a) L'abbandono dell'essere parmenideo e la scelta del divenire provocano nell'umanità occidentale un sentimento di angoscia di fronte al niente, di nostalgia, di bisogno dell'essere.
b) L'Occidente con la logica del rimedio innalza gli immutabili per difendersi dal divenire che esso ha evocato, cioè costruisce le entità (Dio) e i valori (etici, naturali, ecc.) trascendenti e permanenti.
c) Al di sopra degli immutabili l'epistéme, cioè l'essenza originaria della filosofia, la volontà di conoscere stabilmente la verità del mondo. L'epistéme è la dimensione stabile del sapere, all'interno della quale vengono innalzati tutti gli immutabili dell'Occidente. La fede cristiana eredita i caratteri di stabilità dell'epistéme e si rivolge alle masse.
Severino prende le mosse dal pensiero del suo maestro Bontadini - fondatore della Neoscolastica milanese - ma presto se ne allontana: se per Bontadini nel mondo domina il divenire (come ci attestano i sensi stessi), l'unica via per ammettere qualcosa di eterno è Dio, inteso come ente immutabile ed imperituro. Ora Severino stravolge il discorso del suo maestro: giacchè nel mondo non vi è il divenire - esso è solo una doxa degli uomini, secondo l'insegnamento parmenideo -, non è necessario far riferimento ad un ente eterno e trascendente; il mondo stesso che ci appare dinanzi è eterno. Ben si capisce come in virtù di queste sue posizioni Severino fu allontanato dalla cattolica di Milano. Accrescere il proprio potere sulle cose e sugli dèi: questo è sempre stato il desiderio più profondo degli uomini, i quali pensano che la potenza li renda capaci di vincere il dolore e la morte. Nel paradiso terrestre il serpente assicura che non si morirà mangiando il frutto proibito; anzi si diventerà come dèi, si avrà cioè la loro potenza. Tecniche, religioni, filosofia, arti, sono i grandi espedienti escogitati dall'uomo per diventare sempre più potente . La tecnica fondata sulla scienza moderna è ormai il più potente strumento di trasformazione del mondo. Ma il Luogo che contiene tutti i luoghi è la totalità dell'essere. La filosofia ha inteso indicarne il volto. Dapprima ha affermato l'esistenza di Dio, ossia dell'Essere immutabile che nessuna potenza umana può dominare. Poi la filosofia del nostro tempo ha mostrato che nessun Dio immutabile ed eterno può esistere. Cosicché, dapprima, ha avuto la strada sbarrata da Dio e dalle sue leggi; poi la filosofia ha liberato la strada da ogni ostacolo. Il cristianesimo, quindi, va incontro allo stesso destino della filosofia, con l'aggravante di mettere da parte lo spirito critico con cui la filosofia cerca di argomentare le ragioni della necessità degli immutabili che servono come difesa e riparo rispetto al divenire, e sono paragonabili alle creazioni della volontà di potenza di cui parla Nietzsche. Gli immutabili, prevedendo e controllando il divenire soffocano e minacciano la volontà di esistere, in modo più insopportabile della stessa minaccia del divenire. L'uomo ricorre allora, come ad un'ancora di salvezza, alla scienza e alla tecnica, affinché lo liberino da questa minaccia. La filosofia contemporanea tende a tramontare nel sapere scientifico, proprio perché essa è negazione e distruzione degli immutabili. A questo proposito, asserisce Severino: " La filosofia va necessariamente verso il proprio tramonto, cioè verso la scienza, che tuttavia è il modo in cui oggi la filosofia vive. [...] Tutti possono vedere che la filosofia, su scala mondiale, declina nel sapere scientifico " ( " Che cosa fanno oggi i filosofi? ", Milano 1982). Del resto, lo stesso Heidegger, cui Severino si ispira costantemente (pur auspicando un ritorno a Parmenide), aveva affermato, in " Ormai solo un dio ci può salvare ": " La filosofia è alla fine. […]Quella che è stata la funzione della filosofia fino ad oggi è stata ereditata dalle scienze. [...] La filosofia si dissolve in singole scienze: la psicologia, la logica, la politologia ". Aristotele, così aperto verso le posizioni dei suoi predecessori, pur confutandole, di fronte alla filosofia di Parmenide si spazientisce e la bolla come una follia ( mania ). L’esempio più caro a Severino, nell’argomentare la sua posizione parmenidea, è quello della legna che per l’azione del fuoco “diventa” cenere: nella tradizione occidentale, siamo soliti pensare che la legna si trasformi in cenere; quando scorgiamo la cenere, del resto, la associamo subito alla legna, convinti che da essa derivi. Siamo così portati a dire che è cenere da parte della legna; similmente, quando Socrate cresce in altezza, diciamo che è alto da parte di Socrate. Ma ciò non toglie che diciamo anche “Socrate è alto”: similmente, si dovrà per Severino affermare che la legna è cenere. E’ questa una follia per la tradizione occidentale: Platone stesso, nel “Teeteto”, spiegava come neanche nei sogni o nella follia fosse possibile predicare il contrario di una cosa, dicendo ad esempio che il cavallo è il toro, è il bue, ecc. Ugualmente, è assurdo, folle, predicare che la legna è la cenere: ma questo per una tradizione che è essa stessa folle e si è separata da Parmenide e che mescola indebitamente essere e non essere (la legna che finisce nel nulla, la cenere che dal nulla nasce). Ma, secondo Severino, l'abbandono dell'essere parmenideo e la scelta del divenire è la follia dell'Occidente , il sentiero della notte, lo spazio originario in cui sono venuti a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma anche le sue istituzioni sociali e politiche. Di fronte all' è angoscia del divenire , l'Occidente, rispondendo alla logica del rimedio, ha evocato è gli immutabili (Dio, le leggi della natura, la dialettica, il libero mercato, le leggi etiche o politiche, ecc.). La civiltà della tecnica domina il mondo. All'inizio della nostra civiltà Dio, il Primo Tecnico, crea il mondo dal nulla e può sospingerlo nel nulla. Oggi, la tecnica, ultimo dio, ricrea il mondo e ha la possibilità di annientarlo. Nella sua opera Severino intende mettere in questione la fede nel divenire entro cui l'Occidente si muove, nella convinzione che l'uomo vada alla ricerca del rimedio contro l'angoscia che esso provoca. Il divenire è una follia. Riecheggiando Nietzsche, si tratta di comprendere che non solo non può esistere alcun Dio immutabile ed eterno, ma che il divenire non è un percorso rettilineo e irreversibile ma un circolo che eternamente ritorna su di sé (immaginiamo una pellicola cinematografica su cui le stesse immagini girano in eterno). Chi è capace di scorgere la necessità di questo circolo è il "superuomo", il quale possiede la volontà più potente di ogni altra. Sapendo che la strada è circolare si è infatti essenzialmente più potenti, nel procedere e nell'agire, di chi, ignorandolo, e credendo che il percorso sia rettilineo, va continuamente fuori strada. E allora, chiediamoci, la tecnica guidata dalla scienza moderna, proprio la tecnica, che oggi si presenta come produttrice della potenza suprema dell'uomo, può permettersi di ignorare che il corso degli eventi del mondo ha un carattere circolare? Può ignorare il tratto fondamentale del mondo? Una tecnica che lo ignori non è forse impotente rispetto alla tecnica che lo conosce e pone questa conoscenza al proprio fondamento? E in tal modo non ci si deve forse preparare ad ammettere quella che ci sembrava l'affermazione più paradossale, cioè che la dottrina dell'eterno ritorno solleva la tecnica al culmine delle proprie possibilità? Severino può apparire paradossale, anche assurdo, inconcepibile, perché sostiene che tutto è eterno, non solo ogni uomo e ogni cosa, ma anche ogni momento di vita, ogni sentimento, ogni aspetto della realtà, e quindi niente scompare, niente muore: l'eternità è la sua passione, la sua vocazione. Tutti da millenni credono che le cose e gli uomini nascono dal nulla e nel nulla ritornano: Severino stesso dice che " nascere vuole dire [...] uscire dal niente; morire vuol dire tornare nel niente: il vivente è ciò che esce dal niente e torna nel niente " ( " Che cosa fanno oggi i filosofi? ", Milano 1982). Tuttavia per Severino tutto è eterno. Non basta: solo in superficie si crede che le cose vengano dal nulla e che nel nulla alla fine precipitino, perché nel profondo siamo convinti che quel breve segmento di luce che è la vita è esso stesso nulla. E' il nichilismo. E' l' omicidio primario , l'uccisione dell'essere. Ma è una contraddizione: ciò che è non può non essere, né può essere stato o potrà mai essere nulla. Una contraddizione che è la follia dell'Occidente, e ormai di tutta la terra. Una ferita che necessita di numerosi conforti, dalla religione all'arte, tutti affreschi sul buio, tentativi di nascondere, medicare il nulla che ci fa orrore. Per fortuna ci attende la Non Follia , l'apparire dell'eternità di tutte le cose. Noi siamo eterni e mortali perché l'eterno entra ed esce dall'apparire. La morte è l'assentarsi dell'eterno . Abbiamo tutti nel sangue il nichilismo. Ci crediamo mendicanti