbe ottenuto molti vantaggi dal suo insegnamento, non fece altro che facilitare Abelardo nella realizzazione dei suoi desideri.
Fulberto favorì inconsapevolmente la passione di Abelardo affidandogli la nipote e chiedendogli di farle lezione ogni volta che fosse libero, <sia di giorno che di notte…dandomi anche il permesso di costringerla con la forza>. La sua ingenuità (la mancanza di sospetti da parte di Fulberto era però dovuta al suo amore per la nipote e alla fama della castità di Abelardo) stupì il maestro, che commenta: <non mi sarei meravigliato di più se avessi visto affidare una tenera agnellina a un lupo affamato>. E così allieva e maestro si ritrovano uniti prima nella stessa casa, poi nell'animo.
LA PASSIONE
Avvenne così che il maestro e l'allieva uniti sotto lo stesso tetto, si innamorarono l'uno dell'altra. <Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all'amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano di più intorno ad argomenti d'amore che di studio, erano più numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso sul seno che ai libri. E ciò che si rifletteva nei nostri occhi era molto più spesso l'amore che non la pagina scritta oggetto della lezione. Per non suscitare sospetti la percuotevo spinto però dall'amore, non dal furore, dall'affetto non dall'ira, e queste percosse erano più soavi di qualsiasi balsamo. Il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell'amore, ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo, e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri tanto più ardentemente ci dedicavamo ad essi e non ci stancavamo mai. Quanto più eravamo inesperti di quei giochi d'amore, tanto più insistevamo nel procurarci il piacere e non arrivavamo mai a stancarcene>.
Abelardo preso dalla passione dedica le notti all'amore e il giorno agli studi che non cura più con l'impegno di prima, tanto che le lezioni diventano poco accurate e fredde e non sono più, come egli stesso dice <frutto dell'ingegno ma della lunga pratica>. Di nuovo, in questo periodo, Abelardo compone delle poesie d'amore subito apprese e cantate dagli studenti che avevano capito il tumulto interiore che turbava il loro maestro.
La passione di Abelardo, contrariamente a quella di Eloisa, era solo forte attrattiva dei sensi, mentre per Eloisa era dedizione totale e assoluta, quasi annullamento di se stessa, che durerà per tutta la vita <ti ho amato di un amore sconfinato….mi è sempre stato più dolce il nome di amica, e se non ti scandalizzi, quello di amante o prostituta, (questo termine nel senso di amore spassionato concesso senza pretesa alcuna, nda.), il mio cuore non era con me ma con te> (6).
La forte lussuria da cui era preso Abelardo, aveva avviluppato i corpi dei due amanti in quelle che il Maestro in seguito chiamerà <viluppo di vergogne, che nessun rispetto per la nostra dignità, né la riverenza verso Dio ci tratteneva dal pantano di questo fango neppure nei giorni della domenica di Passione o di qualsiasi altra solennità. Ma anche se tu non volevi e, per quanto potevi, ti rifiutavi e cercavi di dissuadermi, poiché eri più fragile per natura, troppo spesso ti trascinavo a consentirmi con minacce e percosse. Mi univo a te con tale desiderio dei sensi che quelle miserabili e indegne voluttà che ci vergogniamo perfino di nominare, io le anteponevo a tutto, a Dio e perfino a me stesso>. E il desiderio della carne non lo abbandonerà neanche quando Eloisa, dopo il matrimonio (prima della menomazione), si troverà nel convento di Argenteuil, dove Abelardo andò a trovarla di nascosto, e non riuscendo a frenare la passione, non essendovi altro posto dove andare, i due amanti fecero l'amore senza freni e senza vergogna, in un angolo del refettorio.
Tutti a Parigi sanno, l'unico a non sapere è lo zio Fulberto, che non aveva voluto prestar fede a ciò che amici avevano cercato di fargli capire. Alla fine i due amanti sono scoperti e vengono presi da dolore e da vergogna.
Superata però la vergogna, essi si fanno prendere dalla passione, questa volta privi di qualsiasi pudore, con la conseguenza che non molto tempo dopo Eloisa scopre di essere incinta. Abelardo una notte, di nascosto, la portò via conducendola in Bretagna a casa della sorella fino a quando nacque un bambino (1118), al quale fu dato l'originale nome di Astrolabio (colui-che-abbraccia-le-stelle).
Lo zio Fulberto divenne quasi pazzo (7) dopo la fuga della nipote, Era furente per il dolore sentendosi coperto dalla vergogna. Fulberto non sapeva come vendicarsi, e si tormentava per trovare il modo per prendere in trappola Abelardo. Però se lo avesse ammazzato o mutilato, temeva qualche ritorsione nei confronti della nipote. Abelardo cercava di fare molta attenzione per la sua incolumità, essendo fuor di dubbio che Fulberto, se avesse potuto, gli avrebbe fatto del male, come poi avvenne.
Alla fine Abelardo impietosito dal suo dolore e sentendosi in colpa per l'inganno che gli aveva teso, come se avesse commesso un grandissimo tradimento, si reca da Fulberto e per placare la sua ira si offre di fare qualsiasi cosa per riparare il male che aveva fatto.
In fondo, aggiungeva il dialettico Abelardo, ciò che era avvenuto non poteva essere cosa tanto strana per chiunque avesse provato la forza dell'amore e, giustificandosi (con quella che era la mentalità dell'epoca) fin dall'inizio del mondo le donne hanno causato la rovina anche degli uomini più grandi! Alla fine, per calmarlo ulteriormente, Abelardo offre una soddisfazione che superava ogni aspettativa. Si dichiara disponibile a sposare la fanciulla che aveva sedotto, a condizione che il matrimonio rimanesse segreto per non danneggiare la sua fama (8). Fulberto accetta baciandolo e giurando, a nome suo e dei suoi parenti, tutta la sua amicizia.
L'ERUDIZIONE DI ELOISA
Eloisa era contraria al matrimonio sia perché questo avrebbe esposto Abelardo al pericolo e alla vergogna per la perdita di prestigio, sia perché, ben conoscendo lo zio Fulberto, sapeva che il matrimonio certamente non lo avrebbe risarcito del tradimento subito. Eloisa usa tutta la sua intelligenza, la sua grande cultura e la sua erudizione nella conoscenza di testi latini, greci, ebraici per convincere Abelardo. <Quante maledizioni, quanti danni per la Chiesa, quante lacrime avrebbero versato coloro che amano la filosofia a causa del matrimonio>, ricorrendo a citazioni dell'apostolo Paolo (non hai una moglie? non cercarla), di s. Gerolamo (nel libro Contra Iovinianum), e di Cicerone (citato da s. Gerolamo), che dopo aver ripudiato la moglie Terenzia, rispose a Irzio che gli proponeva in sposa la sorella, di lasciarlo in pace poiché non poteva dedicarsi con uguale impegno a una moglie e alla filosofia.
