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Nato a Dijon il 2 novembre 1861, Maurice Blondel apparteneva ad una
antica famiglia della Borgogna, che aveva dato al paese notai, medici,
ufficiali, ma non ancora professori. Trascorse l'infanzia a Dijon in una dimora
antica, in un ambiente appartato dove regnavano pace e tenerezza. Sognava di
divenire sacerdote; poi, in seguito ad un ritiro spirituale, scelse la via del
mondo, che significava per lui sposarsi e divenire docente all'Università. La
sua famiglia passava le vacanze nella proprietà di Saint-Seine-sur-Vingeanne,
vicino a Dijon. Blondel vi scoprì la liturgia e la campagna. Conobbe gli insetti
e le loro metamorfosi, come più tardi, in Provenza, ammirerà le cicale e le
piante grasse. Questo amore precoce per la natura segnò profondamente la sua
giovinezza, gli diede sensibilità per intendere il valore simbolico del reale,
cioè la poesia stessa. Nella proprietà di Saint-Seine, durante due anni di
ritiro e di silenzio, isolato in una camera al secondo piano, davanti al
paesaggio dei boschi e dei luoghi bagnati dal calmo Vingeanne, fu preso dapprima
dal desiderio della apologetica; poi, a poco a poco, si lasciò condurre alle
severe esigenze della filosofia più rigorosa. Scrisse diverse redazioni della
sua tesi, "L'Action", che difese nel 1893. Blondel studiò al liceo di Dijon.
Ebbe come professore di filosofia Alexis Bertrand, che lo avviò allo studio di
Leibniz, cui Blondel più tardi consacrò la tesi latina, e di Maine de Biran.
All'Università, conseguì la licenza in lettere e il baccalaureato di diritto.
Grazie soprattutto a Henri Joly, approfondì la conoscenza di Leibniz. Si preparò
poi da solo per l'École Normale Supérieure, dove fu accolto nel 1881 e dove
restò fino al 1885. Dopo l'aggregazione, insegnò nei licei di Chaumont,
Montauban e Aix-en-Provence. Nel 1889, prese un congedo per preparare la tesi
che doveva renderlo celebre. Ma, sul momento, non venne compreso: per due anni
gli fu rifiutato un posto nell'insegnamento superiore, col pretesto che le sue
conclusioni erano cristiane e che la ragione si trovava così spossessata di sé
per l'intrusione della religione rivelata nel campo in cui essa sola doveva
regnare. Ma questo duplice disprezzo per il suo metodo e per il suo fine fu
superato. Nell'aprile del 1895, Blondel fu chiamato all'Università di Lille,
poi, nel dicembre 1896, a Aix, dove insegnò fino al 1927, e fu uno di quei rari
maestri che hanno non solo studenti, ma discepoli. Venuto il tempo di una
pensione prematura, cui fu costretto dalle malattie, in particolare dalla cecità
quasi totale e da una crescente sordità, rimase a Aix fino alla sua morte, il 4
giugno 1949. A buon diritto, allora, questo digionese è passato alla storia come
"il filosofo d'Aix". Alla Ecole Normale ricevette l'influenza soprattutto di due
professori: Boutroux, che non fu solo per lui un professore di filosofia e di
storia della filosofia, ma che gli dette un appoggio che non venne mai meno; e
Ollé-Laprune, l'autore de "De la Certitude Morale", che gli insegnò che " lo
sguardo dello spirito è sempre solidale con la vita dell'essere ". Se dunque
Blondel ha pensato ad una tesi sull'azione, lo deve in parte a Ollé-Laprune,
anche se l'ispirazione fu soprattutto sua. Dopo la difesa di questa tesi
importante e difficile, caratterizzata da una dialettica rigorosa e da uno stile
imperioso, ricca di profonde risonanze pascaliane, Blondel è condotto a
esplicitarla e a difenderla in diversi articoli e soprattutto in mirabili
lettere. Da parte cattolica, fu talvolta accusato di razionalizzare il
cristianesimo, di farne una filosofia; dal lato universitario, fu al contrario
accusato di misconoscere l'autonomia della filosofia, di renderla religiosa. Ma
egli trovò anche dei difensori: tra i primi il Brunschvicg, che, suo oppositore
all'inizio, ne fu presto conquistato. Egli riconobbe il rigore puramente
razionale della sua opera e gli divenne amico. Anche ad Aix, dove si rifugiò
durante l'occupazione, trovò difensori ed amici. Tra i cattolici a lui vicini si