quando invece siamo re. Come dice Orazio, " pulvis et umbra sumus " ("siamo polvere e ombra"): l'uomo diventa polvere, ma anche la polvere è eterna. Si può forse esorcizzare la morte aiutandosi con le religioni o con le filosofie, si può anche credere che tutto finisca in un grande silenzio, simile a quello che precede la nascita. La scienza riesce a prolungare la vecchiaia, i piaceri che ricerchiamo avidamente stordiscono le preoccupazioni accumulate dai giorni, la bellezza ci aiuta a disprezzare gli insopportabili ragionamenti dei mediocri. Un frammento di Eraclito recita: " attendono gli uomini, quando sono morti, cose che essi non sperano né suppongono ". Quali spettacoli si mostrano, se si mostrano, dopo la morte? La morte ha un significato che sta al di là di ciò che si intende comunemente con questo termine. Sta al di là della stessa contrapposizione tra morte e immortalità. L'Occidente, la cui preistoria è l'Oriente, la intende invece come annientamento, salvando in alcuni casi l'anima o la coscienza che continuerebbero ad avere una loro vita. Severino cerca di dimostrare che la persuasione che una qualsiasi cosa o evento (uomo, pianta, stella, situazione, istante) possa annientarsi, e annientato sia niente, è Follia essenziale. È la Follia più profonda che possa manifestarsi non soltanto nel mondo umano, ma nel Tutto. In diverse forme la Follia domina la storia della Terra; al di fuori della Follia appare l'eternità di ogni cosa e di ogni evento. La morte appartiene alla manifestazione degli eterni, è un evento interno a tale manifestazione. Essa non ci travolge, ma è una parte del nostro esistere. È una condizione necessaria della felicità. Noi siamo destinati alla felicità che è l'oltrepassamento di tutte le contraddizioni e non un premio concesso. È necessità. È inevitabile che dopo il tramonto della vita e della morte, della volontà e dell'abulia l'uomo sia felice. In tale prospettiva, Dio non è il demiurgo ma l'apparire infinito degli eterni, è essenzialmente diverso da quello della tradizione religiosa e filosofica. Dio non sta in un altro mondo: nel profondo noi siamo l'oltrepassamento della totalità delle contraddizioni. Non è facile cogliere il suo messaggio, il suo linguaggio inusuale. Il mondo è troppo concreto per permettersi il lusso di strapparsi dalla pelle gli accidenti della giornata, che stanno addosso agli uomini come dei fastidiosi pidocchi, che ci tormentano come questi parassiti e che divorano le nostre vite succhiandoci il tempo e il sangue. In virtù di queste sue idee (e, più in generale, dell'intero suo impianto filosofico), Severino fu allontanato dall'università Cattolica nel 1969: " mi resi conto che il mio discorso conteneva il no più radicale alla tradizione metafisica dell'Occidente e dell'Oriente. Non era rivolto specificamente contro la religione cristiana ". Ma l'educazione cattolica ricevuta da Severino non è mai completamente svanita, anche dopo l'elaborazione della sua filosofia: certo, egli mette da parte la nozione di Dio, ma non quella di Verità, cardinale nella tradizione cristiana. " La Verità prende il posto di Dio, che è rimedio dell'angoscia contro il nulla. Dio è all'interno della follia, del nichilismo, del credere che le cose muoiono ". Per Severino la tecnica non è ancella delle forze che governano il mondo, ma è essa stessa a governare i destini dell'umanità. La tecnica prosegue il proprio cammino sapendo che non incontrerà alcuno ostacolo e alcun limite invalicabile. La filosofia contemporanea l' ha resa completamente libera, l' ha sollevata al culmine delle sue possibilità. Ascoltando la voce della filosofia del nostro tempo, la tecnica può assumere ora un'andatura del tutto diversa ed essenzialmente più incisiva. Il mezzo (la tecnica, le nuove tecnologie, le reti telematico-informatiche) sta diventando lo scopo, il fine della comunicazione. Così la celebre frase di Mac Luhan, " il medium è il messaggio ", alla luce di questa riflessione diviene immediatamente comprensibile: il mezzo della comunicazione forma e trasforma i messaggi che veicola, e sovente, nell' epoca postmoderna, diventa il fine del comunicare stesso, lasciando sullo sfondo concetti e idee. Il concetto stesso di etica sta cambiando drasticamente, l'etica sta diventando tecnica, ossia la potenza e la capacità di trasmettere e diffondere informazioni. L'etica così come è stata pensata da Aristotele e da altri illustri filosofi, sta lasciando il posto al dominio della tecnica. Il pensiero postmoderno è figlio di un processo lungo due secoli durante i quali il concetto di verità è stato smontato, specie nel suo legame col divino. Dio è morto e con lui la verità, lasciando il posto, si potrebbe aggiungere, a relativismi, possibilismi e revisionismi di ogni sorta. In questa prospettiva storico-cosmica, Severino colloca la situazione italiana, meno liberata rispetto ad altre. In Italia il tramonto della filosofia nella scienza avviene più lentamente che altrove, soprattutto perché nel nostro paese esistono il centro del cattolicesimo mondiale e il più forte partito comunista del mondo occidentale, due istituzioni che, in modi specifici, contribuiscono a tenere in vita il senso tradizionale della filosofia, cioè la filosofia come epistéme, luogo dell'evocazione degli immutabili. E' molto rilevante il titolo di un'opera di Severino, composta nel 1985: " Il parricidio mancato "; il parricidio in questione sarebbe quello commesso da Platone (come il filosofo ateniese stesso afferma) ai danni di Parmenide, padre della filosofia dell'essere. Ora Severino, che si riaggancia al pensiero dell'antico ontologo, vuol mettere in luce come, in realtà, si sia trattato di un "parricidio mancato": la filosofia di Parmenide è ancora viva e vegeta ed è ad essa che Severino intende riallacciarsi. Parmenide infatti, secondo Severino, mette in luce per la prima volta il senso radicale della contrapposizione tra l'essere e il niente e chiarisce quindi il senso assoluto di questi due enti, comprendendo filosoficamente ciò che prima non era stato possibile chiarire dal mito. I primi pensatori iniziarono a capire che l'essere poteva essere visto come il Tutto al di là del quale non vi era nulla: infatti il niente non è qualcosa che possa venire conosciuto o del quale si possa parlare. Parmenide è importante perché approfondisce ed interpreta il concetto di essere. Infatti se il non essere non è, non può inframmezzarsi all'essere e dividerlo in parti; né può essere qualcosa da cui l'essere sorga o in cui si dissolva. In questa argomentazione di Parmenide, viene utilizzato il fondamentale principio logico detto di "non-contraddizione", secondo il quale non vengono accettati contemporaneamente di una stessa realtà un carattere ed il suo contrario. Infatti, Parmenide fa notare che è logicamente contraddittorio affermare che il non essere ci sia, che il nulla esista, perché il non essere è il contrario dell'essere e affermare della stessa realtà un carattere e il carattere contrario è un errore logico: un nonsenso. Il divenire dell'essere è quindi un'opinione senza verità, un'apparenza illusoria di cui si convincono i mortali, che seguono il percorso della non-verità , ovvero di ciò che è apparenza. Con il medesimo ragionamento Parmenide ammette che l'essere non è mai nato, né mai morirà, cioè è eterno. Per affermare infatti che sia nato, bisognerebbe ammettere che ci fosse stato qualcosa da cui è stato generato, ma siccome l'essere è unico, ciò è logicamente contraddittorio. Per la stessa ragione non possiamo accettare il fatto che l'essere si muova, perché per farlo dovrebbe passare da un luogo ad un altro e muoversi in un elemento, lo spazio vuoto, il non essere, che permetta lo spostamento e ciò è logicamente contraddittorio. Severino riflettendo su Parmenide e sulla storia della filosofia occidentale, che ha posto al suo centro il divenire, la follia che domina il mondo, giunge ad affermare che tutto è eterno . Tutto è eterno significa che ogni momento della realtà è , ossia non esce e non ritorna nel nulla, significa che anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si è soliti riservare a Dio. Eterni sono ogni nostro sentimento e pensiero, ogni forma e sfumatura del mondo, ogni gesto degli uomini. E anche tutto ciò che appare in ogni giorno e in ogni istante: il primo fuoco acceso dall'uomo, il pianto di Gesù appena nato, l'oscillare della lampada davanti agli occhi di Galileo, Hiroshima viva ed il suo cadavere. Eterni ogni speranza ed ogni istante del mondo, con tutti i contenuti che stanno nell'istante, eterna la coscienza che vede le cose e la loro eternità e vede la follia della persuasione che le cose escano dal niente e vi ritornino. Ma dissertare di filosofia non è produttivo, dice Severino: infatti, " parlare di filosofia uccide la filosofia, perché non si vede la profonda vena d'oro e vien fuori uno spettro, un mito nel migliore dei casi, un discorso strano di un intellettuale un po' squilibrato ".
