intervista a Gianni Vattimo di Ennio Galzenati
(rilasciata il il 23/06/1993 nella sede della Vivarium di Napoli)
L'Unità, 19 maggio 1997
Professor Vattimo, parlando di filosofia e critica della tecnologia, che è naturalmente un prodotto recente della riflessione filosofica, quanto è necessario risalire all'indietro per riconsiderarne i termini?
La demonizzazione della vita razionalizzata della civiltà industriale comincia, secondo me, ad avere un'influenza sulla filosofia alla fine dell'Ottocento in una discussione che sembra molto astratta e molto lontana da questi temi: quella che si svolge, soprattutto nella cultura tedesca - con autori come Dilthey, Rickert e Windelband - sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito.
Il secondo Ottocento è l'età del Positivismo, una filosofia che rivendica, tra l'altro, il modello dei saperi positivi delle scienze come la fisica o la chimica per ogni tipo di sapere: si tratta di far passare allo stadio positivo, come dicevano i filosofi positivisti, tra cui Comte, anche il sapere sull'uomo, il sapere sociologico, psicologico e persino la morale.
Già alla fine dell'Ottocento, comunque, questo impatto della tecnologia sulla società si avverte come il tentativo di ridurre anche l'uomo ad un meccanismo calcolabile, prevedibile, totalmente organizzato, ciò che poi Adorno chiamerà "l'organizzazione totale".
Le scienze dell'uomo, che i filosofi chiamano "scienze dello spirito", sembrano invece essere caratterizzate dal fatto che hanno a che fare con movimenti liberi non prevedibili, non calcolabili, non riducibili sotto leggi generali di comportamento. Si rivendica perciò l'originalità delle scienze dello spirito, nei loro metodi, nei loro modi di costruirsi rispetto alle scienze della natura, perché in realtà ci si vuole ribellare al dominio della tecnologia, della razionalizzazione sociale complessiva e dell'organizzazione totale della società.
Cosa pensa dello spirito polemico nei confronti di questa "organizzazione totale" che, a partire dai primi anni del nostro secolo, filtra attraverso il mondo delle avanguardie artistiche?
L'Espressionismo e, in genere, le grandi avanguardie artistiche del primo Novecento - il cubismo, il dadaismo, il surrealismo - non sono più guidate da un proposito di analisi quasi scientifica della sensazione visiva. Al contrario il mezzo artistico serve ad esprimere la volontà di partire dall'interno per manifestare al di fuori piuttosto che subire un ordine oggettivo del mondo e riprodurlo.
Del resto questa interpretazione dell'avanguardia non è originale. La si trova già in un'opera fondamentale per lo spirito di quell'epoca, Spirito dell'utopia (Geist der Utopie; trad.it Firenze, 1980) di Ernst Bloch, scritto e pubblicato nel '18. E' un filo conduttore interessante perché contiene l'idea che lo spirito non può essere meccanizzato, spiegato, ridotto entro leggi generali, e afferma anche un principio di unificazione della cultura del primo novecento collegando le avanguardie, la riflessione filosofica e la rivolta contro l'organizzazione tecnologica della società.
Questi stessi temi si ritrovano nell'Esistenzialismo?
Certo. Pensiamo per esempio alla riflessione di Heidegger in Essere e Tempo (trad.it. Torino, 1994), del '27, maturata però a partire dagli anni '10. In una memoria autobiografica Heidegger allude allo spirito degli anni '10, come dominato dalla ripresa di Kierkegaard, di Nietzsche e di Dostoevskij, personaggi che hanno in comune l'esistenzialismo, l'accentuazione, persino eccessivamente patetica, del dramma della libertà dell'uomo, accentuazione tanto più significativa quanto più si afferma in un mondo dove invece l'organizzazione sociale diventa sempre più razionalistica e meccanizzata.
Abbiamo moltissimi criteri per distinguere, in ogni scienza, ciò che vale in un certo campo e ciò che non vale ma, asserisce Heidegger in Essere e tempo, si è perso invece il senso complessivo di che cosa chiamiamo "è"; abbiamo dimenticato il senso di questo termine perché abbiamo ridotto l'essere all'oggettività. Ma allora, se identifichiamo l'essere con ciò che è oggettivamente dato e verificabile ne consegue, prima di tutto, che non possiamo più pensare alla nostra esistenza in termini di essere, perché non siamo mai un tutto già dato, siamo fatti di ricordi del passato, di esistenza nel presente e soprattutto di proiezioni verso il futuro, tutte cose che dal punto di vista della datità verificata non sono nulla.
E' possibile ricollegare questo discorso heideggeriano allo spirito dell'avanguardia di cui parlavo prima . Se non possiamo più parlare dell'essere dell'uomo, perché il nostro modello di essere è quello della datità oggettiva, ciò non ha solo delle conseguenze conoscitive preoccupanti, ma ha soprattutto conseguenze morali, politiche e sociali drammatiche. Predisponiamo cioè l'essere dell'uomo a diventare oggettività manipolabile nell'organizzazione totale della società.
Parliamo adesso della scuola di Francoforte.
