L’Uomo secondo Arnold Gehlen
Capita che ci si dimentichi di cose importanti e capita che finiscano nel dimenticatoio libri fondamentali per il loro messaggio e per la loro attualità.
Sembra che questa sorte sia toccata ad Arnold Gehlen ed alla sua opera principale, L’Uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo (Feltrinelli 1983). Opera densa e ricca di idee su cui riflettere.
Arnold Gehlen
Arnold Gehlen nacque a Lipsia il 29 gennaio 1904, dal 1923 al 1925 frequentò a Colonia le lezioni di Max Scheler e di Nicolai Hartmann, nel 1926-27, ma anche negli anni precedenti, studiò a Lipsia filosofia, tedesco, storia dell’arte, fisica e zoologia. Laureatosi nel 1927, dal 1930 ottenne la libera docenza in filosofia con lo scritto Spirito reale e spirito irreale.
Dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo nel semestre estivo del 1933 venne chiamato a sostituire il destituito Paul Tillich alla cattedra di Francofotre. Il 1° novembre 1934, all’età di trent’anni, divenne il successore di Hans Driesch presso la cattedra di filosofia dell’Università di Lipsia. Favorito certamente dall’appartenenza convinta all’NSDAP nella sua carriera universitaria, è però riconosciuto che nelle nomine universitarie di Gehlen abbiano svolto un ruolo di primaria importanza le sue doti filosofiche.
Nel 1938 venne chiamato alla cattedra di filosofia dell’Università di Könisberg, quella che fu di Kant, e nel 1940 si trasferì all’Università di Vienna.
Gehlen uscì dal Partito nazionalsocialista (al quale si iscrisse nel maggio 1933) al più tardi al principio degli anni quaranta, a causa di crescenti tensioni, soprattutto riguardo l’organizzazione della Società filosofia tedesca, della quale divenne presidente nel 1942.
Dopo la fine della guerra venne privato della cattedra, ma non figurando come un attivo nazionalsocialista, venne poi nominato membro corrispondente dell’Accademia austriaca di scienze. Nel 1947 fu nominato professore ordinario di sociologia alla Scuola superiore di scienze amministrative di Spira.
Dopo il 1945 egli si distaccò apertamente dalla filosofia, ritenendo che solo le scienze potessero rispondere ai problemi sviluppatisi nella filosofia.
Nel 1961 fu nominato, dopo esitazioni di natura politica, alla nuova cattedra di sociologia della Technische Hochschule di Aquisgrana per la Renania-Vestfalia, dove insegnò fino al pensionamento nel 1969.
Il suo ultimo libro è Morale e Ipermorale, scritto nel 1969, disponibile anche in italiano; il Mulino ha recentemente ristampato la raccolta di articoli Prospettive antropologiche.
Morì ad Amburgo il 30 gennaio 1976.
L’Uomo
Der Mensch venne pubblicato nel 1940, per poi essere profondamente rielaborato nel 1950, fu il libro in cui Gehlen fondò la sua “antropologia filosofica”.
In apertura al testo Gehlen definisce l’uomo come un essere carente, non definito, che prende posizione e può disporre non soltanto di se stesso ma anche dell’esterno. Qualche pagina dopo definisce ulteriormente l’uomo come un essere che agisce (pag. 49-50). L’azione condensa in certi luoghi il nesso del somatico e dello psichico.
Partendo dalla sentenza nietzscheana secondo cui l’uomo è un compito, Gehlen ne trae le conseguenze: l’uomo deve realizzare se stesso nel mondo che lo sovrasta attraverso l’agire, costruendo e creando condizioni favorevoli alla sua esistenza.