ricordano i suoi allievi Mulla e il Padre Auguste Valensin; poi l'abate Wehrlé e
soprattutto un oratoriano che fu entusiasta della lettura de "L'Action", il
Padre Laberthonnière, con il quale Blondel collaborò per trenta anni, prima che
emergessero differenze di temperamento e di metodo soprattutto. Negli "Annales
de philosophie chrétienne" Blondel pubblicò, nel 1896, l'importante "Lettre sur
les exigences de la pensée moderne en matière d'apologétique et sur la méthode
de la philosophie dans l'étude du problème religieux", che, più de "L'Action"
suscitò violente controversie. In un'altra rivista, La Quinzaine, fece apparire
"Histoire et dogme", che, con "L'Action" e la "Lettre", forma un insieme di
scritti che s'illuminano reciprocamente e che procedono da un unico movimento
dello spirito. Blondel volle ritirarsi un poco dalla lotta e moltiplicò gli
scritti occasionali: articoli di storia della filosofia su Pascal, Descartes,
Malebranche; inoltre concesse a Frédéric Lefèvre una esposizione del proprio
itinerario filosofico in forma di intervista e scrisse ancora opere sulla
filosofia cristiana. L'Action è stata per lui non più che una sorta di
introduzione. Più ancora che una dottrina esplicita, essa imponeva un modo di
filosofare. Il 4 marzo 1915 Blondel scriveva ad un eccellente interprete e
amico, Paul Archambault: " L'Action non è una filosofia intera. Essa non mi
appare che un capitolo di una dottrina generale che suppone una unità
originaria, un'immediatezza primitiva, un realismo originale; ma è un'unità
implicita che, tramite il progresso stesso della vita e del pensiero, dovrebbe
essere analizzata in una sorta di trinità reale del pensiero, dell'azione e
dell'essere, per terminare nell'unione finale e esplicita ". Egli impiegherà
circa venti anni per scrivere la sua trilogia, ma avrà la gioia di portarla
quasi a compimento. Nel dicembre 1934 si apre il terzo periodo del pensiero
blondeliano con la pubblicazione del primo tomo de "La Pensée": l'autore ha 73
anni ed è tuttavia un inizio. Dal 1934 al 1937 appaiono i cinque volumi della
trilogia: "La Pensée" (2 volumi), "L'Être et les êtres", "L'Action" (la ripresa
in due volumi dell'antica Action). Infine la pubblicazione nel 1944 e nel 1946
di due volumi (il terzo, pur previsto, non fu scritto) de "La philosophie et
l'Esprit Chrétien" porta a compimento il lavoro e trasforma la trilogia in una
tetralogia. Da "L'Action" a "L'Esprit Chrétien" non c'è che un'unica intenzione
di fondo. È ragionevole dolersi che la sua ultima e necessaria spiegazione sia
stata così tardiva: i critici non sono riusciti a capire la sua strada, e lo
hanno reso esitante sul suo ultimo percorso. Anziano e malato, Blondel non ha
potuto trovare nella tetralogia lo slancio della giovinezza. Per timore di
obiezioni e incomprensioni, egli pensa spesso più a prevenirle che a sviluppare
il suo pensiero, e questo rende il suo stile prudente e spigoloso, di lettura
faticosa. Ma non si può parlare di seconda filosofia. Noi pensiamo che con tutti
i suoi errori la tetralogia è un'opera capitale della riflessione filosofica di
tutti i tempi. Senza di essa, si corre il rischio di fraintendere Blondel, come
bene mostrano le incomprensioni che seguirono "L'Action" e la "Lettre". È bene
insistere sull'unità del progetto blondeliano. Per Blondel la vita umana è "una
metafisica in azione". Ma questa metafisica deve essere esplicitata attraverso
uno sforzo rigoroso e ascetico. La filosofia è questo stesso sforzo sempre
incompiuto, perché la riflessione non può esaurire mai l'attività spontanea e
irriflessa, cioè il vissuto. Da qui il disegno di Blondel di dare all'azione uno
statuto metafisico. Come ha detto Duméry, reintegrando l'azione (l'azione
effettiva, quella che incarna le nostre intenzioni e le rende manifeste ed
efficaci) all'interno della ricerca filosofica, Blondel ha allargato il campo
della filosofia: ha fatto pervenire alla coscienza filosofica un settore
d'esperienza che le sfuggiva. Ma Blondel ha scelto l'azione per ragioni ancor
più profonde che riguardano il suo essere più intimo, la sua essenziale