La scuola di Francoforte è un prodotto filosofico molto recente, con cui dobbiamo fare i conti, ma le sue motivazioni restano fondamentalmente quelle che ho raccontato, cioè la rivolta avanguardistica della "Kultur", potremmo dire con i termini di certi filosofi primonovecenteschi, contro la "Zivilisation", la cultura contro i meccanismi della civilizzazione che sono diventati oppressivi. La parola "totale Verwaltung", l'"organizzazione totale" - termine diventato classico attraverso la filosofia di Adorno - esprime l'idea che la razionalizzazione tecnologica della società comporti quasi naturalmente un rischio di totalitarismo politico. Questa tematica è stata molto presente nella cultura europea degli anni Sessanta. Credo che il Sessantotto, l'anno della contestazione giovanile, avesse sviluppato una critica radicale della tecnologia, che oggi è stata ereditata da alcuni filoni dell'ambientalismo e dell'ecologismo, in cui la tecnica è considerata naturalmente orientata a produrre strutture politiche totalitarie .
Adorno pensa alla società tecnologica come a una società "motorizzata", nel senso che la società tecnologica sembra ad Adorno un grande meccanismo mosso da un motore centrale. Questa idea di Adorno si ritrova anche in alcuni grandi romanzi come quello di Orwell 1984 e quello di Huxley Brand New World. Quando la società si organizza in modo saldamente tecnico ci troviamo di fronte ad una specie di gran sistema di ingranaggi che girano tutti mossi da un centro unitario: la propaganda del regime nazista come la radio di Goebbels che dà ordini a tutti. Secondo l'idea di "pubblicità centralizzata" di Adorno, noi viviamo in una società non tanto diversa da quella nazista. Lì c'era infatti una propaganda politica, ma noi siamo dominati totalitariamente dalla pubblicità delle merci e siamo altrettanto poco liberi.
Professore, Lei crede che ciò sia ancora valido?
Questo modello, secondo me, non è già più il modello della tecnologia avanzata in cui viviamo noi oggi; del resto già l'idea della radio poteva condurre anche Adorno ad una riflessione ulteriore; oggi, per esempio, se noi accendessimo la radio e sentissimo la voce di Goebbels potremmo, con un piccolissimo movimento, passare su un'altra modulazione di frequenza, e sentire invece delle canzoncine dialettali. Quando perciò la tecnologia diventa prevalentemente una tecnologia della comunicazione piuttosto che una tecnologia del motore, la paura nei confronti di questo mondo tecnologico sembra potersi riassorbire in una visione della società come scambio di comunicazione, piuttosto che in una visione della società come grande meccanismo mosso da un unico motore centrale. In un saggio di Sentieri interrotti intitolato "L'epoca dell'immagine del mondo" Heidegger ripercorre la storia della scienza tecnica moderna interpretandola come costruzione di un'immagine del mondo che dipende da colui che costruisce l'immagine. La tecnologia tende cioè ad essere la costruzione del mondo sulla base di progetti del soggetto in qualche modo; anche lo scienziato che fa esperimenti non guarda solo cosa succede, ma provoca degli eventi per confermare o smentire certe proposizioni; il tecnologo che produce macchine prosegue questa stessa vocazione tecnologica della scienza. Così il mondo diventa sempre più l'immagine del mondo che noi ci facciamo e che noi costruiamo attivamente con la tecnica piuttosto che una cosa data davanti a noi.
Nella nostra epoca però le cose sono andate così avanti che l'immagine del mondo non è più una e ce ne sono piuttosto molteplici. Questo accade nella società della comunicazione. Viviamo in una società di intensa comunicazione in cui ci sono tanti giornali, tante stazioni televisive e questi enti di comunicazione parlano anche di loro stessi. Se voi leggete i giornali trovate che molto spesso alcune delle notizie riguardano le loro vicende: il giornale è stato comperato dal tale gruppo che produce dentifrici e noi possiamo essere messi in guardia sul fatto che le notizie che riguardano i dentifrici su quel genere di giornali dovremmo prenderle "cum grano salis", perché interviene l'interesse del padrone della catena di fabbriche di dentifrici, che è anche proprietaria del giornale.
La molteplicità delle agenzie di informazione nel nostro mondo, che forse è sempre esistita, ma non così largamente come oggi, è diventata così esplicita, che noi oggi sappiamo di vivere in un mondo di interpretazioni, non in un mondo di realtà date. Questo fa sì che la potenza totalizzante dell'informazione porti con sé una sorta di antidoto interno e noi non prendiamo più troppo sul serio l'informazione che ci viene fornita. Non sono solo le "élites" a sapere che la TV mente; tutti sanno benissimo che per sapere ciò che succede devono comprare almeno tre giornali di orientamento diverso, devono guardare programmi televisivi differenti, devono in qualche modo comporre la visione della realtà in una babele informativa che ha certamente delle caratteristiche preoccupanti, nel senso che ci si può sentire confusi, ma ha anche un'intrinseca componente liberante, emancipatoria. Credo che questa sia la nuova situazione con cui ha a che fare la riflessione filosofica sulla tecnologia. Lo spirito in qualche modo soffia dove vuole. La paura che i nostri filosofi e gli avanguardisti artistici del primo Novecento avevano nei confronti della tecnologia, può essere, nella società contemporanea, ampiamente ridimensionata, anche se non del tutto superata, se per esempio ci assicuriamo che il pluralismo dell'informazione sia davvero tale, che non ci siano cioè troppi canali televisivi posseduti dalla stessa impresa per esempio, o che non ci sia una sola informazione di Stato. Ma è bene cercare di spingerci nella direzione della babele, piuttosto che difenderci da essa, perché non dobbiamo eliminare la pluralità dei linguaggi, ma piuttosto moltiplicarla.