“ Come potrei non essere preso dal desiderio del nuziale anello degli anelli, - l'anello del ritorno? Mai ho trovato donna dalla quale volessi avere figli, all'infuori di questa donna che amo: poiché io ti amo, Eternità! ”; “Così parlò Zarathustra, "I sette sigilli (ovvero il canto del sì e dell'amen)”. Con queste parole, Nietzsche esprime il senso del rapporto tra il divenire e l'eternità dell'eterno ritorno - dell'anello del ritorno: la volontà di creare (di "avere figli"), ossia il divenire stesso come continua creazione, è possibile solo se non è bloccata, resa impotente, dagli immutabili metafisico-morali e da quell'immutabile che è il passato (che si costituisce come la dimensione dell'immodificabile per eccellenza, come il macigno del "così fu": nel linguaggio dello Zarathustra, ciò è rappresentato dallo "spirito di gravità"); quindi, il divenire - l'evidenza innegabile dell'Occidente - sarà possibile solo sul fondamento dell'eterno ritorno, della potenza della volontà sullo stesso passato. “ L'anello del ritorno ” è dedicato all'analisi di queste tematiche e di queste implicazioni: attraverso un costante confronto con l'interpretazione heideggeriana di Nietzsche, il volume di Severino esamina i testi in cui viene fondata la dottrina dell'eterno ritorno, prendendo in considerazione i cardini concettuali del pensiero nietzscheano e la sua potenza speculativa, che segna un punto di massimo rigore nello sviluppo del pensiero dell'Occidente e della fede nel divenire. Assieme a Leopardi (e - per quanto riguarda l'indagine sulla concreta struttura del divenire - a Gentile), Nietzsche rappresenta - per Severino - uno dei massimi punti di autoconsapevolezza del pensiero occidentale, uno dei momenti in cui l'essenza dell'Occidente - l'essenza del nichilismo - raggiunge la maggior chiarezza consentita a chi rimanga nell'orizzonte del nichilismo stesso: essi si spingono “ fino al limite estremo della coscienza che l'Occidente, rimanendo se stesso, può avere della propria autentica essenza [...] Leopardi e Nietzsche si portano a ridosso di quel limite, perché scorgono ciò che per l'Occidente è l'assolutamente impensabile, ossia che il divenire dell'essere è contraddizione (autocontraddittorietà, impossibilità) ” . Il pensiero di Nietzsche va quindi preso sul serio: ma prendere sul serio il pensiero di Nietzsche significa innanzitutto, per Severino, evitare di ridurlo ad una riformulazione dello scetticismo ingenuo: significa, cioè, evitare di attribuire - come invece fa Heidegger - un carattere trascendentale alla negazione nietzscheana della verità, il quale riporterebbe il pensiero del nostro filosofo ad una posizione che, ben lungi dal costituire qualcosa di "abissale", era già stata formulata e confutata fin dai tempi della Sofistica. Ora, Severino rileva invece che “ affermazioni come: ‘ogni conoscenza è sempre falsa, ma vi è, in tal modo, un rappresentare’ non hanno nulla a che vedere con lo scetticismo assoluto, ma dicono che, proprio perché la conoscenza è sempre falsa (‘in tal modo’), la conoscenza rappresenta qualcosa, ossia c'è un rappresentare, e questo esserci è la nostra unica certezza ”. La "certezza fondamentale" è la "constatazione" di un "fatto"; anzi, del "fatto", il "fatto" del divenire dell'essere - dell'"essere che ha rappresentazioni": “ che l'essere abbia rappresentazioni non è un problema, è il fatto: se in generale vi sia un essere diverso da quello che ha rappresentazioni, se il rappresentare sia una qualità dell'essere [...], questo è un problema ”. Allo stesso modo, non va intesa in senso trascendentale neppure la negazione nietzscheana del principio di non contraddizione: quello che Nietzsche nega, infatti, non è l'opposizione di essere e nulla, di positivo e negativo (essenziale perché si possa parlare di divenire: se il qualcosa fosse immediatamente identico al proprio altro, non potrebbe infatti diventare questo altro, proprio perché lo sarebbe già), bensì è la valenza "logica" del principio di non contraddizione, quella fondata sul concetto di "cosa"; concetto che - sottolinea Nietzsche - è di per sé falsificante, in quanto interpreta il flusso caotico del divenire introducendo in esso (per un'esigenza di conservazione vitale: per rendere prevedibile il divenire, rendendo uguale ciò che è diverso) la stabilità. Ma - appunto - questa valenza "logica" del principio di non contraddizione viene rifiutata da Nietzsche proprio in quanto essa è falsificante e, in ultima analisi, contraddittoria (in quanto in essa vengono identificati i contraddittori, viene considerato uguale - sulla base del principio di assimilazione - ciò che è diverso): viene rifiutata, quindi, in forza dello stesso principio di non contraddizione, che esclude l'identità dei diversi (A non è non-A). E, d'altro lato, la stessa dottrina dell'eterno ritorno richiede che ciò che eternamente ritorna, ritorni “ così come esso è stato ed è ” (Al di là del bene e del male, aforisma 56), cioè nel suo essere identico a ciò che esso è stato, e nel suo non essere l'altro da ciò che esso è stato. Se il pensiero di Nietzsche non è riducibile ad una forma di scetticismo ingenuo, la negazione in esso operata delle "verità" appartenenti all'ordine metafisico-morale non può essere fine a se stessa, ma deve essere sviluppata a partire da un'altra verità, considerata come la verità originaria, evidente e innegabile: e qual è, per Nietzsche, questa verità innegabile? È (come sottolineato dal filosofo tedesco in una annotazione della primavera-autunno 1881, dal titolo "Certezza fondamentale") la verità del divenire, che è immediatamente presente come flusso di rappresentazioni: “ l'annotazione sulla ‘certezza fondamentale’ rileva infatti che [...] è di per sé chiaro che il rappresentare non è nulla di immobile, di uguale a se stesso, di immutabile: l'essere, dunque, che unicamente ci è garantito, è in mutamento, non è identico a se stesso... [non ha, cioè, la fissità che il principio di assimilazione, con il concetto di "cosa", vorrebbe imporgli, falsificando ciò che esso in realtà è] - Questa è la certezza fondamentale dell'essere ”. È indubitabile l'essere delle rappresentazioni (è indubitabile l'attività del rappresentare, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno l'attività di un soggetto), e questo essere si manifesta in continuo divenire: questa dimensione originaria ed innegabile del divenire verrà indicata da Nietzsche come "volontà di potenza", e sarà da lui posta come l'essenza stessa dell'essere. Il divenire come volontà di potenza è quindi per Nietzsche la verità prima e indubitabile. L'impegno centrale del testo di Severino sta nel mostrare come la dottrina dell'eterno ritorno, ben lungi dal rappresentare un corpo estraneo nel pensiero nietzscheano o, comunque, un "postulato pratico", non teoreticamente fondato, sia invece la necessaria conseguenza di questa affermazione del divenire, e come questa necessità sia rigorosamente fondata negli scritti di Nietzsche. In particolare, Severino prende in esame lo sviluppo logico che intercorre fra tre capitoli di “Così parlò Zarathustra” : "Sulle isole beate", "Della