spiritualità, prima ancora che egli avesse imparato a riflettere su di essa. Se
Blondel prese per oggetto di riflessione l'esistenza concreta, e non il pensiero
astratto, fu in funzione del fine ultimo che perseguiva. Si trattava di
scoprire, nel cuore stesso dell'uomo, il bisogno del soprannaturale. Ma non si
poteva far sorgere l'idea del soprannaturale da un'analisi del concetto di
natura (ovvero di natura umana). La sola via possibile era scoprire, attraverso
un'analisi non psicologica, ma riflessiva, la logica dell'azione per mettere in
luce ciò che essa non afferma esplicitamente, ma che implica. Il metodo fu
proprio quello di una dialettica delle implicazioni. Blondel è stato un filosofo
dell'azione perché voleva essenzialmente essere un filosofo della religione: non
un filosofo cristiano dello spirito, ma un filosofo dello spirito cristiano. E
la sua intenzione di fondo era quella di realizzare il programma indicato da una
celebre formula di Lachelier: il ruolo della filosofia è di comprendere tutto,
anche la religione. Così tutta l'opera blondeliana si sviluppa sotto il duplice
segno della grandezza e della debolezza della filosofia. Grandezza, perché vuole
comprendere tutto e, in via di diritto, nulla sfugge alla sua investigazione;
debolezza poiché essa non si fonda né si chiude su se stessa, e manifesta in
questo la propria insufficienza. Blondel ha riassunto un giorno la sua filosofia
in un paragone impressionante. Al Panteon di Agrippa, a Roma, l'immensa cupola
non ha la chiave di volta, ma un'apertura centrale da cui discende tutta la luce
di cui si illumina l'interno. Allo stesso modo, la costruzione della nostra
anima, come un'opera incompiuta, poggia non su un pieno, ma su un vuoto, un
vuoto necessario perché passi l'illuminazione divina, senza la quale i nostri
occhi sarebbero completamente ciechi e noi non potremmo portare a termine alcun
compito. Se nell'uomo c'è un autentico destino che dà senso alla sua vita, non è
possibile che la filosofia se ne disinteressi; se questo destino è, come afferma
il cristianesimo, soprannaturale, non è più possibile che la filosofia vi giunga
con le sue sole forze -in caso contrario, il soprannaturale non sarebbe più
gratuito, cioè non sarebbe propriamente soprannaturale. Da questa opposizione
segue lo statuto della filosofia: obbligata a porre un problema che non può
risolvere perfettamente, essa resta necessariamente incompiuta, ma può rendere
conto della sua stessa incompiutezza. Non può esserci filosofia senza sistema;
ma non può esserci filosofia nemmeno se il sistema si chiude su di sé. In questo
senso si può dire che l'idea di sistema aperto definisce il blondelismo. Questa
filosofia dell'insufficienza conduce a riconoscere l'insufficienza della
filosofia. Esporre la filosofia di Blondel significa analizzare la sufficienza e
l'insufficienza, la debolezza e la grandezza della filosofia; e mostrare che il
pensiero si sforza sempre più raggiungere il livello dell'azione, dell'esistenza
e del vissuto senza che, tuttavia, possa mai giungervi pienamente; e che il
pensiero non è la vita né può tenerne il luogo, perché ne è non altro che il
verbo. La filosofia di Blondelè stata prima filosofia dell'azione, poi filosofia
della religione; è stata filosofia dell'azione perché voleva già essere una
filosofia della religione.
Maurice Blondel (1861-1949), maggior rappresentante della "filosofia
dell'azione", si ispira a Ollé-Laprune, di cui fu allievo. La sua opera più
importante si intitola "L'azione. Saggio di una critica della vita e di una
scienza della pratica", pubblicata nel 1893, e riedita, in un completo
rifacimento in due volumi, negli anni 1936-37. "L'action" si propone di dare una
risposta all'inquietudine spirituale dell'uomo moderno che si interroga sul
senso della vita e sul proprio destino. L'esordio, con accenti che anticipano i
modi della letteratura francese esistenzialistica, entra subito nella centralità
della questione:
" Ha o non ha un significato la vita umana, e l'uomo ha una destinazione?