E infine, mettendolo di fronte alla pratica della vita matrimoniale: <cos'hanno in comune le assemblee degli scolari con le ancelle, gli scrittoi con le culle, i libri e le tavolette con i mestoli, gli stili e le penne con i fusi?>. <Come può>, aggiungeva Eloisa. <chi è intento alla meditazione di testi sacri e filosofici sopportare il pianto dei bambini, le nenie delle nutrici che cercano di calmarli, la folla rumorosa dei servi?>. Mi dirai, proseguiva Eloisa: <I ricchi possono sopportare queste cose perché hanno palazzi e case con ampie stanze appartate, perché la loro ricchezza non risente delle spese né è afflitta dai problemi quotidiani>.
A questa risposta lei stessa dava ulteriore risposta: <Ti dico che la vita dei ricchi non è quella dei filosofi, e chi si dedica alle ricchezze terrene o chi è assorbito da problemi materiali, non può certo impegnarsi nello studio dei testi filosofici e della sacra scrittura>. Eloisa continua a citare non solo esempi dell'antico testamento ma riporta riferimenti di s. Agostino, di Flavio Giuseppe, di Pitagora, dimostrando conoscenza non solo del latino e greco ma dell'ebraico, e quindi una erudizione laica sconosciuta allo stesso Abelardo.
Eloisa concludeva infine ricordando le sofferenze che Santippe aveva inflitte a Socrate (citando ancora un passo di s. Girolamo che ne faceva menzione nel libro Contra Jovinianum): <Ricordati che Socrate era sposato e che egli per primo pagò in modo ripugnante quest'offesa fatta alla filosofia; forse ciò avvenne perché in seguito tutti gli altri filosofi fossero resi più cauti dal suo esempio>.
L'ATROCE VENDETTA
Fulberto, aveva mostrato di accettare la proposta di Abelardo, suggellando il patto con il giuramento e con baci, <ma egli> scrive Abelardo <meditava la vendetta che ora avrebbe potuto compiere più facilmente>.
Abelardo e Eloisa, dopo aver passato in segreto, per pregare, la notte in una chiesa, furono uniti in matrimonio alla presenza di Fulberto e di amici, e, dopo la cerimonia i due andarono via per proprio conto e di nascosto, e si incontravano in segreto e più raramente.
Ma Fulberto, era rimasto insoddisfatto. Certamente egli avrebbe voluto per la nipote un matrimonio normale e non segreto. Abelardo non si era reso conto di questo e racconta che: <nel tentativo di lenire la sua vergogna, e venendo meno al giuramento, cominciò a diffondere la notizia del matrimonio, e mentre Eloisa si vedeva costretta a negare, giurando, che la notizia era falsa, lo zio infuriato per il suo comportamento la ricopriva di insulti>. Quando Abelardo venne a saperlo, pensò subito di mandare Eloisa nel monastero di Argenteuil dove era stata educata e aveva studiato. Non appena lo zio e i parenti vennero a saperlo pensarono di essere stati deliberatamente ingannati e che Abelardo le avesse fatto indossare l'abito da monaca per potersene liberare. Per questo ne furono indignati e meditarono la vendetta.
Fu così che una notte mentre Abelardo dormiva in una camera appartata della sua casa, tre uomini entrarono nella camera e uno di essi con un colpo netto lo privò del pene e dei testicoli. Alle grida di dolore gli uomini fuggirono, ma due di essi furono presi. Costoro furono accecati e subirono la stessa sorte di Abelardo, furono anch'essi evirati. Uno di loro era il servo di Abelardo che aveva tradito il suo padrone per avidità.
All'alba la notizia si era già propagata per tutta Parigi, e molti si erano raccolti intorno alla casa. Tra costoro molti piangevano e molti alzavano le loro grida, commuovendo lo stesso Abelardo fino alle lacrime. Più di tutti lo ferirono i lamenti dei chierici e soprattutto i pianti dei suoi discepoli. <Soffrivo più per la loro compassione che per il dolore della ferita> commenta Abelardo, che per il suo orgoglio ferito, aggiunge: <avvertivo di più la mia vergogna che la piaga che mi affliggeva …continuavo a pensare quanto la gloria mi avesse reso potente e con quale facilità fosse stata abbattuta, anzi completamente annientata, a causa di una colpa vergognosa, dal giusto giudizio di Dio che mi aveva punito proprio in quella parte del corpo con la quale avevo peccato>. Ma è solo l'inizio delle sue sventure che d'ora in poi lo perseguiteranno con maggior accanimento.
In questa situazione infelice Abelardo decide di rifugiarsi in un monastero: <non fu una conversione ispiratami dalla devozione, bensì, lo ammetto, dalla confusione e dalla vergogna.> Abelardo aggiunge che, <anche Eloisa per mio ordine, preso prima il velo, entrò in monastero!>.
Era stata la vergogna e l'orgoglio ferito a portarlo a precipitare gli eventi, sia per se stesso, che per Eloisa, che al monastero non vi era andata spontaneamente ma lui stesso l'aveva portata, chiedendole (mi costringesti a legarmi a Dio e a prender l'abito religioso e farmi monaca prima di te!) di prendere il velo. Eloisa, tutta presa dall'amore per Abelardo non si sottrasse a questa richiesta, ma la sua volontà in effetti era stata forzata e lo fece sapere pronunciando, mentre prendeva il velo, tra lacrime e singhiozzi, il lamento di Cornelia (la giovane moglie di Pompeo, sconfitto da Giulio Cesare): <O nobilissimo sposo, o me, indegna di un simile talamo, quale diritto aveva la Fortuna su un uomo così grande?. Perché acconsentii, indegna a queste nozze, se dovevano renderti così infelice. Ora, che io accetti la pena e almeno la espii volontariamente!> (da Pharsalia di Lucano).
Le pesanti porte del monastero si chiudevano così per sempre alle spalle di una fanciulla che poteva appena aver raggiunto i venti anni (1119), bella, intelligente e di elevata cultura, che avrebbe ben meritato un diverso destino.
NEL MONASTERO DI SAN DIONIGI
Abelardo si era rifugiato nel monastero di san Dionigi (saint Denis) dove, ancora convalescente per la ferita riposta, si erano precipitati i chierici suoi allievi per sollecitare sia lui che il suo abate a riprendere gli studi e le lezioni, questa volta non più a pagamento, ma per amore di Dio. Essi gli ripetevano che il suo talento, donatogli da Dio, doveva essergli restituito con gli interessi. E se fino a quel momento si era dedicato ai ricchi, d'ora in poi avrebbe dovuto sforzarsi di insegnare soprattutto ai poveri.