1 Professor Vattimo, cominciamo questa nostra conversazione, sul tema della poesia, ricordando il titolo di un libro che Lei scrisse e pubblicò nel 1968. Si intitolava Poesia e ontologia. Che cosa voleva indicare, mettendo insieme questi due concetti, quello di "poesia" e quello di "ontologia"?
Era un modo di annunciare fin dal titolo uno degli assunti
teorici, anche un po’ polemici, del libro. L’idea fondamentale era che
l’estetica novecentesca, o anche del tardo Ottocento - ma forse l’estetica
postkantiana in generale - avesse teso ad isolare l’arte dal dominio della
verità. Si può portare come esempio la teoria estetica di Croce, secondo cui
nella dialettica dei distinti i predicati che si possono attribuire
all’esperienza estetica, all’arte, sono bello o brutto, ma non vero o falso.
Questo significa che l’esperienza estetica non ha a che fare con l’esperienza
della verità. Un tale atteggiamento, che è stato dominante nell’estetica
filosofica del Novecento, era già stato discusso anche prima della pubblicazione
del mio libro da autori - a cui io mi rifacevo - come Gadamer o come Heidegger.
Gadamer in particolare, nel suo libro del 1960, Verità e Metodo , era
partito proprio da una critica di quella che lui chiamava la "coscienza
estetica" - potremmo chiamarla coscienza "estetistica" - cioè muovendo dalla
critica di quell’atteggiamento che appunto considera l’esperienza dell’arte e
del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero. Gadamer
argomentava, secondo me giustamente, che questo estetismo, riferito soprattutto
alla filosofia dell’arte del Novecento, era il corrispettivo dello scientismo
metodologistico del positivismo. Se si domanda perché nell’esperienza estetica
non vi siano il vero e falso, si tende a rispondere che questi appartengono
esclusivamente a quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo
scientifico. Ecco perché, tra l’altro, Verità e Metodo si intitola così:
Gadamer voleva indicare già dal titolo della sua opera che il suo problema era
quello di rivendicare l’esperienza di verità che si fa al di fuori dei campi
metodologicamente organizzati come quelli della scienza. Ora, uno dei campi
classici, o insomma l’emblema stesso di ciò che non è metodico, è l’esperienza
estetica.
Gadamer, che poi allargava il discorso anche all’esperienza delle
scienze storiche, delle scienze umane - perché poi era questo il suo obiettivo
più generale - muoveva dal recupero in senso veritativo dell’esperienza che
sembra essere la più lontana dal vero e dal falso, vale a dire appunto
l’esperienza estetica. Io procedevo in questa stessa direzione anche con
riferimenti che non mi sembrava di trovare già in Gadamer, cioè sviluppando
l’idea che le avanguardie artistiche del Novecento erano proprio una forma di
rivolta degli artisti, dell’arte militante, contro l’estetismo dell’estetica
filosofica. Così, mentre Croce oppure i neokantiani tedeschi sostenevano che
l’esperienza estetica non ha nulla a che fare con il vero o il falso, gli
artisti pensavano invece che l’arte dovesse uscire dal mondo asettico del museo,
della galleria o della pura esperienza della poesia che si raccomandava per la
sua sonorità, per la sua bellezza strutturale, per le forme, senza riferimenti
esistenziali. In quel libro, l’esperienza delle avanguardie novecentesche mi
pareva - e mi pare ancora oggi - interpretabile come una rivolta dell’arte
contro la sterilizzazione a cui sembrava volerla condannare l’estetica
filosofica della sua stessa epoca. E naturalmente, ancora una volta, il
riferimento principale - per me come del resto per lo stesso Gadamer - era la
filosofia di Heidegger; questo in parte perché per me essa è stata un’esperienza
filosofica di fatto dominante, in parte perché mi sembra che sia oggettivamente
fondamentale per il pensiero del Novecento.
È con Heidegger, in fondo, che la
poesia è stata completamente ricondotta all’ambito della verità, fuori dalla
prospettiva limitata in cui l’aveva collocata l’estetismo filosofico del primo
Novecento. Naturalmente i riferimenti a Gadamer e a Heidegger hanno due valenze
differenti, perché in Gadamer il fatto che ci sia un’esperienza di verità nella
poesia, e in genere nell’arte, si giustifica dal punto di vista di una
concezione della verità che risale a Hegel prima che a Heidegger. Io riassumevo
la posizione di Gadamer - mi sembra utile questa formula per ricordarla -
dicendo che "si fa esperienza di verità, quando si fa vera esperienza". Se noi
teniamo presente questa espressione, capiamo perché la lettura di un’opera
d’arte, l’incontro con un’opera d’arte può essere esperienza di verità; basti
pensare all’esperienza che facciamo quando leggiamo un romanzo: ci cambia la
vita, forse non così radicalmente, ma certo cambia, modifica la nostra visione
del mondo. Ora, effettivamente, questa concezione è di origine hegeliana: la
verità è, come dire, l’incontro con un’alterità che noi assimiliamo, e quindi
che non lasciamo stare nella sua estraneità, ma, assimilandola, diventiamo altri
da quello che eravamo.
In Gadamer è molto importante questa idea
dell’esperienza come Erfahrung. La parola tedesca Erfahrung ha da
fare anche col viaggiare, col fahren, e implica un mutamento: possiamo
fare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto, e che, quando fa ritorno
a casa, non può essere esattamente lo stesso, perché ha imparato altre cose, sa
altre cose, e queste cose sono diventate parte della sua conformazione mentale.
