INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DEL NOVECENTO

A cura di Diego Fusaro




INDICE
LO SPIRITUALISMO FRANCESE
LA FENOMENOLOGIA
L'ESISTENZIALISMO
IL CIRCOLO DI VIENNA E IL NEOPOSITIVISMO
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE
IL NEO-CRITICISMO TEDESCO
SPIRITUALISMO E FILOSOFIA DELLA PERSONA
IL PRAGMATISMO AMERICANO
LA FILOSOFIA IN RUSSIA

LO SPIRITUALISMO FRANCESE

Lo “spiritualismo” francese è una filosofia maturata a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento che tende a dare grande importanza alla vita spirituale dell’uomo, cercando di sottolinearne la specificità rispetto a quella materiale; ci sarà perfino chi, come Bergson (nell’ Evoluzione creatrice ), negherà ogni autonomia alla sfera materiale, riconducendola interamente a manifestazione di quella spirituale, sulla scia di quanto aveva già fatto Leibniz secoli prima. Lo spiritualismo nasce e si sviluppa soprattutto in Francia perché si tratta di una filosofia di derivazione essenzialmente cartesiana: proprio Cartesio, infatti, aveva prospettato con l’idea del “ cogito ” la ricerca della verità nell’interiorità spirituale, riducendo la materia ( “ res extensa ”) a pura e semplice estensione nello spazio priva di ogni forma di spiritualismo e vitalità. La contraddizione del pensiero cartesiano, come senz’altro si ricorderà, scaturiva dal fatto che, in definitiva, il pensatore francese non era stato in grado di spiegare in maniera convincente il rapporto tra lo spirito ( “res cogitans”) e la materia (“res extensa”), tra l’anima e il corpo, con l’inevitabile conseguenza che tutti i pensatori a lui successivi si erano sbizzarriti nel tentativo di risolvere il problema in modo migliore: c’era chi, come La Mettrie, si era sbarazzato dell’ingombrante idea di anima e dalla concezione cartesiano dell’ “animale-macchina” era direttamente passato a quello dell’ “uomo-macchina”, e chi, invece, aveva esasperato la sfera spirituale e l’indagine interiore del “cogito”. Proprio dall’attenzione per le istanze spirituali muove i suoi passi lo spiritualismo francese, che si colloca pertanto in modo critico nei confronti del meccanicismo e si inserisce bene nel contesto di quelle filosofie vitalistiche (prima fra tutte quella nietzscheana) che si opponevano al Positivismo e al suo culto acritico della ragione. Tra i numerosi pensatori che hanno aderito al nuovo movimento francese merita senz’altro di essere ricordato Émile Boutroux, che con la sua filosofia ha inciso in modo rilevante sul pensiero di Bergson: alla teoria da lui elaborata egli stesso dà il nome di “contingentismo”; alla base di essa vi è il riconoscimento di una certa contingenza all’interno dei fenomeni che avvengono nel mondo e, come sarà senz’altro noto, una cosa è contingente quando c’è ma potrebbe tranquillamente non esserci. Il nucleo dell’argomentazione di Boutroux è piuttosto semplice e fa perno su quel concetto che da sempre sta alla base del determinismo: il principio di causalità. Esso prescrive che ogni fatto sia causato in modo necessario da un altro fatto, ma Boutroux riesce a scoprire una specie di indeterminazione nella causalità: accettando il concetto di causa, infatti, siamo costretti a riconoscere causa ed effetto non siano la stessa cosa, il che vuol dire, detto in maniera molto schematica, che l’effetto non è tutto già contenuto nella causa, ma presenta qualcosa di nuovo e di differente rispetto ad essa. Il risultato di questo ragionamento è prevedibile: nel mondo, dice Boutroux, devono per forza esistere elementi di contingenza per cui gli effetti han sempre qualcosa di nuovo, che non c’era nella causa. E se Comte diceva che le leggi di una disciplina (ad esempio, la fisica) non sono riconducibili in tutto e per tutto a quelle di un’altra (ad esempio, la matematica), Boutroux ci spiega il perché, facendo notare, appunto, come l’effetto non derivi in maniera così necessaria dalla causa, ma come anzi presenti un qualcosa di contingente. Così, se è vero che diciamo che 2+3 è uguale a 5, quasi come se lo causasse in modo del tutto necessario, non ci sogneremmo mai di dire che lo sfregamento del fiammifero sia uguale all’accensione della fiamma, sebbene in effetti la fiamma venga accesa dallo sfregamento del fiammifero: questo perché l’effetto non si identifica pienamente con la causa, checchè ne pensasse Schopenhauer nella “Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”. Non è un caso che negli anni in cui Boutroux sviluppa il suo pensiero, Heisenberg elabori il principio di indeterminazione, secondo cui è impossibile determinare con rigore al tempo stesso il moto e la posizione di una particella: né Heisenberg né Boutroux mettono in dubbio l’esistenza di regolarità nel mondo e, per questo motivo, continuano a ritenere valido il principio di causalità, ma avanzano l’ipotesi che sia scorretto ridurre ogni cosa al meccanicismo, facendo considerazioni piuttosto simili, nella sostanza, a quelle fatte duemila anni prima, circa, da Epicuro con la sua teoria del “clinamen”. E del resto il rifiuto di Boutroux e di Bergson e, più in generale, degli spiritualisti francesi, non nasce da una loro ignoranza delle problematiche scientifiche, ma anzi da un’ottima conoscenza di esse, di cui colgono i limiti e le contraddizioni: si tratta, potremmo dire, di un superamento della scienza da parte di chi la conosce a fondo. Il poeta italiano Eugenio Montale si dichiarerà apertamente sostenitore della filosofia di Boutroux e, non a caso, la sua poetica cerca qua e là delle vie di fuga dall’ordine oppressivo della realtà e può essere ben rappresentata dall’immagine, tipicamente montaliana, del muro coperto da cocci di vetro (che rappresenta il limite che impedisce di attingere l’essenza più intima della realtà) che presenta qualche fessura, ovvero qualche tenue possibilità di cogliere l’essenza della realtà; in Montale è, infatti, costante l’idea di una “ maglia che non tiene ”, del muro dalle cui fessure si può sbirciare e cogliere, in modo extra-meccanicistico, la realtà più profonda, anche nei momenti più banali (quando, ad esempio, si sente l’odore dei limoni, dice Montale), che possono rivelarsi invece momenti di fuga dall’ordine soffocante.