Nel monastero i monaci conducevano la vita come se fossero ancora nel secolo e tra molti peccati, e lo stesso abate che aveva una pessima fama, conduceva anch'egli vita peccaminosa. Abelardo li rimproverava, cogliendo ogni occasione, sia in pubblico sia in privato per la loro immoralità, non facendo altro che rendersi odioso e insopportabile a tutti, ed essi cercarono di liberarsene, assecondando le richieste degli studenti che lo reclamavano per l'insegnamento.
Dopo l'intervento dei monaci e dell'abate, gli venne assegnato un eremo per insegnare e dedicarsi allo studio. Arrivò una tal moltitudine di scolari che non c'era più spazio per ospitarli né cibo sufficiente per sfamarli.
Abelardo questa volta si era dedicato allo studio delle sacre scritture, abbandonando quello delle arti secolari che però gli studenti gli richiedevano con più frequenza, e lui ne approfittò buttando l'amo delle discipline secolari per poter invece parlar loro della vera filosofia, cioè della dottrina teologica. La notizia del duplice insegnamento non tardò a diffondersi e il grande maestro si vide arrivare una torma di allievi che aveva abbandonato i propri insegnanti per seguire le sue lezioni. Ciò non fece altro che far aumentare l'invidia e l'odio di costoro nei suoi confronti.
Essi gli mossero questa volta l'accusa che la sua scelta monastica era incompatibile con le discipline filosofiche e, inoltre, che Abelardo peccava di presunzione in quanto, pur non avendo avuto alcun maestro, si dedicava ugualmente all'insegnamento della teologia. Costoro in effetti volevano impedirgli di insegnare e facevano pressioni su vescovi, arcivescovi abati e qualsiasi ecclesiastico potessero raggiungere.
IL TRATTATO PER GLI STUDENTI E IL CONCILIO DI SOISSONS
Abelardo si era dedicato allo studio della teologia che cercò di analizzare con ragionamenti e per analogia, e su richiesta degli allievi, compose un trattato sulla unità e trinità divina (De unitate et trinitate divina). Essi infatti chiedevano spiegazioni razionali e filosofiche e, in particolare, ragionamenti che potessero studiare e comprendere e non semplici esposizioni, sostenendo che era inutile pronunciare delle parole se queste poi non erano capite, e, che non si poteva credere in un discorso, se prima non lo si fosse compreso. Insomma gli allievi volevano capire e trovavano ridicolo che i maestri volessero spiegare cose che essi stessi non comprendevano. Il trattato faceva chiarezza, con la sottigliezza delle soluzioni, su punti di evidente complessità, ed era piaciuto agli allievi i quali avevano trovato nel testo le risposte a qualsiasi argomento. Questo però aveva suscitato l'invidia dei suoi rivali che convocarono un concilio contro Abelardo.
Alberico e Lotulfo (gli allievi di Anselmo di Laon), che insegnavano a Reims, nemici giurati di Abelardo gli istigarono contro con malvagie insinuazioni l'arcivescovo della città, Rodolfo e, ottenuto il consenso del legato pontificio, Conone di Preneste, organizzarono a Soissons una specie di misera riunione che chiamarono concilio. Invitarono Abelardo a portare il libro, ma prima ancora che egli arrivasse, lo avevano calunniato presso chierici e laici, tanto che, quando egli arrivò con alcuni discepoli, per poco non fu preso a sassate, accusandolo di aver predicato e scritto che esistevano tre dei.
Abelardo pensò di andare subito dal legato Conone, portandogli il libro, perché lo leggesse e lo giudicasse, assicurando che se avesse trovato qualcosa che non si accordasse con la fede cattolica, era pronto a correggerlo o scusarsene. Conone gli ordinò di portare il libro al vescovo e ai suoi due rivali perché fossero loro a giudicare. Costoro esaminarono e riesaminarono il libro senza trovare nulla da portargli contro. Abelardo ogni giorno, prima che iniziasse il concilio, cercava di esporre ciò che aveva scritto, riuscendo a convincere quelli che lo ascoltavano che non si poteva dire nulla contro di lui, tanto che essi ritenevano che i giudici erano in errore ben più di quanto lo fosse lui.
Alberico, volendo tendergli un tranello, un giorno si recò da lui con alcuni discepoli, dicendosi stupito di alcune cose che aveva letto, e cioè che pur avendo Dio generato Dio, e pur non essendovi che un solo Dio, Abelardo negava che Dio avesse generato se stesso (e Abelardo non lo aveva scritto perché con una simile affermazione sarebbe caduto in eresia!, nda). Abelardo si dichiarò disposto a chiarire, ma Alberico non accettò affermando che <occorreva unicamente la parola dell'autorità>. Abelardo, rispose che sfogliando il libro sarebbe stata trovata l'autorità, e aprendo il libro per puro caso trovò subito la frase che cercava, quella di s. Agostino (in De Trinitate) secondo la quale: <Dio non aveva potuto creare se stesso e coloro che lo pensano sbagliano, perché nessuna creatura né materiale né spirituale può farlo>.
Alberico e i suoi discepoli arrossirono, ed egli per giustificarsi affermò che bisognava capire bene ciò che era scritto. Abelardo ribadì che ciò non aveva importanza <perché lui aveva chiesto la parola dell'autorità>. <Se ora invece voleva discutere delle parole e utilizzare gli strumenti della ragione, egli era pronto a dimostrare che con le parole che aveva usato, lo stesso Alberico era caduto nell'eresia secondo la quale il Padre è colui che è figlio di se stesso>!. Queste parole non fecero altro che fare infuriare Alberico, il quale andando via lo minacciò affermando che le sue ragioni o i suoi riferimenti autorevoli non gli sarebbero stati di aiuto nel concilio.
L'ultimo giorno del concilio l'arcivescovo e gli altri discussero su quale giudizio emettere su Abelardo e sul suo libro, ma da un po’ di tempo tutti tacevano o lo attaccavano di meno non avendo trovato nulla che potesse motivare una condanna. Il vescovo Goffredo di Chartres si alzò e affermò che la cultura di Abelardo e il suo ingegno in qualsiasi disciplina avevano molti sostenitori e seguaci e che aveva eclissato la fama dei suoi e nostri maestri.
<Se ora lo condannate, anche se giustamente, sappiate che offenderete molte persone, e saranno molti a volerlo difendere, soprattutto perché non abbiamo trovato nel suo scritto nessun'affermazione che possa essere pubblicamente condannata. Fate attenzione a non essere proprio voi, comportandovi con arroganza, ad aumentare la sua fama, affinché non si diventi noi più colpevoli a causa dell'invidia, che lui a causa della giustizia…Se decidete di procedere contro di lui, secondo il diritto canonico, dovete esaminare il suo pensiero o il suo scritto, e se lo interrogate dovete lasciarlo parlare liberamente così che colpevole o pentito, taccia poi per sempre>.