Se compiamo una vera esperienza, e cioè qualche cosa che ci costringe, ci spinge
a cambiare, facciamo un’esperienza di verità. In questo senso, l’incontro con
l’opera d’arte, che è l’incontro con una visione del mondo "altra", che ci
scuote, o anche semplicemente che ci arricchisce, rappresenta il senso
dell’esperienza del vero che si fa nell’arte e in genere in tutti quei campi,
come per esempio la conoscenza filosofica, la conoscenza storica eccetera., che
alla mentalità di ispirazione positivistica del tardo Ottocento sembravano
escluse dal campo del metodo scientifico. Certo, la storia non sarebbe capace di
verità scientifica, se la scienza fosse solo la conoscenza di leggi generali.
Allora il punto è: questi saperi che non hanno da fare con principi generali,
con leggi generali, ma con fatti specifici, sono saperi capaci di verità? Direi
di sì, se l’esperienza che facciamo in questi saperi è una vera esperienza.
L’argomento di Gadamer, che sta alla base di Verità e Metodo, si muove
attorno a questa prospettiva.
2 È stato Heidegger che, nel saggio intitolato L’origine dell’opera d’arte, ha chiarito, forse più radicalmente di quanto non lo abbia fatto Gadamer, l’incontro con l’opera d’arte come un’esperienza di verità. Vuole ripercorrere i motivi principali di questo saggio?
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung
des Kunstwerkes ), che è del 1936, Heidegger chiama l’opera d’arte una
"messa in opera della verità". Qui effettivamente troviamo la possibilità di
parlare di "poesia e ontologia" o di "poesia e filosofia" o di "poesia e verità"
o di "arte" in genere. In che senso l’opera d’arte è "messa in opera della
verità"? Prima di tutto è ovvio che, per parlare di opera d’arte come "messa in
opera della verità", bisogna avere una certa concezione della verità, che in
Heidegger non è, e non può essere, quella della verità come corrispondenza di
una proposizione a uno stato di cose. Molto spesso, naturalmente, la tradizione
ha parlato di verità della poesia, ma, poiché ne ha parlato in riferimento a
questa concezione della verità come enunciazione vera di stati di cose, cioè in
termini di proposizioni che corrispondano a uno stato di cose, ha sempre dovuto
concepire la poesia secondo il motto latino del miscere utile dulci, che
esprime l’idea per cui nella poesia si possono dire delle verità, descrivendo,
per esempio, come stanno le cose con l’essenza dell’uomo o le leggi morali,
eccetera. Perché tali verità vengono espresse in poesia? Una ragione può essere,
ad esempio, che in questo modo la gente le impara meglio; anche i proverbi, in
genere, si formulano come dei versetti, espressi in termini "poetici", con delle
metafore.
Sembrerebbe dunque che vi sia una verità della poesia, che è la
stessa verità che si può dire in proposizioni astratte, ma presentata con
termini immaginosi, metaforici, perché piace di più o si ricorda meglio. Ora,
non è questo il senso in cui Heidegger parla di "una messa in opera della
verità", perché per lui la verità, prima di essere la descrizione oggettiva di
uno stato di cose, è l’apertura di un orizzonte di una possibile descrizione
dello stato di cose. Non è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato
di cose usando degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, i
quali per noi sono alla base della possibilità di descrivere in modo veritiero
quello stato di cose. Ma i paradigmi, l’"apertura", per così dire, il sistema
dei presupposti in base a cui possiamo dire la verità, nel senso di descrivere
validamente lo stato di cose, tutto questo insieme precede questa verità
espressa come corrispondenza nella proposizione alla cosa. E questo insieme
difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera, perché per essere
descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro sistema di presupposti, di
un’altra apertura e e così via.
Si comprende benissimo che, procedendo in
questo modo, si potrebbe risalire all’infinito. Heidegger non vuole tanto
risalire all’infinito per distruggere logicamente l’idea di verità, ma
richiamare la nostra attenzione su un fatto che era anche, in fondo, alla base
della critica marxiana dell’ideologia ossia che quando noi enunciamo una
proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta non
enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in qualche modo
siamo - come dice Heidegger – "gettati", ci "apparteniamo", "ci siamo": è il
nostro equipaggiamento. I nostri occhi noi non li descriviamo, mentre
descriviamo ciò che vediamo con gli occhi; quando ci mettiamo a studiare i
nostri occhi, magari li studiamo in base a un’immagine, che però guardiamo pur
sempre con i nostri occhi, che, nel momento stesso in cui li usiamo per
guardare, non possiamo vedere. È una cosa abbastanza ovvia, che però
filosoficamente diventa importante, perché in fondo è alla base della stessa
idea che la poesia sia capace di verità.
3 Professor Vattimo, in che senso dunque la poesia "dice" il vero?
La poesia non dice verità a livello della proposizione
corrispondente all’oggetto, ma "dice" - esprime, rappresenta, mostra - qui è
difficile qui usare un verbo adeguato - la verità dell’orizzonte a cui
apparteniamo quando poi diciamo delle singole verità. Quando noi parliamo di
poesia e verità, per esempio, è abbastanza facile cadere in un errore di
banalizzazione. Che cosa dice una poesia, quale verità enunciabile ricaviamo da
una poesia di Pascoli, di D’Annunzio, di Carducci? Quando cerchiamo di volgere
la verità della poesia in singole verità proposizionali, per lo più ricaviamo
delle proposizioni banali: "Gli uomini sono mortali", "La vita è difficile",
"L’esistenza è sempre schiacciata dal problema della libertà". Questo vuol dire
che, se guardiamo alla verità della poesia, la prima cosa a cui siamo richiamati
è una nozione di verità non proposizionale, non descrittiva, non misurata sul
principio della conformità. Allora, se c’è una verità nella poesia, questa
verità è pensabile solo come apertura originaria dentro cui siamo gettati,
orizzonte all’interno del quale possiamo diventare consapevoli di noi stessi,
che è dunque cosa ben diversa da una verità enunciata come proposizione
descrittiva all’interno di questo stesso orizzonte.