redenzione" e "La visione e l'enigma". La distruzione - operata da Nietzsche - della tradizione occidentale è la distruzione degli immutabili via via eretti da questa tradizione: in primo luogo, dell'immutabile costituito da Dio, inteso come l'Uno e il Pieno e l'Immoto e il Satollo e l'Imperituro, qualcosa cioè che si sottrae alla volontà. Di fronte a questo Dio, alla volontà umana “ non resterebbe più nulla da creare ”. Il creare è infatti innovazione, e l'innovazione presuppone che ci sia un ambito aperto alla novità: ora, la posizione di questo Dio immutabile che, come omnitudo realitatis , contiene già tutto in sé (è "Pieno" e "Satollo"), esclude proprio la possibilità dell'esistenza di questo ambito di novità, necessario perché il creare non sia ridotto a semplice apparenza, illusione. Ma che il creare umano non sia semplice illusione, è per Nietzsche - così come per la tradizione che egli critica - l'evidenza fondamentale, la verità prima e indubitabile: è evidente - per l'Occidente - che le cose divengono, passano dall'essere al nulla, esistono ora ma non esistevano prima e non esisteranno dopo. In quanto il divenire è inteso come passaggio dall'essere al nulla (e viceversa), esso è creazione: la creazione non è quindi soltanto l'opera di Dio (che è un determinato tipo di creazione, in cui viene posta in essere anche la materia, il sostrato delle cose), ma è ciò che è proprio di ogni tipo di divenire (perché almeno qualcosa, qualche aspetto di ciò che diviene, passa dall'essere al nulla). Quindi, poiché il divenire è l'evidenza fondamentale (ciò che per l'Occidente non può esser negato), poiché il divenire è creazione, e poiché la creazione richiede l'apertura di un ambito di novità, Nietzsche conclude che l'esistenza di Dio (che, includendo già tutto in sé, esclude la possibilità dell'esistenza di questo ambito di novità) vada negata: l'evidenza del divenire implica necessariamente la morte di Dio. Ora, Severino sottolinea come la forza della distruzione nietzscheana stia nel fatto che essa si basa sulla stessa fede nell'esistenza e nell'evidenza del divenire, che è condivisa anche dalla tradizione criticata: la critica nietzscheana non è dunque, per questa tradizione, qualcosa di puramente estrinseco, ma è qualcosa di estremamente intrinseco, è il necessario sviluppo di ciò che da quella tradizione è affermato. Ma la critica nietzscheana non si ferma qui, bensì si estende (necessariamente) ad ogni immutabile epistemico che, posto al di sopra del divenire, finisce per vanificarlo, renderlo illusorio: l'uomo "metafisico-morale" della tradizione occidentale ha eretto questa serie di immutabili (metafisici, logici, etici...) per dominare il divenire, per porre un rimedio all'angoscia che esso - in quanto imprevedibile - genera, ma questo rimedio si è mostrato essere peggiore del male (perché viene a ridurre ad illusione ciò che l'Occidente pone come l'evidenza prima, come la dimensione della vita stessa dell'uomo); l'uomo "dionisiaco", il "superuomo", si rende conto di questo ed affermando il divenire in tutti i suoi aspetti, pronunciando gioiosamente il proprio "sì" alla vita (anche nei suoi aspetti dolorosi e tragici), distrugge quella serie di immutabili che la tradizione ha edificato. Ma - e l'osservazione è di centrale importanza - il "superuomo" non è semplicemente altro rispetto all'uomo "metafisico-morale": esso è invece il necessario sviluppo di quest'ultimo, che si ha quando egli (in quella che Nietzsche indica come "l'ora del meriggio") si rende conto che, con la posizione degli immutabili, ha tradito la propria più profonda essenza, il proprio essere volontà di potenza, divenire creatore. Ogni immutabile, ogni dimensione che si sottragga al divenire creatore, è una forma di negazione dell'evidenza del divenire stesso (si badi: della fede nel divenire, che per l'Occidente è la suprema evidenza); ogni immutabile, infatti, costituendo una dimensione alla quale ciò che nel divenire viene ad essere deve adeguarsi, dà un senso al divenire, lo rende in qualche modo prevedibile (se, ad esempio, la legge della gravitazione universale viene considerata come immutabile, allora si deve ritenere che ciò che viene ad essere debba adattarsi a questa legge, ed in ciò esso è reso prevedibile). Ma l'essenza del divenire richiede che il divenire non abbia un senso, proprio perché questo senso costituirebbe qualcosa al quale il divenire dovrebbe adattarsi, configurarsi, sì che esso non potrebbe più avere quella imprevedibilità che gli viene dal fatto che ciò che viene ad essere, viene (almeno in parte) dal nulla, ossia dall'assolutamente imprevedibile: dire che ciò che viene ad essere sia in qualche modo prevedibile - abbia quindi un senso che vada oltre al suo puro esserci di fatto -, significa dire che il nulla dal quale le cose provengono non sia realmente il nulla, e che quindi il divenire delle cose - come passaggio dall'essere al nulla - sia soltanto illusorio. Ora, l'ultima dimensione dell'immutabile destinata a cadere è, per Nietzsche (Così parlò Zarathustra, "Della redenzione" e - quindi - “La visione e l'enigma”), quella del passato: il macigno del "così fu", nel suo ormai definitivo sfuggire alla volontà. La redenzione del passato consiste appunto nel ricondurlo all'ambito di ciò che non è sottratto alla volontà, ossia di ciò che non è definitivamente sottratto al divenire stesso, perché la volontà di potenza non è - per Nietzsche - qualcosa di soltanto umano, ma è l'essenza stessa dell'essere (in quanto esso è divenire, continuo tendere ad un di più di potenza): “ tale volontà [la volontà umana] appartiene essa stessa alla molteplicità del divenire e del caos, ossia appartiene alla "olontà di potenza che include la volontà dell'uomo (e del superuomo, e di tutto ciò che non è né uomo né superuomo) e che è lo stesso orizzonte trascendentale dell'essere: l'essenza più intima dell'essere è volontà di potenza ”. Ma ciò non può significare che la volontà venga a modificare il passato: quand'anche così fosse, infatti, non si farebbe altro che aggiungere un secondo "esser stato" al primo, non si farebbe altro che allargare la dimensione dell'immutabile esser stato (ad esempio, quand'anche fosse possibile mutare il risultato della battaglia di Stalingrado, non si cancellerebbe con ciò l'esser stato della vittoria russa: avremmo invece un esser stato della vittoria russa prima della modificazione del passato, ed un esser stato della vittoria tedesca dopo la modificazione del passato - l'unico risultato sarebbe quindi quello di aggiungere un altro esser stato, a sua volta immodificabile, al primo). La via della redenzione del passato è perciò un'altra: il "pensiero abissale" dell'eterno ritorno. Di fronte allo spirito di gravità (il macigno del "così fu"), mezzo nano e mezza talpa ("La visione e l'enigma"), Zarathustra espone così la dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale: essa è necessariamente implicata dalla fede nell'evidenza del divenire, come condizione di possibilità del divenire stesso. Il passato deve essere redento, deve essere riportato nell'ambito della volontà di potenza, perché altrimenti