Agisco, ma senza neppur sapere che è azione, senza aver desiderato di vivere,
senza conoscere precisamente chi sono, anzi neppure se sono. Questa parvenza
d'essere che si agita in me, queste azioni lievi e fugaci di un'ombra, sento
dire, recano in sé una responsabilità che pesa per l'eternità e, neppure a
prezzo del sangue, posso comprare il nulla che non è più per me: sarò dunque
condannato alla vita, condannato alla morte, condannato all'eternità! Come e per
qual diritto, se non l'ho né saputo né voluto? Metterò in pace la mia coscienza.
Se c'è qualcosa da vedere, ho bisogno di vederla. Imparerò forse se questo
fantasma che sono a me stesso, con questo universo che porto nel mio sguardo,
con la scienza e la sua magia, con lo strano sogno della coscienza, ha sì o no
qualche solidità. Scoprirò indubbiamente che si cela nei miei atti, in
quell'ultimo fondo dove, senza di me, mio malgrado, subisco l'essere e mi ci
aggrappo "
Per giungere alla soluzione di questi enigmi ci vuole lo studio dell'azione:
non la ragione riflessiva, non l'intenzionalità cosciente, ma l'azione è, nella
vita umana, il fatto più generale e più costante di tutti, quello che, meglio
della ragione e della coscienza, esprime il nucleo più profondo dell'essere
umano, anche ciò che si nasconde alla chiarezza trasparente ma limitata delle
idee consapevoli. Per Blondel, l'essenza dell'uomo è data dalla volontà , la quale si divide al proprio interno in volontà
volente e volontà voluta : la prima esprime l'elemento attivo della
volontà, ciò che essa vuole realizzare con le sue forze spirituali; la seconda
indica invece l'esito reale della volontà, i risultati che essa consegue nel
mondo oggettivo. Poiché la volontà voluta (ossia il risultato conseguito) appare
sempre inadeguato rispetto alla volontà volente (all'ideale perseguito), ne
nasce una dialettica per cui la volontà volente tende sempre a trascendere la
volontà voluta: di fronte ai risultati di ogni volontà voluta sorge, quindi, una
nuova volontà volente, che condurrà a una ulteriore volontà voluta e così via.
Questo processo costituisce la dialettica dell'azione ,
nella quale si esprime non solo la dimensione specificamente umana, ma l'intera
realtà. Le determinazioni oggettive del mondo esterno - in primo luogo il corpo,
poi il mondo naturale - non sono infatti che espressioni della volontà voluta,
cioè rappresentano la realizzazione della volontà considerata sotto l'aspetto
dei limiti che essa incontra nella sua espansione. Analogamente, i diversi
livelli del mondo sociale - la famiglia, la patria, l'umanità - non sono che
gradi successivi del processo di realizzazione della volontà attraverso la
dialettica di volontà volente e volontà voluta. Finché si rimane nell'ambito del
finito, questa dialettica non avrà alcun termine, poiché la volontà volente sarà
sempre insoddisfatta dei risultati conseguiti nella volontà voluta. Bisogna
invece realizzare la condizione in cui tra la volontà e la sua realizzazione ci
sia una corrispondenza perfetta, ovvero, secondo la terminologia di Blondel, sia
possibile " voler volere ". Ma ciò è possibile soltanto quando l'uomo
trascende se stesso e il mondo finito per giungere a Dio e all'infinito.
L'esigenza di Dio è dunque intrinseca alla stessa natura finita dell'uomo e
scaturisce da essa: per questo Blondel - nella "Lettera sulle esigenze del
pensiero contemporaneo in materia di apologetica" (1896) - definisce metodo dell'immanenza la sua via per giungere a Dio.