Il rapporto con questa
verità è poetico anche perché non può essere descrittivo-proposizionale o
scientifico: se noi ci sforziamo di afferrare questa verità, ci accorgiamo che è
impossibile renderla in termini di proposizioni dimostrabili, oggettivabili. Con
esse siamo in un rapporto che si potrebbe chiamare "abitativo", nel senso che
c’è nella nostra esistenza, alla base di ogni nostro enunciato tematico, una più
originaria appartenenza che noi non riusciamo a tematizzare. Noi non possiamo
dire che, poiché non riusciamo a tematizzarla, dobbiamo trascurarla.
Trascurarla, infatti, significherebbe lasciarsi guidare da pregiudizi che noi
non sospettiamo neanche di avere - il che è abbastanza pericoloso. Sapere di
appartenere ad un orizzonte che non possiamo oggettivare davanti a noi - perché
ciò è contraddittorio con la nozione stessa di orizzonte -, significa già
sforzarsi di fare esperienza di questo orizzonte con altri mezzi. In fondo,
tutta la storia delle arti nella storia della cultura è questo.
Le arti non
hanno mai detto verità utili, utilizzabili, sistemabili in un trattato, e
tuttavia ci sono sempre state. Controbattere sostenendo che ciò è accaduto solo
perché l’uomo ha inevitabilmente anche un aspetto di "oziosità" è una
spiegazione un po’ troppo banale, soprattutto se si pensa alla vita degli
artisti, all’interesse che la gente porta all’arte, anche all’importanza sociale
che l’arte ha sempre avuto nella cultura. Che l’arte sia messa in opera della
verità tende a spiegare meglio tutte queste cose; c’è una verità più originaria
delle singole verità che possiamo enunciare e il rapporto con questa verità più
originaria non si può per definizione tematizzare in proposizioni enunciabili:
esso costituisce il senso dell’esperienza estetica. Nella pittura, nella musica,
nella poesia noi mettiamo in opera, in qualche modo, questa apertura della
verità. Heidegger naturalmente collega a questo anche tutto un altro insieme di
contenuti filosofici. Uno, in modo particolare, è l’idea che la verità non sia
sempre la stessa in tutte le epoche, e cioè che non è vero che tutti gli uomini
sono sempre gettati in un orizzonte di verità sempre uguale, ma che ci sono
delle cesure, dei cambiamenti nell’orizzonte di verità in cui noi ci troviamo.
Anche questa è una cosa che si capisce, se si pensa a teorie diverse da quella
heideggeriana, ma forse a questa vicine nell’intenzione. Intendo riferirmi, ad
esempio, a una teoria come quella di Thomas Kuhn, ad esempio, che parla dei
"paradigmi", secondo cui le scienze provano, dimostrano proposizioni, però
all’interno di un insieme di presupposti, di assiomi, che costituiscono appunto
il paradigma all’interno del quale si prova o si falsifica una proposizione. A
sua volta, il paradigma, anche per Kuhn, non è oggetto di prova o di
falsificazione, perché altrimenti si esigerebbe un altro paradigma più ampio
all’interno del quale si possa provare qualcosa o falsificare qualcosa. Quindi,
anche in questo caso, i paradigmi all’interno dei quali si muovono le verità
della scienza sono storicamente dei fatti complessi.
Certamente non si può
dire che essi siano dei fatti irrazionali, però sono dei complessi eventi
storici a cui gli scienziati appartengono e all’interno dei quali trovano o
falsificano proposizioni. Ebbene, se noi pensiamo a questo, possiamo avere
un’idea, ancora una volta, di che cosa Heidegger intenda quando dice che l’arte
è "messa in opera della verità". "Messa in opera" che può essere storicamente
mutevole, proprio perché le epoche, i paradigmi, non sono sempre gli
stessi.
È la ragione per cui l’arte è una storia e non accade una volta sola.
Altrimenti basterebbe una sola opera d’arte, come ad esempio una tragedia greca,
per tutte le epoche. Ma non è così, perché oltre alla tragedia greca, esiste la
Divina Commedia o l’opera di Shakespeare, tra le quali noi cogliamo delle
differenze: in queste diverse opere d’arte si aprono dei mondi diversi, dei
mondi storici all’interno dei quali l’umanità del passato è vissuta e dentro cui
ancora viviamo noi, mediandoli con il nostro mondo storico, con i nostri poeti,
con le nostre opere d’arte.
4 In Heidegger l’esperienza estetica come esperienza di incontro con la verità è soprattutto un’esperienza poetica. Perché, professor Vattimo, proprio la poesia, perché i poeti, per dirla con il titolo di un saggio di Heidegger, hanno un ruolo privilegiato?
Perché nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte di
Heidegger c’è anche una sorta di riconduzione di tutte le arti alla poesia come
arte della parola. Ora questo è un tema naturalmente complesso, forse anche
controverso tra gli interpreti di Heidegger, però Heidegger certamente ritiene
che, in qualche senso, la funzione inaugurale di apertura di un mondo storico
che l’opera d’arte ha, si realizza in modo speciale, in modo privilegiato
nell’arte della parola. "Apertura di un mondo storico" può voler dire due cose.