esso - come immutabile - vanificherebbe il divenire, lo renderebbe qualcosa di illusorio; ma la redenzione del passato non può essere la sua modificazione, con il costituirsi di un altro passato, perché ciò amplierebbe solo la dimensione dell'immutabile; dunque, lo stesso passato, in tutte le sue sfumature di contenuti, deve eternamente ritornare così come esso è stato. Il tempo, quindi, non ha uno sviluppo semplicemente lineare, bensì circolare: l'andare in avanti è, insieme, un tornare indietro, perché andando avanti ci si muove - restando in un circolo - verso il punto di partenza. Quindi, ciò che stato non è qualcosa di immodificabile, di eternamente sottratto alla volontà, ma è - all'opposto - qualcosa che ritornerà infinite volte, eternamente, ossia sarà eternamente voluto (perché, torniamo a sottolinearlo, la volontà di potenza non è qualcosa di semplicemente umano, ma è la stessa dimensione universale del divenire, del dionisiaco) così come esso è stato. Ritornando eternamente su se stesso, il divenire del mondo - e quindi il mondo stesso - non ha principio né fine, non ha alcuno scopo né alcun senso il cui essere prestabilito ed immutabile vanificherebbe il divenire stesso. Il superuomo, conoscendo la dottrina dell'eterno ritorno e volendo l'eterno ritorno, si identifica allora con la dimensione universale della volontà di potenza, essendone la piena consapevolezza: "Il superuomo non è un "individuo" - che per definizione è qualcosa rispetto a cui il mondo è esterno e indipendente -; non è un "io" o una coscienza individuale, ma è "il pensiero più potente", che è insieme la volontà più potente; "il dire sì alla vita" che, come eterno "piacere del divenire", è "anche il piacere dell'annientamento" di ogni individualità: la dimensione del "dionisiaco" che dice di sì a se stessa" . In quest'ottica, Nietzsche può parlare di un amor fati (che è, a sua volta, fatalis): il superuomo vuole ed ama la necessità dell'accadere di ogni cosa, che si ripete all'infinito. Ma occorre tenere distinta questa forma dell'amor fati da quella sostenuta, ad esempio, dagli Stoici; mentre per questi ultimi, infatti, la necessità di ogni cosa è una necessità razionale, epistemica (frutto della provvidenza divina del Logos, che guida lo sviluppo di ogni cosa come principio immanente dell'universo), la necessità di cui parla Nietzsche è una necessità cieca, irrazionale: gli enti, infatti, non hanno alcun legame intrinseco fra di loro, perché questo legame sarebbe - di nuovo - un immutabile che vanificherebbe il divenire. La necessità nietzscheana è allora la necessità dello stesso ripetersi eterno del caos: “ il caos implica la necessità del ritorno eterno del caos, della mancanza di senso del tutto. Appunto per questo Nietzsche scrive che ‘il carattere complessivo del mondo è ... caos per tutta l'eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine’ metafisico-epistemico ” . Sono così in errore, secondo Severino, gli interpreti che credono di scorgere immediatamente nella dottrina dell'eterno ritorno un'incoerenza nel pensiero nietzscheano rispetto all'affermazione del divenire e della libertà creativa. L'incoerenza c'è, ma non è nel modo in cui Nietzsche porta in luce l'implicazione necessaria tra divenire ed eternità, tra libertà e necessità; l'incoerenza è molto più radicale, e sta nel concetto stesso di divenire, il quale - e nel portare questo in luce sta la forza della filosofia di Nietzsche, che pure non si spinge fino a riconoscerlo esplicitamente - è tale da implicare necessariamente la propria negazione. Forse proprio presentendo questa catastrofe del proprio pensiero (e, con esso, del pensiero occidentale), lo stesso Nietzsche - come racconta Andreas-Salomé - avrebbe provato "quell'"indicibile tristezza" per l'avverarsi del pensiero dell'eterno ritorno, e ne avrebbe parlato solo con quella “ voce sommessa e mostrando tutti i segni del più profondo raccapriccio ”. Così, se il canto della leopardiana ginestra è l'espressione della vita passeggera che l'anima riceve dalla stessa forza con cui sente la morte propria e di tutte le cose (e il suo canto non toglie questa morte universale), la gioia del superuomo per il proprio eterno ritornare nell'essere "è la maschera inevitabilmente indossata dall'angoscia a cui l'Occidente è destinato. Al di là della follia del divenire e cioè dell'eternità dell'Occidente, la Gioia del destino della verità non maschera alcuna angoscia". Il merito principale del lavoro di Severino sta nell'affrontare il nucleo teoretico del pensiero nietzscheano, che, al di là delle contraddizioni che spesso gli vengono imputate, va invece preso sul serio, in tutta la sua potenza speculativa. Resta comunque necessario soffermarci un istante per un rilievo critico, dovuto proprio al fatto che, almeno in un punto, Severino finisce poi col prendere il pensiero di Nietzsche un po' troppo sul serio... Il punto è quello delle annotazioni sull'eterno ritorno scritte da Nietzsche nel 1881-1882, prese in esame da Severino nel capitolo IX de “L'anello del ritorno”. Si tratta delle prime formulazioni nietzscheane della dottrina dell'eterno ritorno: in esse, il filosofo tedesco cerca di fondare questa dottrina a partire dalla considerazione sulla finitezza delle forze dell'universo le quali, proprio in quanto finite (e necessariamente finite, perché altrimenti si dovrebbe ammettere una miracoloso forza infinita, una sorta di Dio immanente), in un tempo infinito dovrebbero esaurire infinite volte tutte le possibili loro combinazioni. Ora, nonostante tutti gli sforzi di Severino per difendere la coerenza e la rigorosità del pensiero di Nietzsche su questo punto, mi sembra che queste annotazioni - prescindendo dalle considerazioni sviluppate in seguito nello Zarathustra circa la redenzione del passato - non riescano ancora ad arrivare alla fondazione dell'eterno ritorno. Infatti, anche se si arriva a dimostrare la finitezza delle forze nell'universo (e quindi la finitezza delle loro possibili combinazioni), e anche se si arriva a dimostrare l'infinità del tempo (perché dare una fine al tempo significherebbe dare un qualcosa da raggiungere, uno scopo, al divenire), non ne segue però ancora la necessità della circolarità del tempo, dell'eterno ritorno: anche se tutte le possibili combinazioni delle forze devono realizzarsi, in un tempo infinito, infinite volte, non ne segue che esse debbano realizzarsi nello stesso ordine di successione (che si debba formare, quindi, un circolo, un ritorno); anzi, prescindendo dalla dottrina sulla redenzione esposta nello Zarathustra, si sarebbe più portati a credere che, proprio in forza del caos e dell'imprevedibilità del divenire, queste combinazioni vengano a succedersi in un ordine sempre nuovo ed imprevedibile. È certamente possibile supporre che, negli anni 1881-1882, Nietzsche avesse già raggiunto l'autentica fondazione dell'eterno ritorno (che poi esporrà nello Zarathustra), e che in queste annotazioni si limiti a cercare un'altra strada per giungere allo stesso risultato; in ogni caso, mi sembra però che quest'altra strada non conduca Nietzsche dov'egli voleva arrivare.