È utile citare un passo tratto da uno dei capitoli finali, in cui l’uomo viene definito come «un essere aperto al mondo, cioè non specializzato, che per poter vivere si affida alla sua propria attività e intelligenza e che, esposto al mondo in ogni senso, deve mantenervisi, appropriandosene, elaborandolo da cima a fondo, riconoscendolo e ‘prendendolo nelle sue mani’ », diversamente dall’animale, «ha bisogno di una situazione pulsionale aperta al mondo.» (pagg. 383-384)
L’antropologia filosofica di Gehlen, che noi d’ora in avanti considereremo semplicemente filosofia, sprona l’uomo ad assumersi come compito a se medesimo, e non soltanto rivolto verso l’esterno.
«Come Prometeo, è obbligato a dirigersi su ciò che è lontano, su ciò che non è presente nello spazio e nel tempo; vive – a differenza dell’animale – per il futuro e non nel presente.» (pag. 59)
Un punto su cui Gehlen a lungo insiste, e che fa da fondamento alla sua dottrina e alla sua visione dell’uomo, è la distinzione, la netta differenza, che intercorre tra l’uomo e l’animale.
La Parte prima, intitolata Il peculiare posto morfologico dell’uomo, intende infatti spingere l’antropologia fuori dall’evoluzionismo darwinista, per giungere ad una definizione di uomo visto non più come il risultato perfezionato di una lunga graduale evoluzione che conduce fino ad esso; piuttosto si dimostra che l’uomo è un essere carente, privo delle protezioni e delle armi naturali di cui dispone ogni animale, privo di sensi particolarmente sviluppati ,come pure sostanzialmente privo di quegli istinti che gli permetterebbero di sopravvivere nella natura come guidato da automatismi.
L’uomo è quindi caratterizzato da primitivismi, cioè dall’assenza di qualsiasi specializzazione, di qualsiasi innata caratteristica che gli permetterebbe di sopravvivere senza bisogno d’altro in un dato ambiente.
L’uomo è invece capace, a differenza di qualsiasi animale, di adattarsi a qualunque clima, egli infatti è presente praticamente su ogni superficie della Terra, e soltanto grazie all’azione, al suo volgersi al futuro, l’uomo sopravvive, creando ciò di cui è naturalmente carente.
Entra in gioco quindi un termine chiave della trattazione gehleniana: esonero.
Attraverso processi d’esonero l’uomo, esperendo il mondo, lo riduce e concentra in simboli, così da acquistare visione panoramica e capacità di disporre; in questi processi ottiene il dominio su una molteplicità non limitata di movimenti. Il mondo è per l’uomo, diversamente dall’animale, un campo di sorprese infinite in cui deve in primo luogo sapersi orientare.
«Gli atti con i quali l’uomo assolve al compito di render possibile la sua vita vanno quindi considerati sempre da due versanti: da un lato si tratta di atti produttivi, grazie a cui egli ovvia agli svantaggi rappresentati dalle sue carenze – cioè di esoneri, di agevolazioni -, dall’altro di strumenti che l’uomo attinge in se stesso per dirigere la sua vita, e che rispetto all’animale sono interamente di nuovo genere.» (pag. 63) L’uomo infatti si caratterizza non per il semplice uso casuale di uno strumento che capiti sotto gli occhi,ma piuttosto per la fabbricazione di uno strumento in vista di uno scopo futuro.
L’uomo è esonerato - diversamente dall’animale, che non può mai esserlo - anche dalla situazione in cui si trova, infatti egli può agire in un certo modo indipendentemente da scopi o necessità, le sue capacità gli permettono di compiere azioni perfettamente “inutili”, ad esempio il gioco.
Nell’animale il gioco è sempre finalizzato e non è affatto esonerato, così come il sesso nell’uomo può essere esonerato, nell’animale ha sempre scopo riproduttivo.
«L’esonero è un esonero totale: l’uomo si muove in movimenti ben riusciti, impegnabili in modo variabile, non pulsionali, all’interno di uno spazio allusivo popolato di cose familiari e accantonate; e inoltre nell’indipendenza di principio della sua vita percettiva e motoria dalle sue pulsioni.» (pag. 256)
La vita pulsionale dell’uomo dev’essere orientabile, poiché egli agisce; è cioè necessario che la vita pulsionale vari col continuo variare delle condizioni del suo appagamento.