Ma gli altri non accettarono perché, dissero, non potevano combattere contro l'abilità oratoria di un uomo ai cui argomenti e sofismi il mondo intero non avrebbe saputo resistere. Poiché non riusciva a frenarli, Goffredo disse che i pochi prelati presenti non erano sufficienti per giudicare una questione così importante. Egli suggeriva quindi che Abelardo fosse riportato dal suo abate nel monastero, in modo che convocato un maggior numero di prelati più preparati, sarebbe stato possibile decidere cosa fare. Il legato Conone si dichiarò d'accordo, ma gli avversari, resisi conto che così facendo non avrebbero potuto fare più nulla, convinsero il vescovo che sarebbe stato umiliante per lui se la causa fosse stata trasferita altrove e sarebbe stato pericoloso per tutti se Abelardo fosse sfuggito alla condanna.
Convinsero anche Conone che era contrario, che bisognava bruciare il libro senza processo e senza esitazione. Sia il vescovo sia il legato non furono in grado di impedire che Abelardo fosse costretto a bruciare il libro con le sue mani. Dopo un'ulteriore diatriba, il vescovo invitava Abelardo a esporre la sua fede, ma mentre si alzava, gli avversari dissero che era sufficiente che recitasse il Simbolo di Attanasio (costituito da quaranta proposizioni ritmiche che compendiavano le verità della fede, e completavano il catechismo ed era imparato a memoria dai bambini). Era un'offesa per Abelardo. Per maggior disprezzo per il suo sapere, gli fecero portare il testo che Abelardo lesse tra sospiri, lacrime e singhiozzi. Dopo di che, condannato e colpevole venne affidato all'abate del monastero di s. Medardo dove Abelardo fu portato come in un carcere, e lì egli pianse più per le ferite inferte alla sua fama che per quelle che erano state inferte al suo corpo.
LA POLEMICA SU BEDA E ILDUINO
La notizia della condanna si divulgò in pochissimo tempo e tutti espressero la loro disapprovazione. Coloro che avevano condannato Abelardo fecero a gara per discolparsi, ognuno accusando gli altri. Il legato pontificio, essendosi pentito lo fece uscire dal monastero di s. Medardo e lo fece ritornare a s. Dionigi, dove però tutti i monaci gli erano ostili ben sapendo che in lui <non avrebbero avuto un complice e non sarebbero riusciti a coinvolgerlo nell'impudicizia della loro vita e delle loro vergognose abitudini>. L'occasione per accanirsi contro di lui fu causata proprio da Abelardo il quale nel leggere gli Atti degli Apostoli di Beda il Venerabile (8), era stato colpito da una frase secondo cui Dionigi l'Areopagita, era stato vescovo di Corinto e non di Atene. Il san Dionigi di cui portava il nome il monastero era proprio questo, e i monaci di quel convento lo consideravano vescovo di Atene (in quanto si riteneva che Dionigi, convertito da s. Pietro, era giudice del tribunale che aveva sede nell'areopago di Atene, nda.), anzicchè di Corinto.
Abelardo <per gioco> mostrò la frase ai confratelli che di questo scherzo ne furono indignati dicendo che non c'era da fidarsi di quello che aveva scritto Beda, in quanto era più sicuro ciò che aveva detto il loro antico abate Ilduino (nel IX sec.), il quale aveva fatto ricerche su san Dionigi ed era stato in Grecia, dove aveva appurato la verità e aveva scritto la vita del santo proprio per eliminare ogni dubbio. Uno dei monaci gli rivolse subito una domanda pericolosa, cioè, se lui si fidava più delle parole di Beda o di Ilduino. Naturalmente Abelardo che era fatto apposta per mettersi nei guai, rispose che si fidava delle parole di Beda di cui apprezzava l'autorevolezza, riconosciuta dall'intera Chiesa latina, anziché di Ilduino. Abelardo non aveva fatto altro che vivificare una polemica - quella sullo pseudo-Dionigi e sul Corpus Dionysianum - che, già iniziata secoli prima, continuerà nei secoli a venire, fino all'età moderna (9).
Non mancò la reazione dei monaci che gli gridarono che finalmente egli mostrava apertamente l'ostilità sempre mostrata nei confronti del monastero, e per questo voleva screditarlo in tutta la Francia, privando il convento di quella ricchezza che procurava loro gloria e fama (10), e la stessa abbazia era Abbazia reale. Il <gioco> di Abelardo era stato a dir poco superficiale e comunque provocatorio e la reazione dei monaci anche se esagerata era piuttosto giustificata. Ma Abelardo rispose che (per lui) non aveva importanza che il loro patrono provenisse dall'Areopago, o da qualche altra parte; era invece importante che egli avesse ottenuto da Dio una corona di nobiltà per le sue virtù. Ma i monaci corsero dall'abate, Adamo, per riferirgli tutto ciò che a loro piacque, e all'abate non parve vero di aver avuto un buon motivo per perseguitarlo.
LA FUGA DAL MONASTERO DI S. DIONIGI
L'
abate in presenza del consiglio e di tutti gli altri monaci, lo minaccia in tutti i modi dicendogli che lo manderà dal re per fargli avere la giusta punizione, dando disposizioni di sorvegliarlo fino a quando fosse stato condotto dal re. Inutilmente Abelardo aveva fatto presente di essere d'accordo a subire una punizione contemplata dalla regola, se avesse commesso una colpa.Consigliatosi con i suoi accompagnatori, ritennero che se Abelardo si fosse trasferito, ciò sarebbe stato un disonore per la loro abbazia, perciò non vollero sentir ragione né dal conte né da lui, anzi lo invitarono a tornare al più presto, minacciandolo di scomunica, e questa sarebbe stata estesa al priore che lo ospitava! Rientrando al monastero, Adamo, al quale Abelardo aveva scritto una lettera per riconciliarsi, morì. Abelardo si rivolse quindi al suo successore, Sugerio (che per le sue capacità diventerà reggente del regno, quando Luigi VII partiràper la seconda crociata), e, grazie anche all'intervento del re e all'intercessione del suo siniscalco, Stefano Garlando, amico di Abelardo, ottenne di andare in un luogo solitario, a condizione che non si legasse a nessun'altra abbazia, in modo che il monastero non venisse privato dell'onore che gli conferiva la sua presenza.
IL PARACLETO
Abelardo scelse un posto isolato e solitario dalle parti di Troyes, e, su un pezzo di terra che ottenne in regalo, avuto il consenso del vescovo, con l'aiuto di un chierico, costruì con canne e paglia, un oratorio che dedicò alla ss. Trinità. Gli studenti che letteralmente lo braccavano, vennero a sapere dove il loro maestro si era rifugiato, e lasciando città e castelli, e rinunciando alle loro grandi case e ai cibi delicati, lo raggiunsero, accontentandosi di dormire su letti di paglia, in piccole capanne che si erano costruiti, alimentandosi con erbe selvatiche e pane duro. Costoro procuravano ad Abelardo tutto quello di cui avesse bisogno, cibo, abiti, coltivavano i campi, facevano fronte a tutte le spese, purché il loro maestro si dedicasse allo studio e non fosse distratto da alcuna preoccupazione materiale
La durezza della vita alla quale questi scolari si erano sottoposti, agli occhi dei suoi nemici, costituiva motivo di gloria per il maestro, e di ignominia per loro. Costoro avevano fatto tutto ciò che avevano potuto contro Abelardo e alla fine si accorgevano che tutto si risolveva a suo vantaggio.