La "buona fede", la rettitudine della coscienza, è la convinzione di fare ciò che si è convinti che debba essere fatto. In questo senso, essa è il fondamento dell’agire morale, sia che questo venga inteso nell’ambito di un’etica dell’intenzione (dove ciò che conta per la moralità dell’azione è l’intenzione del soggetto che la compie, ossia proprio il suo essere in buona fede, il suo credere di agire nel modo dovuto), sia che ci si muova nel quadro di un’etica della responsabilità (perché, anche in questo caso, ciò che conta per valutare la moralità dell’azione è la consapevolezza - la convinzione motivata, dunque nuovamente una forma di fede - da parte del soggetto che ciò che viene fatto sia effettivamente un bene. In questo secondo caso, cioè, non basta più che il soggetto abbia l’intenzione di fare il bene, ma occorre anche che egli si preoccupi - responsabilmente, appunto - di valutare che ciò che egli compie sia effettivamente, in quella situazione, un bene: ma anche questo valutare rientra, ultimamente, nell’ambito del credere, quindi ancora nella "buona fede" - non possiamo infatti mai sapere con certezza assoluta quali saranno i risultati di una nostra azione e quale insieme di conseguenze essa implicherà, possiamo solo limitarci a crederlo). Mettendo in discussione il senso ed il valore della buona fede, Severino può così arrivare a scuotere dalle fondamenta l’edificio che l’etica dell’Occidente (nelle diverse forme che via via essa è venuta ad assumere) ha costruito. E il discorso severiniano viene ad investire la fede (che, occorre notare, non va qui intesa come la sola fede cristiana, ma come ogni possibile forma di fede, come la fede in quanto tale) sia dal punto di vista della sua struttura formale, sia dal punto di vista del suo contenuto essenziale (cioè di ciò che, dal lato del contenuto, accomuna le differenti forme storiche che la fede ha assunto nell’Occidente: la posizione del divenire come evidenza originaria, indiscutibile). Guardando alla sua struttura formale, la buona fede è - si diceva - la convinzione di fare ciò che si è convinti che debba esser fatto: in quanto convinzione, essa è fede, e in quanto si rapporta a ciò che dovrebbe esser fatto, essa è buona; l’uomo moralmente buono sarebbe pertanto colui che agisce con la convinzione di compiere il bene. Ora, nota Severino, un tale uomo non esiste e non può esistere, perché non esiste una forma di convinzione (ossia di fede) che riesca, in quanto tale, a liberarsi dal dubbio: non può cioè esistere una fede che sia esente dal dubbio, perché il dubbio è il fondamento della fede. Va subito sottolineato che il discorso di Severino non si limita ad affermare che, di fatto, ogni uomo storico è conteso tra la fede e il dubbio: se questa semplice osservazione fosse infatti la vetta della sua critica alla fede, egli non correrebbe certo il rischio di farsi venire le vertigini... Le sue riflessioni sono invece molto più profonde, e negano la possibilità stessa che si venga a costituire - di diritto, e non solo di fatto - una fede che sia libera dal dubbio e che abbia quindi un valore assoluto. Nella stessa definizione data da S. Paolo, la fede è infatti intesa - osserva Severino - come "prova delle cose che non si vedono" ("pragmáton élenchos ou blepoménon"; Eb 11,1): ciò in cui si ha fede è pertanto qualcosa che non si vede (non solo, ovviamente, in senso fisico), che non appare. Ora, il credente afferma di essere convinto di ciò in cui crede, ma - allo stesso tempo - ciò in cui crede, non apparendogli, non gli è e non gli può essere evidente: e questo non essergli evidente è lo stesso dubbio, che dunque è coessenziale alla fede. La fede è, strutturalmente, una certezza accompagnata dal dubbio, mentre la verità è una certezza accompagnata dal superamento del dubbio: in quest’ultimo caso il dubbio è sì presente, ma soltanto come tolto, superato; nel primo caso, invece, il dubbio è presente in tutta la sua forza, come non tolto (sarebbe tolto soltanto dall’apparire di ciò che - invece - non appare). Quando il credente - di qualunque fede si tratti - dice di essere convinto di ciò in cui crede, egli isola quindi il momento della fede da quello del dubbio: egli dice di esser convinto rispetto a ciò di cui non può, strutturalmente, esser convinto, perché in cuor suo continua a dubitare; il suo credere è soltanto un credere (un illudersi) di credere con quella certezza assoluta - priva di esitazioni - che la fede pretenderebbe di avere. La buona fede, proprio in quanto fede, è così una forma di malafede originaria: se nel senso comune del termine "essere in malafede" significa infatti agire in contraddizione con ciò che si ritiene di dover fare, la buona fede ha già in se una forma più originaria (quindi ad un livello di consapevolezza ed intenzionalità più basso rispetto alle forme più comuni e più elaborate) di malafede, proprio perché in essa ci si convince che debba esser fatto ciò rispetto a cui si dubita se debba esser fatto o meno (questo convincersi è cioè l’azione che l’uomo in buona fede compie in contraddizione col dubbio che egli, in cuor suo, nutre). Ogni morale dell’Occidente, essendo fondata sulla buona fede, ha così in realtà per proprio fondamento una malafede originaria. Il discorso di Severino - sebbene egli non si soffermi su questo aspetto - è anche formalizzabile nei termini di un calcolo epistemico. Indichiamo con «C» il credere qualcosa, con «A» l’apparire di questo qualcosa e con «¬», «>» e «^» rispettivamente i segni logici di negazione, implicazione e congiunzione; sia infine «p» una qualunque proposizione oggetto di fede. Poiché la fede è argomento (prova) delle cose che non appaiono, se noi crediamo al contenuto di una proposizione p, allora questo contenuto non ci può apparire (se ci apparisse, infatti, dovremmo dire che noi sappiamo p, e non semplicemente che lo crediamo): formalmente, avremo che Cp > ¬Ap (cioè: credere p implica il non apparire di p). Ma allora, in forza del senso stesso dell’implicazione, la posizione di «Cp» sarà già in se stessa - concretamente intesa - posizione di ¬Ap (se è vera la prima espressione, sarà vera anche la seconda): sì che ciò che viene effettivamente posto, nell’atto di credere in qualcosa, è la sintesi tra il credere questo qualcosa e il non apparire del qualcosa stesso (ossia, ciò che viene effettivamente posto sarà, nel nostro caso, «Cp ^ ¬Ap»). Poiché, ora, l’espressione «¬Ap» indica lo stesso dubitare intorno a p (di cui, infatti, non ci appaiono ragioni per cui affermarlo), ne risulterà che l’espressione «Cp ^ ¬Ap» indicherà proprio l’inscindibile unione tra la fede e il dubbio: il credente può dire di credere senza dubitare, ma così non fa altro che isolare astrattamente la sua fede dal momento del dubbio, che le è coessenziale; e a queste conclusioni si arriva partendo proprio dalla definizione paolina di fede. Il discorso severiniano, anche dal punto di vista strettamente formale, è quindi ineccepibile. Se già dal punto di vista della sua struttura formale la buona fede dell’Occidente non può esistere nella sua presunta purezza e si mostra essere piuttosto una malafede, dal punto di vista del suo contenuto essenziale essa appare poi come l’errore fondamentale: il nichilismo. Ciò di cui ogni forma di fede dell’Occidente è primariamente convinta (o meglio, per quanto visto sopra, crede di essere convinta), ciò che essa pone come l’evidenza originaria ed indiscutibile, è infatti l’esistenza del divenire come oscillare degli enti tra l’essere e il nulla: su questa convinzione - proprio perché essa riguarda l’ente in quanto tale, ossia ciò che vi è di più universale - si fondano ormai ogni pensiero ed ogni azione dell’Occidente. Il senso stesso dell’azione (e quindi anche di quell’azione che è l’azione morale), rileva Severino, è già di per sé alienato, perché agire significa - innanzitutto - credere nella possibilità che il nostro operare faccia passare le cose dal non-essere all’essere (ad es., bruciando la legna siamo convinti che essa diventi cenere, e che pertanto si annulli - passi nel non-essere - in quanto legna), e che dunque le cose siano disponibili a questo passaggio. Ma credere che le cose possano diventare nulla significa credere che le cose siano nulla, che l’ente (ciò che è, il non-nulla) sia nulla: e questa è la follia estrema (diciamo infatti, ad es., che la legna che è stata bruciata non c’è più, ossia che essa è, ormai, nulla. E anche se ci limitassimo a dire che la legna che è stata bruciata non è nulla, ma è ormai cenere, identificheremmo pur sempre la legna con ciò - la cenere, appunto - che non è la legna, A con non-A). Credendo nell’esistenza del divenire così inteso, l’Occidente viene a credere ciò che è assurdo dal punto di vista logico e che non appare (né può apparire) dal punto di vista fenomenologico (dove ciò che si mostra è soltanto l’apparire e scomparire degli enti). Se (e poiché) la buona fede si mostra da un lato come malafede originaria, dall’altro come ciò che ha per contenuto essenziale la follia estrema, e se (e poiché) essa è il fondamento di ogni etica dell’Occidente, ben si può capire quale possa essere il giudizio di Severino su queste forme di moralità. Sulla base di queste riflessioni teoretiche, egli viene così ad affrontare (anche se propriamente nel testo severiniano - come si può vedere dall’indice del volume - la parte speculativa, di cui noi ci