Dai processi d’esonero sorge per naturale sviluppo il linguaggio.
Altra forma di esonero fondamentale per l’uomo è il linguaggio, che lo distingue ulteriormente dall’animale, e ne caratterizza l’intelligenza e la spiritualità.
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«La peculiare somiglianza tra linguaggio e mano non è soltanto nella possibilità che i due sistemi hanno di essere indipendenti in ampia misura dalla situazione motoria complessiva, ciò essendo implicito nella loro qualità di organi guida. Essa è anche e soprattutto nel fatto che soltanto in quei due ambiti la nostra propria attività è elementarmente creativa, nel senso che moltiplica la ricchezza sensoriale del mondo. Al mondo muto il nostro linguaggio aggiunge quello sonoro, e la nostra mano, maneggiando le cose, infrangendole o elaborandole, ne cava qualità tattili e anche visive sempre nuove. (…) Per questo, qui, le fonti di una vita sensomotoria, comunicativa estremamente concentrata sono quelle nelle quali affluisce ora anche la nostra vita immaginativa. Linguaggio e immaginazione linguistica, lavoro manuale e sue fantasiose variazioni sono poteri originari che si sprigionano nei punti in cui si concentra la vita sensomotoria, che è di per sé una dimensione intelligente.» (pag. 173)
È attraverso il linguaggio che il mondo e le cose si fanno intime e partecipi della nostra esistenza, è il linguaggio che permette la rielaborazione della realtà necessaria all’agire, ed il linguaggio è nei bambini il tramite grazie al quale la motilità assume significato, per cui se ad un urlo si ottiene aiuto il bambino ripeterà quel verso nel momento del bisogno.
Ma la differenza dall’animale sta ancora una volta nell’importanza fondamentale dell’esonero.
L’uomo può utilizzare il linguaggio in modo esonerato, cioè slegato dalla necessità della contingenza, l’animale no. Ad esempio il bambino potrà strillare pur non essendosi fatto male, per il solo piacere di attirare l’attenzione dei genitori.
Le abitudini sono il prodotto dell’esonero, come un comportamento superiore che permette di essere slegati dal presente per proiettarsi nel futuro, il destino dell’uomo in quanto essere che agisce.
La vista ci permette di acquisire simboli, e grazie ad essi possiamo valutare le possibilità dell’agire, prima di compiere l’azione: siamo anche qui di fronte ad un processo di esonero. L’immaginazione motoria si lega a dei simboli ed al linguaggio, la percezione visiva su cui maggiormente si basa l’apertura dell’uomo al mondo è il mezzo grazie al quale l’uomo accoglie in una visione “panoramica” simbolica la realtà e le possibilità che gli si aprono.
«L’animale ha una “ambiente”, non un mondo.» (pag. 210)
«Il linguaggio è un’intima componente delle prestazioni motorie dell’uomo» (pag. 263); come detto l’immaginazione motoria, cioè la capacità di adattare le prestazioni motorie alle infinite circostanze, è legata al linguaggio ed al modo in cui il mondo viene codificato dall’uomo nel processo di neutralizzazione ( nel moto che rende il mondo neutro). Il mondo viene infatti reso “intimo” dall’uomo, e soltanto così egli può modificare l’aspetto delle cose e della realtà che lo circonda.
«La parola dunque è soprattutto reale azione, e non si dovrà mai trascurare questo aspetto della conduzione motoria effettiva. Che questa azione riavverta se stessa sensibilmente – si oda, in questo caso – è un fatto che condivide con le altre azioni comunicative esonerate, per esempio con i movimenti tattili.» (pag. 289)
Attraverso il linguaggio le intenzioni si fanno pienamente volontarie grazie anche alla funzione della memoria – le cui rappresentazioni sono esonerate - e alla possibilità del ripetersi di situazioni già affrontate, oppure dall’aprirsi di nuove prospettive.