E quando l'oratorio costruito da Abelardo non poté contenere che una piccola parte di studenti, essi lo ricostruirono in pietra e legno. Abelardo che aveva dedicato l'oratorio che aveva costruito con le sue mani alla ss. Trinità, ora, sentendosi più sollevato, chiamò il nuovo oratorio <Paracleto cioè Consolatore>. Ma questo nome suscitò subito il risentimento dei suoi nemici. Essi ritenevano che non era lecito dedicare una chiesa allo Spirito Santo piuttosto che a Dio padre, e sarebbe stato meglio dedicarla al solo Figlio oppure a tutta la Trinità.
A questo punto Abelardo che ben conosceva il problema della Trinità, precisa: <Costoro erano stati indotti in errore ritenendo che non vi sia alcuna differenza tra Paracleto e Spirito Paraclito. Invece, come la Trinità stessa, o una qualsiasi delle persone della Trinità, può essere chiamato Dio o Salvatore, può essere chiamata anche Paracleto, che significa consolatore. Se ogni chiesa può essere consacrata al Padre, Figlio e Spirito Santo, cosa impedisce di intitolarla al Padre o al Figlio o allo Spirito Santo?. Comunque,> conclude Abelardo, <avevo chiamato l'oratorio Paracleto non per dedicarlo a una delle persone della Trinità, ma in memoria del conforto che mi fu dato>…aggiungendo, tanto per precisare!…<anche se l'avessi dedicato a una sola Persona, non vi sarebbe stata alcuna ragione in contrario, come ho dimostrato, anche se non rientra nella consuetudine>.
I DUE NUOVI APOSTOLI
Due nuovi nemici si profilavano all'orizzonte di Abelardo. I vecchi nemici avevano lottato inutilmente per fargli del male. Non essendo riusciti a raggiungere i loro scopi, gli istigarono contro due personaggi che all'epoca erano diventati già famosi e avevano raggiunto gran prestigio, anche fuori della Francia.
Abelardo non li nomina ma essi erano Bernardo di Clairveux (che sarà santificato dalla Chiesa), l'altro, Norberto di Magdeburgo, fondatore di un nuovo ordine, quello dei Canonici Regolari di Prémontré (presso Laon, da cui il nome di premonstratensi), anch'egli santificato. Ambedue personaggi importanti nelle loro attività monastiche ed ecclesiastiche e fautori di riforme. Norberto, infatti, aveva ricondotto alla vita comunitaria il clero delle cattedrali e delle parrocchie. Bernardo aveva realizzato la riforma (giunta a maturazione con il movimento della Patarìa, 1045-1085), facendo rivivere nei monasteri la regola di s. Benedetto con nuovo e più intenso rigore. Essi, percorrendo la Francia per svolgere le loro attività, usando tutto il loro ascendente, e spargendo notizie sinistre, non solo sulla sua fede, ma sulla sua vita (avevano avuto modo di attaccare Abelardo in tutti i modi, <senza vergogna>, come scrive Abelardo), erano riusciti a mettergli contro sia ecclesiastici che autorità secolari, allontanandogli anche i migliori amici.
Bernardo aveva raccolto i vari racconti e le maldicenze dei nemici di Abelardo, e si era così caricato di risentimento nei suoi confronti da ricorrere a tutti i mezzi, anche i più scorretti, per distruggere Abelardo e le sue opere.
Non si spiega diversamente il fatto che Bernardo era arrivato a far destituire dall'incarico di corte Stefano Garlando, siniscalco del re (Luigi VI), soltanto perché questo era amico di Abelardo, e lo aveva appoggiato quando era fuggito dal monastero di s. Dionigi. Non solo, ma aveva fatto cacciare dalla Francia, dopo averlo fatto condannare, Arnaldo da Brescia, colpevole di essere stato discepolo di Abelardo, e di predicare contro la ricchezza e la potenza temporale della Chiesa.
Ricorrendo allo stesso sistema usato per Abelardo, Bernardo aveva cercato di far condannare il vescovo Gilberto di Poitiers, famoso teologo, che proveniva dalla scuola urbana di Abelardo (e suo probabile discepolo), che seguiva il metodo del maestro, quello della dialettica applicata alla teologia. Non gli andò bene come per Abelardo, perché la maggior parte dei cardinali si era irritata per aver capito dove Bernardo volesse arrivare. Costui però intestardito, andò a trovare il papa per portarlo dalla sua parte, ma Gilberto aveva saputo difendersi egregiamente, perciò in concilio si giunse a strappare soltanto un <quaderno> che Gilberto stesso aveva sconfessato.
Perché Bernardo si era accanito contro Abelardo venendo meno ai principi cristiani che andava predicando, fino al punto da usare l'inganno per farlo condannare?.
Non certamente per i <pericoli che potevano incrinare la fede> di cui lui si ergeva a difensore. Certamente vi era una componente interiore che lo spingeva a intervenire là dove non intervenivano il papa o le altre autorità religiose.
Non solo. Ma in lui giocava anche un conflitto interiore, quando si trovava di fronte a personalità che egli sentiva superiori. E la sua personalità certamente non raggiungeva quella di Abelardo. Anche le nascite erano diverse.
Mentre Abelardo era di famiglia nobile, Bernardo era nato da un padre, semplice castellano, che prestava servizio di guarnigione nel castello di Fontaine, facente parte del feudo del duca di Borgogna. La madre, invece, era di nobile famiglia, per questo Bernardo si trovava ad avere zii e cugini materni che ricoprivano cariche importanti, che certamente gli facevano avvertire il peso della differenza sociale. Egli quindi aveva sviluppato quell'ambizione (diversa da quella di Abelardo fondata sulla cultura e sul sapere), che lo aveva portato a frequentare i grandi dell'epoca, re, principi, papi, con i quali era in continuo contatto, e che tempestava di lettere (è nota la sua produzione epistolare, e per farvi fronte aveva organizzato uno scriptorium con segretari che scrivevano per lui), pur sempre ricche di consigli, suggerimenti, richiami alla fede. Egli, quasi compiaciuto, scriveva al papa, <si dice che non siete voi ad essere il papa, perché da ogni parte coloro che hanno questioni da risolvere si rivolgono a me>. Certamente la sua vita contrastava con la vita ascetica che egli stesso aveva imposto agli altri.