siamo occupati per prima, è posta al termine, negli ultimi tre capitoli) diversi aspetti della vita morale. Siamo così portati - attraverso ad un’analisi serrata dei testi della tradizione filosofica da Eraclito a Kant (passando per Platone, Aristotele, gli Stoici ecc.) - a prendere coscienza del rapporto esistente, nell’etica occidentale, tra verità e ragione pratica. La ragione pura, insegna Kant, è di per sé sola pratica, ossia è in grado di determinare autonomamente la volontà dell’uomo spingendolo ad agire secondo quell’ordinamento i cui caratteri distintivi sono i caratteri stessi della ragione, cioè l’universalità e la necessità (la legge fondamentale della ragion pura pratica dice infatti :"Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale"; cfr. Kant I. [1989], Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, 4a ed., Laterza, Bari, p. 39); ma nello stesso senso si muoveva già Eraclito, affermando la necessità di seguire il logos, ciò che è comune (necessità, questa, che può essere tale solo in quanto è il logos stesso a dettarla). Per l’etica della tradizione occidentale, dunque, l’uomo deve uniformarsi all’Ordinamento immutabile che la ragione (l’epistéme) porta alla luce: ma per far questo, egli dovrà in primo luogo raggiungere l’epistéme stessa, dovrà volere la verità. La volontà di verità è quindi la prima forma etica che emerge nella tradizione occidentale e che resta sullo sfondo di ogni etica storicamente determinata appartenente a questa tradizione medesima. La verità, poi, va ricercata per se stessa, e non in vista di qualcosa d’altro - neppure della stessa felicità, alla quale la conoscenza della verità porta (o della quale - comunque - essa rende degni): se fosse cercata in vista di qualcos’altro, infatti, essa sarebbe ridotta a mezzo e non riuscirebbe più ad essere se stessa (proprio nella misura in cui la non-verità - ciò che è altro dalla verità - è assunta come guida della verità, quest’ultima viene ad essere snaturata dalla prima, venendo a perdere i propri caratteri distintivi di necessità ed universalità: non è infatti né universale né necessario che si assuma un certo scopo anziché un altro, a meno che non sia la stessa verità ad imporlo - ma, in questo caso, la ricerca della verità ed il suo raggiungimento dovrebbero già aver preceduto e determinato la posizione del fine in questione); e, non riuscendo ad essere se stessa, non potrebbe neppure garantire la felicità eventualmente raggiunta. Queste basi dell’etica della tradizione - che di per sé sembrerebbero piuttosto solide - sono però minate da quegli aspetti che consideravamo poc’anzi: esse presuppongono infatti - osserva Severino - quella concezione dell’azione (in primo luogo, dell’azione di convincimento da parte della ragione stessa sulla volontà - facoltà che pure viene ritenuta essere a-razionale, sì che la possibilità di un suo ascolto della ragione è già qualcosa di molto problematico) che porta in sé la fede nichilista del divenire; muovendosi nell’ambito del nichilismo, di ciò che non ha né può avere verità, esse restano confinate nella dimensione della buona fede, con tutti i limiti che relativamente a questa abbiamo evidenziato. Il discorso severiniano viene quindi a prendere in esame anche dei problemi specifici appartenenti all’ambito della moralità: la concezione della virtù (che porta in sé - già a livello etimologico - il richiamo al concetto di forza, sì che il passaggio dalla virtù dell’etica tradizionale a quella dell’età della tecnica - alla visione della tecnica come di ciò che maggiormente è in grado di dominare il divenire e quindi di garantire la vita dell’uomo - sarà soltanto uno sviluppo necessario di ciò che nel primo momento era già implicito), il problema della comunicazione (dove emerge la centralità del nesso tra potenza e riconoscimento della potenza stessa: la potenza è tale solo nella misura in cui viene universalmente creduta tale), il problema del controllo delle nascite e del matrimonio cattolico (a proposito del quale Severino afferma che la Chiesa cattolica, coerentemente con i principi ontologici nichilisti per i quali essa ammette la possibilità che l’ente non sia stato e venga a non essere, dovrebbe condannare non soltanto l’aborto e la contraccezione, ma anche - se non in misura maggiore - l’astinenza sessuale dei coniugi finalizzata ad una paternità e maternità responsabili: impedendo infatti la nascita di una vita che avrebbe potuto svilupparsi dalla loro unione, i coniugi condannerebbero a rimanere eternamente nel nulla quell’essere umano che sarebbe potuto giungere all’esistenza; e, così facendo, essi si renderebbero complici di quel crimine che riguarderebbe Dio stesso, il quale non crea tutto ciò che avrebbe potuto creare). Estremamente affascinante è poi il quarto capitolo, dedicato al senso della preghiera. Secondo Severino, la preghiera cristiana non dovrebbe essere l’assurdo tentativo di piegare la volontà di Dio ai propri scopi, bensì la serena accettazione della volontà di Dio, accompagnata dalla certezza che la preghiera - così strutturata - viene sempre accolta (proprio perché la volontà di Dio, che è ciò di cui si chiede la realizzazione, non può - secondo il cristianesimo - non realizzarsi): la volontà del credente si è fatta identica a quella di Dio e in questo senso essa può - dal punto di vista cristiano - "smuovere le montagne" (sempre ammesso che la volontà di Dio, con cui ci si identifica, sia che le montagne si smuovano: il credente non può infatti sapere a priori quale sarà concretamente la volontà divina, ma la accetta come essa si manifesta, via via che si manifesta). Allontanandoci per un momento dal testo severiniano, possiamo prendere in considerazione un passo della virgiliana Eneide che risulta di particolare interesse rispetto a questa tematica e che ci può aiutare a comprenderla meglio. Nel libro VI, l’ombra del defunto Palinuro formula la preghiera di poter attraversare la palude stigia - senza che il suo corpo sia ancora stato sepolto - per trovare pace nell’Ade; a questa richiesta, la Sibilla cumana risponderà implacabile "Desine fata Deum [Deorum] flecti sperare precando" (Eneide, VI, 376), sottolineando come sia illusoria la speranza di poter piegare la volontà del Fato tramite le umane preghiere. Ritornando su questo argomento, Dante farà dire al suo Virgilio - quasi giustificandosi - che "... là dov’io fermai cotesto punto [ossia al verso citato], / non s’ammendava, per pregar, difetto, / perché ‘l priego da Dio era disgiunto" (Purgatorio, VI, 40-42): dunque la preghiera - secondo il cristiano Dante - è "efficace" solo in quanto è unita a Dio. Ma quando - andando ora oltre il testo dantesco - la preghiera è unita a Dio? Ovviamente, quando esprime la comunione di volontà del pregante con Dio stesso: quando cioè il pregante è in amicizia con Dio e vuole quindi ciò che Dio vuole. Ma, di nuovo, che cos’è che Dio vuole? Ciò che di fatto accade, perché nulla può realizzarsi contro la volontà di Dio! (Questo anche se l’apparire finito - la coscienza umana -, non cogliendo ogni singola cosa nel suo essere avvolta dal Tutto, in cui ogni contraddizione è risolta, può non cogliere immediatamente - e, anzi, normalmente ciò non avviene - la bontà di ogni ente, di ogni accadimento). Dunque, anche - e soprattutto - quando il "priego" è sommamente congiunto a Dio, esso non può cambiare la volontà di Dio, semplicemente perché non la vuole cambiare (bensì vuole che essa "sia fatta")! Andando oltre al testo di Dante, si ritorna così a quello di Virgilio: la volontà del Fato non è comunque cambiata dalle preghiere degli uomini... Le osservazioni di Severino sulla preghiera cristiana sono quindi, a mio avviso, pienamente accettabili dallo stesso punto di vista cristiano: si potrebbe - al massimo - soltanto aggiungere che, proprio perché il credente - l’apparire finito - non sa quale sia la volontà di Dio prima che questa si realizzi (dev’essere disposto ad accettarla qualunque essa sia), egli può sempre esprimere anche desideri particolari relativamente a ciò che ancora non ci appare, ferma restando l'intenzione di fondo che comunque si compia la volontà divina ("Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!"; Mt 26,39). Le riflessioni severiniane sul senso e sul valore della "buona fede" sono difficilmente eludibili. Il voler far valere come verità ciò che non si presenta con i caratteri formali della verità (ossia l’evidenza e la non-smentibilità come superamento del dubbio) è soltanto hybris, tracotanza: e la hybris - ci insegna poi Prometeo - non è mai cosa gradita agli dei... Al credente (di qualunque fede si tratti) non resterebbe quindi che ammettere la problematicità di ciò in cui crede, problematicità il cui campo si estende a tutto ciò che la coscienza umana - apparire finito e non infinito del Tutto - non è attualmente in grado di affermare o di negare con verità. Ma sarebbe questo un tradimento della fede, o non piuttosto un riportarla a quella dimensione che le è propria? Se Tommaso afferma che la giustizia è la "perpetua et constans voluntas ius suum unicuique tribuere" (Summa Theologiae, II-II, 58,1; cfr. anche Catechismo della Chiesa Cattolica [1992], n. 1807), riconoscere alla fede - sapere non evidente, secondo la stessa espressione paolina - la sua problematicità non significa forse attribuirle ciò che le spetta secondo giustizia (lo "ius suum")?