Gehlen scrive che «l’uomo non può vivere nel presente, vive nel futuro, ovvero – e la cosa non è diversa – vive agendo. Se non che, il materiale della sua attività è circoscritto al presente, è un circoscritto materiale del presente.» (pag. 343) Egli esce dalla semplice prospettiva presente grazie alla possibilità datagli dal pensiero di radunare le esperienze vissute e avendo quindi la capacità di progettare l’avvenire in un mondo per sé tollerabile.
Il linguaggio racchiude nel nominare stesso una capacità esonerante, che non muta la realtà, ma ad essa allude attraverso uno sforzo minimo, è la condizione della “teoria”.
La parola sorge dunque attraverso il collegamento fonetico - motorio degli organi di senso: occhio e orecchio. Il parlare sorge originariamente nel pensiero per poi fluire all’esterno nel moto suono udito – suono ripetuto – suono riavvertito, la comunicazione rappresenta dunque un punto d’arrivo in cui il linguaggio si interseca in un punto, i nostri impulsi ed i nostri interessi si articolano nella parola ed in essa si direzionano verso l’esterno.
La storicità dell’uomo si manifesta allora nella comunità e nel formarsi della cultura dalla regolamentazione degli impulsi fondamentali.
Ogni cultura infatti obbedisce alla necessità di elaborare una gerarchia di regole che riguardano le azioni richieste, concesse e proibite come pure i bisogni della comunità; questo è possibile grazie alla plasticità delle pulsioni umane.
Il formarsi di civiltà è legato all’autodisciplinarsi degli uomini, dalla imposizione di leggi e di una gerarchia di valori condivisa. «Disciplina come educazione e autoeducazione, subordinazione e guida, attività volta all’esterno e lavoro costituiscono le impalcature che costringono in una forma la vita pulsionale; e costituiscono bisogni vitali e necessari delle pulsioni stesse, in un essere vulnerabile a causa della sua struttura biologica, e le cui prestazioni s’ingenerano dalla stessa radice da cui promanano i pericoli che le minacciano.» (pag. 357)
Entra qui in gioco il concetto di carattere, utile a distinguere la vita fatta di azioni significative e volute dalle azioni impulsive e insignificanti; carattere significa strutturato intreccio di interessi e bisogni in un agire controllato e condotto permanentemente.
«Ne consegue che le azioni debbono essere “sganciabili” dalle pulsioni, che si deve creare uno iato tra loro, avendo le prime bisogno dei loro tempi e delle loro occasioni per poter essere adeguate, ponderate, migliorabili e ripetibili.» (pag. 379)
Grazie allo iato, cioè alla separabilità delle azioni dalle pulsioni, l’uomo può dare vita alla civiltà, che si fonda appunto su un condiviso bisogno di educazione e di autodisciplina, ed è non solo una cosa accettata ma anche necessaria all’esistenza dell’uomo.
Parliamo quindi di una selezione delle pulsioni in funzione delle azioni, di modo che possano essere indirizzate sul mondo dall’uomo, è grazie all’azione nel mondo infatti che il carattere dell’uomo si fissa mettendo alla prova le proprie pulsioni: «l’azione contiene in sé, e crea, l’ambiente.» (pag. 382) Questo è possibile perché, come si è detto inizialmente, l’uomo è aperto al mondo e grazie a questa apertura egli agisce, l’azione caratterizza l’uomo: «L’interiorità umana è aperta al mondo; e ciò significa per un verso: investita di esperienze, impressioni, intuizioni, su ciascuna delle quali può attecchire e crescere un aspirare, un tendere; per un altro verso significa: la vita delle pulsioni e dei bisogni umani racchiude valori lontani, immagini del passato, un tendere verso ciò che è assente, un desiderare, un anelare a situazioni e circostanze future.» (pagg. 385-386)
Anche in Gehlen, come in altri filosofi, troviamo il ruolo chiave svolto dal tempo futuro: l’uomo si proietta in avanti, non si tratta di un essere che si accontenti semplicemente di un’esistenza limitata alla quotidianità e al presente, non è questa la sua natura. L’uomo è compito a se stesso e attraverso l’azione costruisce il mondo come una sua seconda natura, avanza in esso e lo esperisce anche grazie alle pulsioni.