Bernardo, in ogni caso aveva maturato un carattere autoritario e violento che contrastava con il misticismo che gli veniva attribuito. Pur di raggiungere i suoi scopi non rifiutava il ricorso alla furbizia, all'adulazione, alla minaccia, all'insinuazione e all'ingiuria per squalificare i nemici. In molti casi era invadente, s'intrometteva per far valere con la minaccia il suo punto di vista.
Predicava l'umiltà (il monaco deve essere umile, nascondersi, piangere e pregare), e praticava l'ascesi, ma diventava paladino dell'intolleranza quando tuonava contro gli eretici, che qualificava: <uomini e donne perduti nei vizi, corrotti, immondi, ipocriti che basta stanare, incapaci di comprendere argomenti razionali (richiamando la razionalità quando proprio la religione cristiana non l'ammette! nda.), e le donne le qualificava <povere donne idiote e senza cultura>.
La sua attività più che monastica, si era svolta all'esterno. Si era reso artefice della seconda crociata, rivelatasi un insuccesso. Aveva contribuito a fondare l'Ordine dei Templari. Si era prestato per risolvere il problema dei due papi rivali eletti alla morte di Onorio II (1130), facendo in modo che Innocenzo II, che lui appoggiava prevalesse su Anacleto II. In quest'occasione, per la riconciliazione di Ruggero II di Sicilia con il papa, aveva organizzato il matrimonio del figlio primogenito, Ruggero, con Elisabetta di Champagne, figlia di Tibaldo II di Champagne, cogliendo l'occasione per fondare un altro monastero di Clairveaux, a Chiaravalle, in Sicilia. Innocenzo però aveva pensato di ridurre a partito Ruggero II con le armi. Fu invece sconfitto e fatto prigioniero e dovette confermargli tutte le concessioni che gli erano state fatte da Anacleto.
Sarà Bernardo a imbastire il processo contro Abelardo.
L'ABBAZIA DI S. GILDAS
Abelardo era così traumatizzato che quando veniva a sapere di qualche riunione di ecclesiastici, pensava che lo facessero per condannarlo! Egli viveva nel continuo timore di essere trascinato in un concilio o in un tribunale per essere giudicato come eretico o sacrilego, e cadeva in tale disperazione che pensava di abbandonare i territori della cristianità per recarsi presso popoli di altre religioni e vivere tra costoro, a costo di pagare qualsiasi tributo gli fosse stato richiesto. (11)
In quei giorni di crisi del Paracleto, gli venne proposto di dirigere un'abbazia, quella di s. Gildas de Rhuys (nei pressi di Vannes in Bretagna), che aveva perduto il suo abate. La proposta gli era stata fatta dagli stessi monaci di quest'abbazia che lo avevano prescelto, col consenso del signore di quella zona. Abelardo, avuto il consenso del suo abate e dei confratelli accettò, ma soltanto per sfuggire alle persecuzioni. L'abbazia si trovava all'estrema propaggine di una terra in prossimità dell'oceano, e la vista dell'oceano toglie ad Abelardo, sempre in fuga, ogni ulteriore speranza di fuga.
La zona era barbara e selvaggia, battuta dai venti del nord e dal fragore delle onde, gli stessi abitanti erano inumani e selvaggi e parlavano una lingua sconosciuta allo stesso Abelardo che era bretone. Ben nota però, dice Abelardo, era la vita turpe e sfrenata dei monaci, i quali non avevano proprietà comuni che egli potesse amministrare, ma ognuno manteneva le sue concubine e i suoi figli con la propria borsa, arrivando anche a rubare e portar via tutto quello che fosse loro possibile. <Ero certo che se avessi cercato di imporre l'ubbidienza alla regola di vita a cui si erano votati (Abelardo aveva già fatto esperienza nel monastero di s. Dionigi!), non sarei vissuto a lungo, ma se non avessi fatto tutto ciò che potevo, la mia anima sarebbe stata dannata>.
ELOISA PRIORA DEL PARACLETO
Eloisa, dopo aver preso il velo monastico, si trovava come abbiamo visto nel convento di Argenteuil dove era priora di grado inferiore solo alla badessa. In occasione della riforma monastica che si stava preparando per tutte le abbazie della Gallia, durante l'assemblea generale venne riferito che in quel convento un gruppo di suore si comportava in modo indegno, svergognando il loro ordine e facendo gran male alle consorelle, scandalizzate della loro impurità. Sugero, che era abate di s. Dionigi, riteneva di avanzare pretese su quel convento che in origine, dal tempo di Pipino il breve, era alle dipendenze dell'abbazia ed era stato separato dall'abbazia sotto Carlo Magno per diventare convento femminile, la cui prima badessa era stata la figlia stessa dell'imperatore Teobrada. Era stato stabilito che alla morte di Teobrada il convento femminile sarebbe passato di nuovo sotto la giurisdizione dell'abbazia tanto che Ilduino, che abbiamo visto essere diventato cappellano dell'imperatore Ludovico il Pio, aveva fatto riconfermare questa concessione. Sugero, che voleva mettere ordine nei diritti e privilegi dell'abbazia, costatando che il monastero di Argenteuil era dipendenza dell'abbazia, aveva sollevato il problema, mandando messaggeri dal papa Onorio, per risolvere la questione.
In occasione delle accuse, Sugero aveva mostrato i documenti, perciò fu deciso che l'abbazia sarebbe rientrata nel possesso del convento e le monache sarebbero state espulse e sostituite da monaci. Nel frattempo giunse anche la bolla del Papa che ratificava la restituzione, con il compito per Sugero di collocare le monache scacciate in conventi di buona reputazione, per evitare che qualcuna di loro si smarrisse e perisse per il proprio errore.
Quando Abelardo venne a sapere che le monache sarebbero state disperse tra i vari monasteri, gli venne l'idea di far dono del suo oratorio al Paracleto. Invitò quindi Eloisa a recarvisi con le monache sul posto e ne fece dono, donando anche tutto ciò che ne faceva parte. Il Papa Innocenzo II, confermò la donazione anche per tutte le monache che fossero arrivate in futuro, anche con l'ulteriore assenso del vescovo.
All'inizio in quel nuovo monastero le monache conducevano una vita povera e si sentivano abbandonate. In breve tempo però, quelli che abitavano intorno al monastero, presi da benevolenza e compassione, le aiutarono riuscendo a ottenere dalle terre tanta ricchezza quanto, scrive Abelardo, lui n'avrebbe ricavata in cento anni. Eloisa aveva tanta grazia agli occhi di tutti che i vescovi l'amavano come fosse una figlia, gli abati come una sorella, i laici come una madre, e tutti ne ammiravano lo spirito religioso, la saggezza, l'inimitabile dolcezza e pazienza. Eloisa si lasciava vedere raramente, dedita, nel chiuso della sua cella alla preghiera e meditazione, per questo era ancora più desiderata e i suoi consigli spirituali ricercati. Dopo qualche anno (1136) Eloisa divenne badessa del convento che reggerà fino alla morte avvenuta nel 1164, ventidue anni dopo quella di Abelardo e sarà sepolta accanto al suo sposo (12).