"La legna non è cenere, è impossibile un tempo in cui la legna sia cenere, in cui cioè qualcosa sia il proprio altro; e quindi la legna non può nemmeno mai diventare cenere [...] Al di fuori del nichilismo dell'Occidente il pensiero non pensa che la legna rimanga eternamente legna anche quando è cenere, ma pensa ciò che appare. Nella struttura originaria del destino, quando la legna brucia appare la legna e poi appare ciò che viene chiamato la "sua" cenere. La "sua" cenere è essenzialmente diversa dalla cenere di altre cose e da ogni altra cenere; ma, nella struttura originaria del destino, questa diversità non è costituita dal fatto che sia la legna ad esser diventata questa cenere, ma dal modo specifico in cui ciò che diciamo "la cenere della legna" appare unito alla legna".
Il volume La legna e la cenere raccoglie una serie di scritti composti da Severino negli ultimi anni, in svariate occasioni: risposte a delle critiche (il titolo di questo libro è preso da uno dei temi sviluppato nella replica ad un articolo di Marco De Paoli), discussioni con diversi studiosi, interventi a convegni, lettere.
Anche da un semplice sguardo all'indice, si può subito capire l'ampiezza e la varietà dei temi affrontati: il dialogo di Severino spazia dall'ontologia greca alla scienza moderna, dalla teologia alla logica, dai problemi esistenziali allo studio del linguaggio, coinvolgendo sia pensatori affermati, sia giovani studiosi. Proprio a causa di questa vastità di argomenti, sarebbe inutile cercare di dare una presentazione globale del libro, che verrebbe ad essere un'esposizione - anche se non al livello fondativo - dell'intero pensiero severiniano: ci soffermeremo pertanto solo su alcuni punti particolarmente significativi.
Complessivamente, il quadro migliore della visione severiniana dell'uomo è quello che emerge dal dialogo con i giovani studiosi della rivista "Palomar", riportato nell'ultimo capitolo del testo. Le domande sono molto intelligenti e mirate, e consentono a Severino di sviluppare una chiara riflessione su alcuni punti cardine del proprio pensiero.
Il titolo con cui questa intervista era stata originariamente pubblicata su "Palomar", Al di là di ogni umanesimo, introduce già molto bene l'argomento affrontato: la critica severiniana alla concezione dell'uomo come soggetto di azione, concezione sottesa alle differenti antropologie sviluppatesi in Occidente. In questo senso, l'uomo occidentale nasce quando si pone la terra - ossia la totalità di ciò che sopraggiunge nel cerchio dell'apparire - come la regione sicura, l'insieme di ciò che è disponibile all'azione della volontà: "Quindi stabilisco un'equazione tra persuasione che la terra sia la regione sicura - insomma la dimensione "seria" con cui avremmo a che fare (senza, poniamo, le chiacchiere di Severino, tanto per intenderci) - e la volontà di potenza [...] L'uomo è il risultato dell'atto con cui la volontà di potenza è cosciente di sé, l'atto che dice: io sono qui, con una certa potenza sulle cose, io sono "uomo"" (pp. 223-224). La nascita dell'uomo, nel senso occidentale del termine, consiste cioè nel manifestarsi della persuasione che ciò che appare sia disponibile al dominio, della persuasione per cui la terra è dominabile: in quest'ottica - ossia, all'interno di questa persuasione -, l'uomo è visto come una cosa in mezzo alle altre (come, innanzitutto, il "soggetto" di questa persuasione), che ha dominio sulle altre cose (o almeno su alcune di esse). Al di fuori di questa persuasione, al di fuori cioè del nichilismo (che, nella sua essenza, consiste proprio nella persuasione che l'ente divenga, oscilli - nella sua disponibilità al dominio - tra l'essere e il nulla, e che - quindi - non si opponga al nulla), l'uomo rivela la propria autentica essenza come l'eterno apparire dell'essere, l'orizzonte in cui gli enti - anche quell'ente in cui consiste l'errore della persuasione nichilista, dell'uomo occidentale - fanno la loro comparsa; al di là di ogni umanesimo, quindi, se si tiene presente ciò che con "umanesimo" e "uomo" la tradizione occidentale intende significare.
Tutto ciò, però, non significa - né può significare - che ciò che Severino afferma si riduca ad una esortazione al non fare nulla, all'incrociare le braccia: anche una tale esortazione, infatti, sarebbe del tutto interna a quella logica della volontà di potenza, che si sta criticando; sarebbe, nuovamente, un ulteriore invito rivolto all'uomo occidentale. Si tratta invece di comprendere, innanzitutto, la distinzione di piani tra l'autentica essenza dell'uomo - eterno apparire dell'essere - e l'uomo nella sua dimensione occidentale (come errore, persuasione nichilista): su questa base, si potrà allora rilevare - come Severino scrive in una lettera al prof. A. Di Caro, riportata alle pp. 182-183 - che "La non-potenza della verità ["non-potenza" in quanto la verità non è riducibile alla struttura della volontà di potenza] può "affermarsi" nella "storia" solo se incomincia ad apparire la testimonianza della verità - ossia di ciò che già da sempre appare, qui, ora [...] La testimonianza è innanzitutto un linguaggio, che a sua volta è un eterno. Ma, insieme, è il "tramonto" della potenza e delle sue opere [...] Rimane ancora un problema (che da tempo vorrei aver risolto) se quel linguaggio e quel tramonto siano destinati ad apparire nei "popoli"".
Sempre all'interno dell'intervista per "Palomar", Severino sviluppa poi degli interessanti rilievi metodologici (riprendendo un tema che aveva discusso approfonditamente soprattutto in Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano 19842), che consentono di porre nella giusta luce molte delle obiezioni che spesso sono rivolte al pensiero severiniano (e parecchie di queste obiezioni sono riportate anche all'interno di questo stesso volume). Severino sostiene infatti che "Se qualcosa è affermato in base a un fondamento, se non si discute il fondamento non si possono mettere in questione le conseguenze "paradossali" che scaturiscono da ciò che si è affermato. Non è vero che l'albero si giudica dai suoi frutti: lo si giudica dalle sue radici. Se uno dice che i frutti sono cattivi, ma le radici sono buone, allora vuol dire che chi assaggia ha il gusto malato. Non si può dire, in relazione al pensare, che, quando conduce a conclusioni paradossali, esso è errato; bensì che, se conduce a qualcosa che è ritenuto paradossale, ciò significa che i criteri in base ai quali si qualifica qualcosa come paradossale sono inadeguati" (p. 225). Si tratta di una radicale riaffermazione del primato dell'indagine filosofica rispetto a tutte quelle forme di sapere - senso comune, scienza, fede - che pretenderebbero di giudicarne il valore, condannandone ab extrinseco le conclusioni senza considerare i motivi in base ai quali esse vengono sostenute. E si capisce anche come Severino sia portato a ribadire questo principio, tenendo presente che molte delle critiche che gli vengono mosse (si veda, a titolo di esempio, la polemica con M. Mugnai, riportata in questo testo alle pp. 195-208) si limitano a rilevare l'incongruenza di alcune tesi severiniane con altre tesi del senso comune (o della scienza, o della fede), senza toccare il livello fondativo: un po' come se, per riprendere le parole del nostro autore (pp. 205-6), a Galileo i suoi avversari tolemaici avessero obiettato: "O che tu dici! Non vedi al mattino che il sole spunta a oriente, e poi sale su nel cielo, e a sera va giù dall'altra parte? O che incompetentissimo tu sei! Suvvia, alzati di buon ora, e mettiti a guardare verso il chiaro che vedrai, e, zuccone, vedrai montar su il sole e muoversi sotto i tuoi occhi e attraversare il cielo in tutta la sua lunghezza! Ignorante! Tu non sai nemmeno che il sole va su e va giù! Ma chi mai ti ha fatto professore?"...
Non ci soffermiamo sulle altre discussioni, che - come sopra accennato - affrontano i temi più disparati: ci basti sottolineare come da esse emerge la fitta rete di dialogo che lega Severino ai diversi settori del pensiero contemporaneo. Anche soltanto per cogliere quest'ultimo aspetto, questo intrecciarsi di dialoghi, la lettura de La legna e la cenere resta consigliabile.