A cura di Diego Fusaro
"Viste le ragioni per le quali le cose né singolarmente né collettivamente prese si posson dire universali, in quanto l’universale si predica di molti, resta che attribuiamo l’universalità solo alle parole.
Come dunque certi nomi son detti dai grammatici appellativi, e certi altri propri, cosí dai dialettici certe espressioni semplici son dette universali, certe altre particolari, ossia singolari. L’universale è un vocabolo trovato in modo da esser capace di essere predicato singolarmente di molti, come per esempio il nome uomo è unibile ai nomi particolari degli uomini, per la natura dei soggetti reali ai quali è imposto. Il singolare, invece, è quello che è predicabile di uno solo, come per esempio Socrate, quando è preso come nome di un uomo solo. Se infatti lo si assume equivocamente, non si ha piú una parola sola, ma molte per il significato, poiché, secondo Prisciano, molti nomi possono essere impliciti in un’unica espressione verbale. Quando si descrive l’universale come ciò che si predica di molti, quel ciò che non solo indica la semplicità dell’espressione per distinguerlo dai discorsi composti, ma anche l’unità del significato, per distinguerlo dai termini equivoci".
Della concezione abelardiana si ricorderà lo stesso Umberto Eco, in Il nome della rosa, quando – in chiusura del suo capolavoro – scriverà: "stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus". Abelardo passa successivamente ad affrontare
questioni teologiche, quando ha ormai elaborato questo ricco bagaglio di analisi logiche: ritiene che, finchè la ragione è nascosta, è necessario ricorrere all'autorità; ma in ciò che può essere discusso dalla ragione, tale ricorso non è più necessario. Sulle cose divine la ragione da sola è insufficiente, può pervenire soltanto a soluzioni verosimili, non contrarie alla fede. Ciò non significa che sulle cose della fede non si debba discutere: anche per credere occorre intendere (come già diceva Anselmo) ciò che si crede e rendersi conto che i contenuti della fede non danno luogo a proposizioni contraddittorie. Inoltre, per controbattere coloro che fanno un cattivo uso della dialettica anche in ambito teologico, occorre, comunque, saper usare la dialettica. Abelardo afferma nella Dialettica: "Ogni scienza è buona, anche quella che tratta del male". Il ricorso alla ragione è tanto più importante in quanto non di rado i Padri della Chiesa paiono enunciare opinioni contrastanti sulle stesse verità della fede: Abelardo è tra i primi a formulare una serie di criteri per valutare ed eventualmente appianare tali divergenze. Ciò avviene in una delle opere più emblematiche dal punto di vista del metodo, il Sic et non, letteralmente il "sì e no". E' uno scritto a carattere didattico, che intende addestrare i giovani teologi alla ricerca della verità: si parte da un problema, si elencano le soluzioni non di rado contrastanti, almeno apparentemente, date ad essa da parte dei Padri della Chiesa, desumendole dai loro scritti, e infine si tenta d'individuare dove stia la verità. Nel Sic et non, Abelardo affronta circa 150 problemi teologici, raggruppati per temi. Per dissolvere o ridurre le apparenti contraddizioni nelle soluzioni proposte dalla tradizione, Abelardo enuncia alcune regole: in primo luogo, si tratta di accertare se certe espressioni non sono poi smentite dagli stessi autori oppure se riferiscono opinioni altrui, inoltre, occorre soprattutto tener conto del fatto che le medesime parole sono sovente usate da autori diversi con significati diversi, perché ogni autore ha un suo specifico modo di parlare e di scrivere. Tenendo conto di ciò, "si troverà per lo più facile la soluzione delle controversie", tuttavia, in casi di contrasto insanabile occorrerà dare la preferenza alle tesi che hanno maggiori argomenti a loro favore. In tal modo, Abelardo rivendica libertà di giudizio anche nei confronti delle opere dei Padri, le quali non devono essere lette con l'obbligo di credere. Ciò conduce Abelardo a rivalutare i contributi dei filosofi pagani: anch'essi già prima di Cristo hanno scoperto alcune verità; la rivalutazione della filosofia antica e la formidabile padronanza dialettica varranno ad Abelardo il soprannome di "Peripatetico palatino". In questo modo, egli si riallaccia ad una impostazione tipica della prima riflessione filosofica cristiana. Gli stessi filosofi pagani hanno in qualche modo riconosciuto la Trinità, quando hanno parlato di Dio, dell'Intelletto divino e dell'Anima del mondo, che Abelardo avvicina allo Spirito Santo: negli ultimi anni del suo soggiorno a Cluny, Abelardo scrive il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano, rimasto incompiuto. L'Abate di Cluny, Pietro il Venerabile, era un fautore del dialogo con l'Islam e questo scopo egli aveva anche fatto tradurre in Spagna il Corano in latino. I tre personaggi dell'opera di Abelardo credono tutti in un Dio unico, ma due hanno leggi scritte, mentre il filosofo si accontenta della sola