Anche in questa occasione non poterono mancare accuse e insinuazioni per Abelardo. Tutti quelli che abitavano nelle vicinanze del monastero accusavano Abelardo di non provvedere alla povertà del convento, secondo le sue possibilità, cosa che avrebbe potuto fare anche con la predicazione. Per questo motivo egli prese l'abitudine di recarsi al convento più spesso, per aiutare le monache in qualche modo.
Queste visite non fecero che suscitare invidie e mormorazioni e ciò che lui faceva per carità, era considerato come spudoratezza dai suoi detrattori i quali andavano dicendo che era preso ancora da desideri carnali e che non poteva sopportare di star lontano dalla donna che un tempo aveva amato. E Abelardo si diceva: <Come possono i miei nemici trovare in me un minimo appiglio per le loro calunnie, dal momento che sono stato privato di qualsiasi motivo di sospetto; come possono sospettare di me cui è stata tolta la possibilità fisica di compiere azioni vergognose?>. Come possono sospettare <se questa mutilazione allontana qualsiasi sospetto…tanto è vero che chiunque voglia custodire con sicurezza delle donne le affida agli eunuchi?>.
Abelardo conclude ricordando quando aveva subito la mutilazione, dicendo che il dolore che aveva subito fu minore perché di breve durata e improvviso, in quanto, aggredito nel sonno non sentì alcun male. Ma se allora quella ferita non gli causò un dolore intollerabile, la calunnia invece lo perseguitava ed egli si preoccupava più per i danni provocati alla sua fama che alla menomazione del suo corpo.
I TENTATIVI DEI MONACI DI AVVELENARE ABELARDO
Il feudatario della zona, potentissimo tiranno, spadroneggiava sull'abbazia già da tempo, e l'occasione per farlo gli era stata fornita dall'indisciplina del monastero. I monaci peraltro, infastidivano Abelardo in continuazione perché provvedesse alle loro necessità e si divertivano ad affliggerlo con i loro problemi materiali, cercando di farlo apparire un amministratore incapace e di costringerlo o ad abbandonare il tentativo di imporre loro una disciplina o di andarsene definitivamente. Egli era venuto a trovarsi tra due fuochi. All'esterno il tiranno e i suoi alleati che lo opprimevano costantemente, all'interno i monaci che gli tendevano insidie senza dargli tregua, attentando anche alla sua vita.
Essi infatti avevano tentato varie volte di liberarsi di lui col veleno, e attentavano quotidianamente alla sua vita, tanto da metterlo in condizione di provvedere personalmente al suo cibo e alle bevande. I monaci, non essendo riusciti ad avvelenarlo col cibo e le bevande, tentarono di assassinarlo durante il sacrificio della messa, mettendo il veleno nel calice. Questi tentativi furono fatti anche quando Abelardo era in viaggio. Accadde che essendosi recato a Nantes per visitare il conte-tiranno che si era ammalato, ed era ospite del fratello, quei monaci, pensando che in casa del fratello Abelardo sarebbe stato meno accorto, d'accordo con uno dei servi del suo seguito, fecero avvelenare il cibo che per puro caso egli non aveva ancora toccato, ma un monaco del seguito mangiandolo era stramazzato, fulminato dal veleno.
Dopo questo episodio, Abelardo decise di sottrarsi pubblicamente alle insidie, abbandonando l'abbazia e trasferendosi con pochi compagni in un eremo. Ma i suoi confratelli non desistevano. Tutte le volte che venivano a sapere dei suoi spostamenti ingaggiavano dei malviventi perché lo uccidessero lungo le strade e sentieri che egli percorreva. In uno di questi viaggi Abelardo cadde da cavallo e si ruppe la clavicola. Questa frattura, egli dice, lo afflisse e indebolì più dell'evirazione.
Abelardo cercò di frenare una volta per tutte l'indomabile ribellione dei monaci, minacciando di scomunicarli e costrinse alcuni di loro a giurare in pubblico e sulla loro parola di abbandonare l'abbazia, e che non lo avrebbero più perseguitato. Ma essi violarono senza vergogna la parola e il giuramento. La questione fu sottoposta al papa (Innocenzo II) il quale nominò un legato per risolvere la questione, e i monaci ribelli furono costretti a ripetere il precedente giuramento e a farne altri in presenza del conte-feudatario e del vescovo. Ma tutto fu invano. Rientrando nel monastero i monaci verso i quali egli nutriva meno sospetti si rivelarono peggiori di quelli che erano stati scacciati, e solo con l'aiuto di un nobile del posto Abelardo era riuscito a sfuggire a stento a costoro che lo avevano affrontato non con il veleno, ma puntandogli la spada alla gola. <Anche ora lotto contro il pericolo e vivo ogni giorno nel sospetto come se una spada fosse pronta a cadermi sul collo, al punto che all'ora dei pasti riesco a malapena a respirare>.
IL PROCESSO MANIPOLATO DA BERNARDO: IL CONCILIO DI SENS
I
timori e le paure di Abelardo non erano infondati. I due impietosi apostoli non avevano dimenticato che vi era un uomo, in un angolo disperso della Gallia, che pur nella sua solitudine e dopo tante vicissitudini che avevano travagliato la sua vita, pur avendo, con il suo intelletto, illuminato gli studi di diverse branche del sapere umano, aveva avuto il torto di introdurre in quegli studi, nuovi percorsi che avevano anticipato i tempi a venire.Accadde che l'iniziativa era partita da Guglielmo di Saint-Thierry, autore di opere di teologia e mistica, amico e ammiratore di Bernardo, il quale si era rivolto a Bernardo e a Goffredo di Lèves, dicendosi <scosso per aver letto per caso nella Teologia di Abelardo cose non di poco conto, riguardanti la santissima Trinità, la persona del Mediatore, dello Spirito Santo, della grazia di Dio e del mistero della redenzione. Pietro Abelardo, di nuovo insegna e scrive cose nuove. I suoi libri vengono celebrati e liberamente accettati riscuotono autorità anche dalla curia romana, i suoi nuovi insegnamenti si diffondono per regni e province …il vostro silenzio è pericoloso sia per voi che per la chiesa di Dio…egli agisce come nemico all'interno della Chiesa…comportandosi con le Sacre scritture come si comportava in dialettica, apportandovi invenzioni che gli sono proprie e novità di anno in anno>.
Guglielmo allega un elenco di quattordici errori e una Disputatio adversus Petrus Abelardus (Discussione contro Pietro Abelardo).