Se l’animale vive nel presente, l’uomo vive invece nel futuro, nell’azione egli si progetta per padroneggiare il domani.
L’apertura dell’uomo al mondo significa anche il suo essere in relazione con gli altri , la necessità di inibire le pulsioni e riveste l’azione di un significato sociale. «La struttura pulsionale dell’uomo, nella sua plasticità, disciplinabilità, nella sua necessità vitale di essere plasmata, è per sua natura in rapporto con l’azione.» (pag. 399)
L’uomo è caratterizzato da un eccesso di pulsioni, ma è questo stesso eccesso a dar vita a prestazioni inibitorie e alla capacità di orientare i bisogni. Tale energia orientata diventa pressoché inesauribile e si riversa nell’azione e nel lavoro umani.
«Il compito, intimamente connesso con l’esistenza dell’uomo, della strutturazione della vita pulsionale – compito cronico e che si ripropone a ogni generazione – è assunto dall’educazione prima e dall’autodisciplina poi, in condizioni sempre nuove e perciò, necessariamente, in sempre nuovi termini.» (pag. 407) La strutturazione raggiunge il suo culmine nella moralità.
La volontà, parallelamente alle funzioni involontarie, svolge un ruolo centrale nella “conduzione” dei movimenti della persona tutta, la volontà riguarda l’uomo nella sua interezza. La volontà è la caratteristica propria dell’uomo in quanto essere esonerato, è una prestazione direttiva attraverso cui ci si progetta; è la volontà stessa che, rivolta all’interno, inibisce e disciplina, e quando è rivolta all’esterno, progetta e agisce.
«Una vita pulsionale non più controllata e non più plasmata nel modo di condursi degenera. Tutto questo ci consente di scorgere finalmente che cosa significhi il concetto di “carattere”(…), il carattere è allora azione e materia dell’azione a un tempo, è in ultima analisi una struttura comportamentale sottesa da pulsioni accettate, fatte proprie o rifiutate, sempre però messe a partito, che sono state attivamente orientate le une sulle altre e sul mondo». (pag. 419)
L’uomo quindi si rivolge contro se stesso inibendo le proprie pulsioni, disciplinandosi, ed attraverso questo processo si origina la civiltà ,la cultura. La comunità è da intendersi come un destino naturale per l’uomo, perché privo delle armi necessarie alla sopravvivenza, privo di istinti animali “completi”, è invece caratterizzato da un eccesso di pulsioni che gli permette però di controllarle, inibirle, e di porre tra la pulsione e l’azione uno iato, una distanza fondamentale grazie alla quale si manifesta la possibilità di un avanzamento volontario nel mondo, controllato ed educato. La moralità è la disciplinazione della comunità attorno a valori condivisi.
Gehlen prende in considerazione anche il ruolo svolto dal totemismo nel passato dell’umanità: l’identificazione dell’animale totem con gli uomini della comunità pose fine al cannibalismo, poiché l’animale simbolo non poteva essere ucciso, così neppure i suoi figli (cioè gli appartenenti alla tribù). Processi inibitori che condussero allo sviluppo di società agricole protette ciascuna dal proprio dio in fattezze animali - ricorda Gehlen che pure gli dèi greci venivano raffigurati con sembianze animali. Un ruolo fondante nella nascita delle comunità lo svolsero quindi anche la fede ed il mito.
«Le istituzioni durature, l’abbiamo veduto, sono prodotti di un comportamento sociale umano assai complesso, nel quale entrano sia atti ideativi, sia atti ascetici di autodisciplina e di inibizione. Ogni progresso della civiltà umana si è dato a riconoscere anche per aver stabilizzato una forma nuova di disciplina.» (pag. 452)