Svelamento di un mondo storico - e in questo caso ci troviamo in temi che sono
familiari alla storia dell’estetica e della filosofia. Hegel, per esempio,
sosteneva che, almeno in certe fasi dello sviluppo dello spirito, la verità
dell’epoca, la verità dello spirito di un’epoca, si rivela nell’arte e non nella
religione o non nella filosofia.
L’estetica hegeliana sostiene che nella
storia dell’umanità, l’età in cui l’arte è il luogo supremo di rivelazione dello
spirito dell’epoca è stata l’età classica greca. C’è un’epoca nella storia dello
spirito in cui lo spirito si rivela a se stesso, si documenta, in qualche modo,
più adeguatamente nell’arte che non nella filosofia o nella religione, mentre,
ad esempio, lo spirito medievale si rivela piuttosto nella religione cristiana;
il senso del gotico è il senso di un’arte la cui verità è però la religione.
Bene, noi possiamo intendere in questi termini la posizione di Heidegger, per
cui nell’opera d’arte si apre un mondo storico, nel senso che in essa vi si
rivela. Ma l'originalità di Heidegger è nell’idea che nell’opera d’arte si
"inaugura" un mondo storico: non solo si apre, nel senso che si svela più
adeguatamente, ma accade prima di tutto lì.
Il linguaggio è uno degli
strumenti fondamentali attraverso cui noi accediamo al mondo; non accade che
prima noi vediamo il mondo e poi troviamo le parole per descriverlo, perché,
come mostrano le nostre esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo
la parola, in un certo senso non vediamo la cosa. Secondo Heidegger, è
soprattutto il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo. Noi ereditiamo un
insieme di capacità per vedere il mondo, ereditando un certo linguaggio, la
nostra lingua naturale, che però non è naturale in quanto eterna; è naturale nel
senso che è la nostra lingua madre, la lingua che impariamo quando siamo
bambini. Ebbene, questo linguaggio, che non è sempre uguale - le lingue sono mai
state tutte eguali nel corso della storia - costituisce un fatto naturale e
storico insieme. In quanto fatto storico ha dei momenti principali in cui
ovviamente cambia. Heidegger identifica i momenti di "inaugurazione" di una
lingua di un’epoca con certi grandi eventi poetici. Noi diciamo abitualmente a
scuola che Dante è il padre della lingua italiana, che la traduzione della
Bibbia di Lutero ha fondato il tedesco moderno, che Shakespeare è, quasi come
Dante, il padre della lingua inglese, eccetera. Talvolta questo lo diciamo in
maniera banalizzante, ma per Heidegger c’è una verità in tutto ciò molto
profonda, e cioè che nella poesia si inaugurano svolte decisive delle lingue
naturali. Quindi, anche in questo senso, l’opera d’arte "mette in opera la
verità" e la mette in opera come opera d’arte linguistica, perché dal punto di
vista di Heidegger, anche per interpretare storicamente delle opere d’arte non
linguistiche - per esempio la pittura di Michelangelo o di Goya - noi, per
esprimerne il carattere aprente, inaugurale, utilizziamo delle parole.
5 Abbiamo visto che per Heidegger c'è una certa originarietà della poesia rispetto alle altre arti: quali sono i problemi suscitati da questa tesi?
Questo è un punto su cui pochi studiosi di estetica
concorderebbero pienamente, perché l’esperienza dello spazio, per esempio, che
si fa con la pittura, con l’architettura, con le arti visive, si può considerare
ragionevolmente ancora più originaria, o almeno altrettanto originaria, di
quella delle parole. Heidegger stesso, in un’opera tarda, la breve ma
intensissima prolusione degli anni Sessanta intitolata L’arte e lo spazio,
potrebbe fornire elementi per andare in questa direzione, in quanto qui egli
sostiene che, se dovesse riscrivere Essere e Tempo, riconoscerebbe altrettanto
originario, nella nostra esperienza, lo spazio.
Heidegger, mettendo allo
stesso livello spazio e tempo come forme originarie della nostra esperienza,
avrebbe forse anche dovuto rivedere il rapporto tra arti del linguaggio e arti
visive, spaziali. Dunque per gli studiosi heideggeriani, su questo probabilmente
c’è ancora molto da lavorare. Però il senso fondamentale è: l’opera d’arte ha
una funzione inaugurale rispetto ai mondi storici, soprattutto in forma di opera
d’arte poetica - "dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde", "poeticamente
abita l’uomo su questa terra" è un verso di Hölderlin a cui Heidegger fa
riferimento in un saggio sulla poesia. Ovviamente l’abitare richiama
l’esperienza dell’architettura, delle arti della visione; il "poeticamente"
significa, se dobbiamo prenderlo alla lettera, nell’interpretazione che dà
Heidegger di questo verso di Hölderlin, che l’abitare storico dell’uomo ha a che
fare con lo stare in un ambiente, ma questo stare in un ambiente è vissuto
esistenzialmente anzitutto come appartenenza ad un linguaggio che è parola.
I
versi di Hölderlin che Heidegger commenta con l’espressione a cui io mi sono
poco fa richiamato, sono in realtà due, tra loro simili. L’altro dice: "voll
Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde", "pieno di merito e
tuttavia poeticamente abita l’uomo su questa terra". Qui, secondo me, c’è
un’ulteriore dimensione di questo significato aprente dell’opera d’arte, che
vale la pena illustrare. Questo distico hölderliniano, "pieno di merito e
tuttavia poeticamente abita l’uomo", contiene anche un altro elemento, non solo
quello dell’abitare, non solo quello della poesia nel senso di arte della
parola, ma anche quello di una opposizione tra "abitare poetico" e
"merito".