legge naturale . Dapprima dialogano il giudeo e il filosofo, che non può accettare una religione fondata esclusivamente sulla Scrittura, poi dialogano il filosofo e il cristiano, che mostra il carattere ragionevole della fede. Non é irrilevante il fatto che, proprio in riferimento al soggiorno di Abelardo a Cluny, con Pietro il Venerabile, il filosofo del dialogo sia nato in un paese dell'Islam. L’opera si apre con una rapida introduzione in cui a parlare è Abelardo stesso, che così racconta: "in una visione notturna, vidi tre uomini che arrivavano per sentieri diversi" – chiara allusione alle tre differenti prospettive di cui essi son portavoce. Tutti e tre adorano sì lo stesso Dio, ma in maniere assai diverse: il filosofo è illuminato dalla sola legge naturale, gli altri due dal Libro. Si recano da Abelardo per chiedergli di essere giudice di un confronto che li vede contrapposti: si tratta di un confronto tra i tre diversi tipi di religione. Abelardo, sbalordito, domanda perché abbiano scelto proprio lui come giudice e il filosofo gli rivela che è stato lui a prender tale decisione, poiché muove alla ricerca della verità sotto la sola guida della ragione, evitando le opinioni. Il filosofo, inoltre, sostiene (e in ciò leggiamo il pensiero dello stesso Abelardo) che il vero obiettivo della filosofia (e di ogni altra disciplina) è la morale, ossia lo studio del sommo bene e del sommo male; il filosofo dichiara apertamente di volersi confrontare col cristiano e col giudeo per esaminare quale tra le due religioni sia più vicina alla ragione e, dunque, da seguire, ma giunge ben presto alla conclusione che "i giudei sono stolti, i cristiani pazzi". Poiché i tre, da soli, non riuscivano a concludere la loro discussione, si sono rivolti ad Abelardo, che ben conosce la filosofia e la religione (è un evidente auto-elogio del pensatore, che per bocca del filosofo del dialogo è detto il migliore, autore di opere eccelse, anche se "l’invidia non potè sopportare"). Abelardo, sinceramente onorato che la scelta sia ricaduta su di lui, ammonisce preliminarmente il filosofo, mettendolo in guardia: a differenza dei suoi due interlocutori – che possono usare contro di lui una sola "spada" -, egli può attaccarli con due "spade", ossia criticandoli sia per quel che riguarda la ragione sia per quel che riguarda la loro fede: la sua armatura filosofica è, dunque, superiore in partenza. A tal punto, il filosofo spiega che spetta a lui porre la prima domanda, poiché la legge naturale (della quale egli si nutre) viene prima rispetto alla religione: egli chiede allora, rivolgendo una domanda che tange parimenti i suoi interlocutori, se essi si siano accostati alla fede perché indotti dalla religione o perchè spinti dalle tradizioni familiari e, quindi, dalle opinioni. Nel primo caso, la scelta sarebbe legittima; ma nel secondo da ripudiare: e al filosofo pare proprio che si opti per la fede esclusivamente per motivi familiari, e adduce come prova del suo asserto il fatto che, quando si sposano due individui di fedi diverse, capita sempre che uno dei due si converta alla fede dell’altro coniuge. Orazio stesso diceva che "la giara ricorderà a lungo l’odore di ciò di cui è stata riempita". Il filosofo mette dunque in luce la necessità di cercare criticamente il senso delle proprie scelte, e Abelardo condivide pienamente tale prospettiva, lui che arriva – anselmianamente - alla fede senza respingere la ragione.Le tre opere fondamentali di teologia di Abelardo riguardano soprattutto il problema della Trinità. Egli non pretende di dire la verità sulla Trinità, in quanto la ragione umana non é in grado di cogliere pienamente i misteri divini, tuttavia con l' ausilio di analogie - come aveva già fatto Agostino -, è a suo avviso possibile raggiungere almeno il verosimile. Abelardo ritiene che la distinzione fra le tre persone divine poggi sulla distinzione fra gli attributi divini e, precisamente, con il nome del Padre si indica la potenza, con quello del Figlio la sapienza e con quello dello Spirito Santo la carità. Ma poiché tali attributi in Dio costituiscono un'unità, i rapporti tra le persone divine possono essere spiegati in termini di derivazione di una dall'altra: il Padre genera il Figlio, che è della stessa sostanza del Padre, in quanto la sapienza non è che quella particolare forma della potenza divina per cui essa non può essere ingannata, invece, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, perchè la carità senza potenza sarebbe inefficace e senza la sapienza procederebbe a caso e non condurrebbe al meglio. Però in tal modo lo Spirito Santo non risulta essere della stessa sostanza del Padre e del Figlio: fu questo un punto che suscitò gli attacchi contro Abelardo, in particolare san Bernardo ritenne che esso conducesse a negare qualsiasi potenza dello Spirito Santo. Un esempio di applicazione della dialettica a una questione teologica è dato anche dalla discussione di Abelardo del problema dei cosiddetti