Bernardo non si lascia sfuggire l'occasione e scrive immediatamente un trattato (non propriamente documentato) sotto forma di lettera al papa Innocenzo II. Abelardo dal suo canto scrive una breve Confessione di fede in risposta ai quattordici errori di Guglielmo. Anche un altro benedettino l'abate Tommaso di Morigny scrive contro Abelardo una Discussione critica dei padri cattolici. Bernardo, nel giro di pochi mesi scrive lettere a molti dignitari della chiesa denunciando i pericoli che l'insegnamento e gli scritti di Abelardo facevano correre alla fede.
E' Abelardo a compiere il passo decisivo. Chiede all'arcivescovo di Sens da cui dipendeva il vescovado di Parigi, di convocare Bernardo a un concilio per la Pentecoste del 1140 in cui ciascuno dei due avrebbe potuto esporre il suo punto di vista. Ma Bernardo su questo campo, in cui primeggiava Abelardo, sarebbe stato perdente. Avendo avvertito questa possibilità, abituato com'era alle scaltrezze della diplomazia, si comporta anche in maniera ignominiosa. Pur sapendo che i vescovi erano dalla sua parte, il giorno precedente a quello fissato per l'incontro, convoca i due arcivescovi e li convince a adottare un'altra procedura. Molto scorrettamente aveva preparato una lista di diciannove proposizioni eretiche, che fa subito condannare dai vescovi. Su di esse avrebbe dovuto pronunciarsi Abelardo.
Abelardo ignaro si presenta (3 giugno 1140) alla cattedrale e la trova piena di tutti i prelati, maestri, studenti, nobili, abati e presente era perfino il re di Francia col suo seguito, tutti convocati da Bernardo, che con le sue manipolazioni aveva trasformato quello che doveva essere un semplice dibattito su una controversia, in vero e proprio processo di eresia.
Bernardo, che al momento si trasforma in accusatore, gli legge la lista delle proposizioni che aveva fatto condannare dai vescovi e gli chiede subdolamente se le riconosce come proprie. Abelardo preso così alla sprovvista, risponde semplicemente che avrebbe fatto ricorso a Roma e se ne va via.
Questa reazione di Aberlardo, sempre combattivo lascia veramente sorpresi. Un suo allievo (Goffredo di Auxerre), biografo di Bernardo, aveva avanzato l'ipotesi dello stupore che aveva colpito Abelardo, ipotesi che non sembra da escludere.
Abelardo infatti pensava di trovare il solo arcivescovo di Sens e il suo contraddittore, tutt'al più qualche ecclesiastico che avrebbe dovuto assistere al dibattito, non certamente la cattedrale gremita di personalità, addirittura con la presenza del re e del suo seguito. Altro che stupore!. Vi era da indignarsi e indispettirsi!. Ancora oggi una simile strategia suscita ira di fronte a tal genere di manovre che non possono trovare alcuna giustificazione, che qualche studioso ha ritenuto rappresentare sostenendo di essersi trattato di <manovre tra contendenti>, nel senso che, <avendo Abelardo pensato di attirare Bernardo sul suo terreno, si era trovato con Bernardo ad averlo attirato sul suo>!
Questo terreno da parte di Bernardo era stato un terreno da sotterfugio, intrigo, inganno, arti in cui Bernardo era esperto e in cui eccelleva.
Il ricorso a questi mezzi usati con spietatezza, è confermato dal fatto che quando Abelardo se ne va via dall'assemblea, Bernardo chiede ugualmente, e ottiene, la condanna, con la giustificazione che doveva essere mandata al papa. Non solo, ma Bernardo, per anticipare Abelardo che aveva annunciato che avrebbe fatto ricorso a Roma, si precipita a mandare missive all'amico papa, il quale il 16 luglio (43 giorni dopo!), emette la condanna di eresia che coinvolgeva tutte le opere di Abelardo.
FINE DI UNA VITA INTENSA E TRAVAGLIATA
Abelardo lasciata l'assemblea, si mette in cammino per recarsi a Roma, facendo tappa a Cluny. Abate di questo monastero era Pietro il Venerabile, che da sant'uomo qual'era lo accoglie amorevolmente e lo convince a non andare a Roma e a fermarsi a Cluny.
Abelardo arrivando a Cluny, non è più il combattente pieno di forza interiore e di volontà, è un uomo completamente cambiato, come vedremo nella descrizione dello stesso abate.
Pietro il Venerabile, scrivendo a Eloisa per annunciarle la morte di Abelardo, avvenuta due anni dopo, nell'elogiarlo per il suo singolare magistero della scienza, dice che era stata la disposizione divina ad averlo fatto pervenire a Cluny, e che aveva arricchito il monastero di un dono più prezioso dell'oro e del topazio. <La sua vita religiosa>, prosegue Pietro, <santa, umile e devota trascorsa tra noi, per quante testimonianze possa rendere il monastero, non si può descrivere con due parole…non ricordo di aver visto qualcuno simile a lui nell'atteggiamento e nel gesto di umiltà…non poteva essere più umile di s. Germano né più povero di s. Martino. Quando tra i nostri fratelli occupava, perché costretto da me, un grado elevato, appariva l'ultimo di tutti per la povertà del suo abito. Spesso mi meravigliavo, quando mi precedeva nelle processioni, e quasi mi stupivo, nel vedere come un uomo della sua fama potesse disprezzarsi e umiliarsi fino a tal punto>.
Questi due anni Abelardo li passa curvo sui libri, dedito agli studi, alla letture, alla scrittura, insegnando, tenendo qualche discorso su argomenti filosofici e confrontandosi con i fratelli su argomenti religiosi. Per l'interessamento dell'abate era stata tolta la condanna di eresia e Abelardo era stato restituito alla grazia apostolica.
Egli, trascurava il cibo, le bevande, e quel che è peggio, ogni cura del corpo. Proprio questa mancanza di cura per il proprio corpo, gli aveva fatto insorgere la scabbia da cui era tormentato (13), tanto che l'abate lo aveva mandato a Chalon-sur Saones per alleviargli le sofferenze.
Alla fine Abelardo si aggrava e, come scrive Pietro, <per pagare il debito che è comune a tutti noi mortali, in breve arrivò il suo ultimo giorno>.
Bibliografia: Ci sembra doveroso l'omaggio alla modestissima edizione della Newton Compton (100 pag. 1000 lire,1994) che però è preziosa nei contenuti, per la erudizione della introduzione e delle note curate da Gabriella D'Anna, che consentono di avere sottomano tutti gli studi e convegni che sono stati fatti sull'argomento. Rimandiamo a questo libretto per la bibliografia, indicando anche il testo della BUR (Abelardo: Lettere di Abelardo e Eloisa), e quello di Régine Pernoud: Eloisa e Abelardo, Edito da Jaca Book.