Attraverso il metodo dell'immanenza Blondel influisce potentemente sulla
corrente del modernismo - in particolare su Lucien Laberthonnière - alla cui
base vi è il convincimento che i dogmi della fede non hanno valore se non in
quanto sono attivi nell'interiorità della coscienza umana. In opere più tarde -
"Il pensiero" (1934), "L'essere e gli esseri" (1935) - Blondel rinuncia alla
risoluzione dell'intera realtà nel processo dell'azione e, accanto a
quest'ultima, ammette l'esistenza autonoma del pensiero e dell'essere, sebbene i
tré momenti - azione, pensiero, essere - rimangano strettamente congiunti. In
ogni caso, anche per l'essere e il pensiero, Blondel ripropone il processo di
continuo trascendimento di sé che aveva individuato
nella volontà: anche in questo caso, quindi, l'esito delle riflessioni di
Blondel è il necessario superamento del finito nell'infinito e il riconoscimento
dell'esigenza di Dio che è intrinseca alla natura umana. Blondel collaborò con
lo pseudonimo di Bernard de Sailly agli Annali di filosofia cristiana, l'organo
del movimento modernista diretto da Laberthonnière: egli però non condivise mai
a fondo i princìpi del modernismo e specialmente dopo la sua condanna da parte
di Pio X nel 1907 se ne staccò in maniera inequivocabile. Il tema peculiare di
Blondel è la ricerca dell'unità fondante il reale a partire da un'analisi
dell'esistenza umana intesa a mostrarne l'immanente tensione verso l'assoluto (e
appunto di qui il nome di sistema "dell'immanenza"). Blondel pone i termini del
problema muovendo dall'opposizione, originaria, fattuale, ineliminabile, tra il
desiderio della volontà di potere qualsiasi cosa e le costrizioni delle cose
esterne alla volontà stessa. Presa coscienza di questa contraddizione, la
filosofia cessa di essere speculazione passiva e diventa pensiero agente:
giacché scorge la perenne insoddisfazione dell'uomo per tutto ciò che egli ha
voluto o può volere e la conseguente esigenza di trascendere la volontà finita.
Ora, il trascendimento è realizzato da un atto di volontà, che in questo non
avviene soltanto in senso "trascendentale" (nell'accezione kantiana del termine)
tale per cui esso si limiterebbe a porre un fondamento all'azione nel mondo
dell'esperienza sensibile, ma in senso specificamente "trascendente", tale per
cui nell'azione è posto a fondamento il volere assoluto, divino, in cui la
volontà umana concilia la sua contraddizione originaria, coglie la sua identità
con l'essere e con il pensiero. Ed essendo la contraddizione segno di
imperfezione ed esigendo la perfezione, il rinvio all'assoluto si fa necessario.
La stessa dialettica si riscontra anche nel rapporto tra gli esseri finiti e
l'essere infinito: dove, ancora una volta, Dio appare come colui che soltanto è
capace di appagare l'infinita esigenza ("desiderium naturale et inefficax ad
infinitum") che l'uomo ha per l'infinito. Nello scritto "L'Essere e gli esseri",
Blondel ripropone l'antico problema di tutte le ontologie: se l'Essere è Uno,
come mai sono possibili gli esseri molteplici? Si può trovare una risposta
solamente a patto di muoversi all'interno della vita cosciente dell'uomo. Questi
mette in atto uno sforzo immenso " per consolidare gli esseri in se
stessi " ma il risultato è uno scacco a metà: " c'è abbastanza in essi
perché sia impossibile annientarli, c'è troppo poco ancora in essi perché
bastino a se stessi in una consistenza piena e definitiva ". Quindi, da un
lato abbiamo certezza dell'essere in quanto ne facciamo esperienza intorno a noi
e in noi stessi, giacchè "siamo", sicchè non abbiamo bisogno di cercare l'essere
come se ci fosse estraneo; dall'altro, percepiamo l'incompiutezza dell'essere
delle cose e del nostro essere stesso, ma insieme scopriamo che l'essere
consapevole che noi siamo è "capax Dei". Si riapre, dunque, l'alternativa e si
ripropone la responsabilità che grava sull'esercizio della libertà: accettare o
no di dare consistenza piena al proprio essere e all'essere delle cose finite
nell'apertura all'Essere assoluto. E' qui che si riconferma il primato
dell'azione: solamente attraverso di essa, la sua decisione responsabile, noi
possiamo fondare nell'Essere la nostra vita e, con essa, quella dell'intero
universo.