Ancora una volta, quella verità che si apre nella poesia e che è
l’apertura dell’orizzonte all’interno del quale poi noi possiamo enunciare le
verità nel senso tematico, proposizionale della parola, quella verità è anche
qualcosa che ci proviene e che noi non costruiamo. Ecco perché c’è
un’avversativa tra il "pieno di merito" e "tuttavia poeticamente abita l’uomo".
"Pieno di merito" vuol dire: certamente l’uomo abita sulla terra, costruendo
case, producendo automobili, ascensori per facilitarsi l’esistenza, per
difendersi dai pericoli della natura, e così via; tuttavia, dice Hölderlin,
l’uomo "abita poeticamente". C’è qualche cosa, alla base di tutta questa opera
che è propria dell’uomo, che non è attività, ma è prima di tutto qualcosa come
ricezione, passività
In fondo, anche noi, quando facciamo esperienza di
poesia, parliamo quasi spontaneamente di grazia. Gli applausi che si rivolgono
ai grandi interpreti hanno da fare col ringraziamento e poi, tradizionalmente il
bello dell’arte è stato accostato all’idea di grazia, non tanto alla graziosità
che è un’accentuazione della facilità del movimento - si dice che un balletto è
grazioso, che una piccola opera d’arte è graziosa, quasi come se fosse qualcosa
di meno del bello -; la grazia è, per esempio, il creare "in stato di grazia",
il che costituisce l’originalità del genio. Tutti questi modi in cui la
tradizione ha enfatizzato l’esperienza estetica, hanno una loro radice nel
"doch", nell’opposizione tra l’attività utile, produttiva, volontaria, di cui
noi abbiamo merito, l’uomo ha merito, e il trovarsi gettato in un mondo
disponendo già, per esempio, del linguaggio e di un insieme di vie di accesso
agli enti, che non ci siamo costruiti da noi e che sono alla base di tutto il
nostro costruire. Questo è importante per capire qual è quel tipo di verità che
si può dare nella poesia.
6 Professor Vattimo, vi sono altre dottrine estetiche che possono illustrare la concezione heideggeriana dell’arte?
Un altro grande pensatore estetico del Novecento è stato Michel
Dufrenne, autore di varie opere tra cui una Fenomenologia dell’esperienza
estetica, e un saggio intitolato Il poetico; egli è stato un
filosofo, diciamo, di scuola fenomenologica ma molto sensibile anche alle
suggestioni heideggeriane. Ebbene, Dufrenne aveva descritto l’opera d’arte come
un "quasi soggetto", il che ci serve molto per capire che cosa possiamo
intendere Heidegger a proposito dell’apertura nel mondo. Un "quasi soggetto" è
un "oggetto" che si incontra nel mondo e che non si lascia trattare come un puro
oggetto. Un’opera d’arte è una visione sul mondo, non un pezzo di mondo.
Un
romanzo, un quadro, una sinfonia, non sono cose che si aggiungono ad altre nel
mondo, ma contengono sempre, in qualche modo, l’appello a reinterpretare il
mondo. L’"altro" con cui mi incontro, se non è un individuo che voglio usare per
un certo scopo, ma è uno che ascolto come un "altro", mi offre
un’interpretazione del mondo con cui mi debbo misurare, non è un oggetto che
metto accanto agli altri tranquillamente, aggiungendo un pezzo al mio
mondo.
Qualcosa di questo genere si può intendere per capire di che cosa
parliamo quando diciamo che un’opera apre un mondo. È una prospettiva altra sul
mondo, che può diventare un oggetto del mio mondo, ma se desidero appendere un
quadro nella mia camera, lo faccio non soltanto perché sta bene lì; qualcuno può
anche intenderlo solo così, in termini puramente decorativi, ma se poi
cercassimo di spiegarci perché sta bene, secondo me, scopriremmo sempre che sta
bene perché evoca, apre immagini di mondo alternative a quelle dentro cui sto e
quindi non è semplicemente una parte, un pezzo passivo, inerte nel mio mondo, ma
è un soggetto che mi parla.
7 C’è però un’altra considerazione che dobbiamo fare, sempre riguardo ad Heidegger. Lei non crede che vi sia in Heidegger una sorta di intonazione religiosa? In fondo Heidegger parla di poesia, ne parla in generale come luogo originario, però poi sceglie, di fatto, alcuni poeti in particolare, ne privilegia alcuni, Hölderlin su tutti. Ecco, che cosa significa questa scelta? Che cosa intende fare Heidegger con questa operazione?