futuri contingenti. Secondo Abelardo, l'azione di Dio, che è onnipotente, è necessaria: Dio non può fare altro che ciò che fa, ossia il bene; infatti, Dio fa ciò che vuole, ma ciò che egli vuole, in perfetta libertà, senza essere costretto da nulla, è il bene. Ora, Dio prevede tutto, anche gli eventi futuri. Ciò significa che egli determina il loro necessario verificarsi? Oppure gli eventi futuri continuano a essere contingenti, ossia non necessari? Per l'uomo gli eventi futuri sono indeterminanti; egli non può sapere anticipatamente se le proposizioni che riguardano questi eventi sono vere o false, mentre Dio non può conoscere se esse sono vere o false, e tuttavia Dio prevede gli eventi futuri come contingenti. A ciò si potrebbe obiettare: è possibile che le cose avvengano diversamente da come Dio ha previsto, altrimenti esse non sarebbero più contingenti, ma in tal caso si avrebbe come conseguenza che Dio si può ingannare nella sua previsione. La risposta di Abelardo è che sono possibili due interpretazioni: o qualcosa che Dio ha previsto ha la possibilità di avvenire diversamente oppure è possibile che qualcosa avverrà diversamente da come Dio ha previsto, ma poichè non è possibile che Dio si sbagli, la sola possibilità che qualcosa si verifichi diversamente si riferisce dunque non al prevedere di Dio, ma a ciò che è previsto. Nell'ultimo periodo della sua attività, Abelardo apre un nuovo territorio alla sua riflessione: l' etica, alla quale dedica un'opera intitolata appunto Conosci te stesso o Etica, riprendendo nel titolo l’enigmatico motto inciso sul tempio di Apollo a Delfi (gnwqi sauton). L' antica formula "conosci te stesso" dell'oracolo delfico, ripresa da Socrate, è usata da Abelardo per indicare all'uomo la conoscenza della propria miseria, dovuta al peccato, ma allo stesso tempo, la propria somiglianza con Dio. Abelardo distingue tra vizio e peccato: infatti, il vizio è un'inclinazione naturale al peccato, ma di per se non è peccato. Con questa affermazione, Abelardo si oppone alle forme di ascetismo, che considerano forme del peccato quelle che sono invece inclinazioni proprie della natura umana; in tal senso, contro l'ultimo Agostino, Abelardo rivendica la naturalità dell'inclinazione al piacere sessuale, che non potrà mai essere estirpata dall’uomo. Proprio in quanto naturali, le inclinazioni sono ineliminabili, possono soltanto essere contrastate; peccato è invece il consenso dato a queste inclinazioni: esso è un atto di disprezzo nei confronti di Dio, un non fare ciò che egli vuole o un non tralasciare ciò che egli vieta. In sostanza, finchè penso di commettere il male sono nell’ambito del vizio; quando invece lo compio realmente, sono nell’ambito del peccato. L'azione che eventualmente deriva dall'atto di consenso dato ad una cattiva inclinazione non aggiunge nulla al peccato stesso. Nel caso in cui il consenso interiore dato dall'inclinazione cattiva, per esempio, di uccidere un rivale, non si traduca nell'azione corrispondente, il peccato continua sempre a sussistere in tutta la sua gravità; né, d'altra parte, un'azione cattiva è di per se peccato se manca il consenso ad essa. Per esempio, colui che per sfuggire a un aggressore, per caso lo uccide, compie un'azione cattiva, ma non commette peccato, che è il vero male dell'anima. Così, una stessa azione commessa dallo stesso uomo in momenti diversi può essere buona o cattiva, a seconda dell' intenzione dell' anima. Su questa base, Abelardo giunge addirittura ad avanzare l' ipotesi che gli stessi persecutori di Cristo e dei martiri non abbiano peccato, in quanto non hanno agito per disprezzo di Dio. L' ignoranza non è peccato, ne lo è l' essere infedeli, anche se questa condizione impedisce di essere salvati. D' altra parte, lo stesso peccato originale, in quanto contrassegna i successori di Adamo senza che ci sia da parte loro consenso, non può essere considerato propriamente peccato: esso è piuttosto la pena di un peccato. Tutte queste proposizioni saranno condannate nel Concilio di Sens, ma, in realtà, con esse Abelardo si opponeva al formalismo e al legalismo ecclesiastico. Non è l'agire esteriore, ma l' intenzione che qualifica ciò che è bene o male; l'atto è buono o cattivo soltanto in virtù dell' intenzione che lo determina. Di qui, l' importanza della contrizione rispetto all' assoluzioneper il peccato commesso: la prima riguarda l' interiorità, la seconda è una liberazione puramente esteriore e e formale. Un' analoga protesta contro il formalismo e la corruzione ecclesiastica animava all' epoca i movimenti religiosi popolari. Non è un caso che la scuola di Abelardo fosse frequentata anche da Arnaldo da Brescia, che non molto tempo dopo la morte di Abelardo lottò contro il potere temporale dei papi, instaurando in Roma un libero comune. Abelardo, tuttavia, riconosce che in terra è giusto che gli uomini siano puniti o ricompensati in base alle loro azioni: solo Dio, infatti, e non l' uomo, è in grado di giudicare le intenzioni.