Qui il discorso potrebbe, dovrebbe essere molto ampio. È vero
che Heidegger sceglie Hölderlin tra i poeti - uno dei poeti che commenta più
frequentemente, con cui ha convissuto, per così dire, per tanto tempo, fino a
definirlo come "il poeta del poeta", cioè il poeta della poesia. Questo è molto
interessante perché collocherebbe Hölderlin e Heidegger nell’orizzonte di uno
dei tratti caratteristici della poesia novecentesca o dell’arte novecentesca,
che è intensamente caratterizzata dall’autoriflessione. C’è tutta una storia
della pittura, per esempio, tra Otto e Novecento, che vede l’evoluzione della
pittura come un’accentuazione della consapevolezza dei mezzi della pittura: il
colore, il quadro, la tela, le linee, la prospettiva spaziale. Quindi mi sembra
molto significativo che Heidegger sia così sensibile a questo. Diciamo però che
il discorso di Heidegger va ancora oltre, non solo scegliendo Hölderlin in
quanto "poeta del poeta", ma anche Rilke, per esempio, o, negli scritti degli
anni Cinquanta, Trakl, che è un poeta difficile perché "maledetto" in molti
sensi, un poeta espressionista del tutto diverso dai poeti "vati" che ci si
aspetta che Heidegger commenti; ebbene, la scelta di questi poeti non è in
Heidegger slegata da una considerazione epocale.
Ancora una volta, non ci
sono poeti che esprimono meglio di altri l’essenza eterna dell’arte, ci sono
poeti che sono più eloquenti, più capaci di dirci che ne è dell’essere nella
nostra determinata epoca.
Il destino dell’essere nella nostra determinata
epoca ha probabilmente a che fare anche con il fatto che il poeta poeti sulla
poesia, nel senso che l’autoriflessività della poesia hölderliniana, che parla
del poeta, diventa determinante per Heidegger, perché è particolarmente in
sintonia con un’epoca dell’essere che è quella che Heidegger tenta di
cogliere.
Che cosa può voler dire tutto questo? Traduciamolo un po’
sommariamente nei nostri termini. Non sempre e non in ogni epoca culturale o
della storia dell’essere è così chiaro che l’esperienza della verità sia
esperienza dell’orizzonte piuttosto che esperienza delle proposizioni vere, come
ho detto prima. È nella nostra epoca, che Heidegger chiama della "fine", del
"compimento" o del "superamento" della metafisica, che ci diventa possibile
capire meglio che la verità non è soltanto o principalmente la proposizione che
descrive adeguatamente lo stato di cose, ma è l’appartenenza ad un orizzonte
dentro cui siamo "gettati", che ci è donato.
In questa epoca, in cui diventa
comprensibile - perché è finita la metafisica - questa esperienza della verità
come appartenenza, allora è più verosimile cercare il vero nei poeti e in certi
poeti che poetano sulla poesia. Ecco perché il discorso è complesso. Heidegger
non avrebbe mai detto che si debba in ogni epoca cercare la verità piuttosto
nella poesia; ma soltanto che nella nostra epoca diventa possibile cercare la
verità nei poeti, in quei poeti che sono particolarmente consapevoli del
significato della poesia in questa epoca. Quest’idea è complessa, ma non del
tutto inverosimile. Non tutti i poeti sono uguali, non sempre il rapporto tra
verità e poesia si svela nello stesso modo. Per Heidegger di questa epoca sono
emblemi poeti come Hölderlin, Rilke, Trakl, George.
8 Professor Vattimo, lasciamo per un momento la poesia, per tornare proprio al discorso invece più globale sull’arte. Lei ha parlato dell’arte, dell’esperienza estetica come esperienza di verità. Possiamo allora radicalizzare il discorso e intenderla proprio come esperienza ermeneutica?
Possiamo sicuramente parlare di esperienza ermeneutica in
rapporto a questa verità intesa come appartenenza all’apertura. L’ermeneutica è
quella posizione filosofica che individua l’esperienza della verità non come
descrizione oggettiva di stati di cose, o quanto meno non solo come descrizione
oggettiva di stati di cose, ma prima di tutto come abitare dentro un’apertura
che ci regge e ci rende possibile qualunque descrizione oggettiva. Come a Marx
interessava capire l’ideologia che sta dietro le nostre descrizioni del mondo,
così a Heidegger interessa cercare di risalire a questa verità come apertura
alla quale apparteniamo, a questo paradigma. Ora, questo risalire è un dialogo
con la poesia. Heidegger ha spesso parlato della filosofia, del pensare, come
dialogo di filosofia e poesia .
Il dialogo di filosofia e poesia è sempre in
corso e in esso entra in gioco il modo di vedere la verità come orizzonte a cui
apparteniamo, il che non è molto lontano dalla religione. A mio parere una
riflessione intensa, approfondita, sul rapporto di filosofia e poesia per il
pensiero, non può che condurre anche a ritrovare una certa valenza religiosa di
ciò con cui la filosofia ha a che fare. Potremmo dire che se ciò che ci si svela
nella poesia è quella verità che ci è data come dono, come grazia - si potrebbe
dire -, e con cui siamo in un rapporto di dialogo chiarificatore, interrogativo,
non puramente contemplativo e passivo -, allora quell’altra forma della vita
spirituale che Hegel, come ricorderete, metteva insieme a filosofia e arte,
riguarda sicuramente la religione.
Io credo che il pensiero contemporaneo,
attraverso l’esperienza dell’ermeneutica, nella misura in cui riceve di nuovo un
accesso ad una ricerca della verità, ad un ascolto della verità che si dà nella
poesia, sia in qualche modo richiamato anche ad un’esperienza religiosa. Ciò che
caratterizza il pensiero di oggi in una larga parte della filosofia - anche se
non in tutta - è dapprima un nuovo ascolto della poesia, ma sempre più anche una
nuova sensibilità religiosa che non mette da parte la poesia. Probabilmente se
vi sarà una nuova esperienza religiosa del pensiero, essa dovrà essere sempre
più intensamente collegata con l’esperienza estetica, comportando, a partire da
questo aspetto, una ridefinizione dell’esperienza religiosa stessa.