LA FENOMENOLOGIA

La “fenomenologia” costituisce una delle principali fonti dell’esistenzialismo, tant’è che molti dei grandi pensatori esistenzialisti (Sarte e Heidegger, ad esempio) sono prima stati fenomenologici: in particolare, Heidegger è stato discepolo dell’eroe della fenomenologia, Edmund Husserl. La tesi fenomenologica formulata da Husserl parte dal recupero di alcune nozioni della tarda-scolastica, prima fra tutti l’ “intenzione”: per Ockham l’intenzione era l’atto con cui la mente si riferisce a qualcosa, per cui se penso ad un oggetto, l’atto con cui la mente si riferisce ad esso è un’intenzione, proprio come un segnale stradale si riferisce a quella precauzione che suggerisce con un’intenzione. Inoltre Husserl riprende la tradizione cartesiana (nel 1931 scrive un’opera intitolata “Meditazioni cartesiane”): fondamentalmente egli mutua dal filosofo francese l’esigenza di arrivare a costruire un sapere assolutamente certo, una filosofia come scienza. E, sotto questo profilo, Husserl ha la pretesa di costruire una filosofia che non si limiti a concetti elaborati in passato, ma che parta dai dati della realtà così come essi si manifestano e proprio per questo motivo la sua filosofia prende il nome di “fenomenologia” ( fainomenon indica appunto il manifestarsi). In questa ricerca di un’assoluta certezza, Husserl si domanda, cartesianamente, se quando ho in mano un oggetto, supponiamo una penna, vi sia qualcosa di certo. E finisce per dire che del fatto che esiste un mondo a me esterno non posso averne certezza e per questo motivo decide di sospendere il giudizio sul mondo ricorrendo al concetto di epoch , elaborato dagli antichi Scettici, che significa appunto “sospensione di giudizio”: con tale atto, Husserl, com’egli stesso afferma, mette il mondo “ tra parentesi ” perché problematico, in quanto non certo. C’è una cosa, però, dice Husserl, di cui ho certezza ed è il fatto di pensare e di avere percezioni (tattili, visive, ecc) di quel mondo messo tra parentesi, sicchè posso costruire una scienza di idee che metta fra parentesi la corrispondenza tra le idee presenti in me e il presunto mondo a me esterno. E, in un certo senso, Husserl vuole ricollocare tutta la filosofia all’interno della coscienza perché ciò gli permette di attribuire alla filosofia stessa una veste di assoluta certezza. Ma questo non toglie che nell’ambito della coscienza sussista un rapporto di intenzionalità: il soggetto percepisce idee, ma che ad esse corrisponda qualcosa in un mondo esterno viene messo tra parentesi; ma, compiuta quest’operazione e quindi escluso l’oggetto come esistente fuori di me, si crea un rapporto soggetto/oggetto nella coscienza. Infatti, quando percepisco il nero, sto percependo, in qualità di soggetto, un oggetto e non è vero, dice Husserl, che i princìpi logici e matematici sono il riflesso del funzionamento della nostra mente, come sosteneva lo “psicologismo”, secondo il quale 2 + 2 = 4 solo perché la nostra testa funziona così: non è possibile, in altri termini, che le leggi logiche e matematiche siano fondate dalla psiche umana. Un po’ come era per Platone, anche per Husserl 2 + 2 = 4 è un oggetto del pensiero ma, a differenza di Platone, per Husserl non è un oggetto esistente in modo indipendente: viceversa, l’esistenza della verità 2 + 2 = 4 risiede nel fatto che all’interno della coscienza esiste un rapporto di intenzionalità per cui quando dico 2 + 2 = 4 non mi sto muovendo fuori dall’alveo della coscienza, ma è un gioco tutto interno alla mia mente. Ma anche se tutto avviene nella mia mente, ciononostante, distinguo tra atto del pensare ( noesiV ) qualcosa dall’idea che viene pensata (noema ), nel nostro caso2+2=4. In altri termini, nel pensare sono sempre compresenti e distinti l’atto del pensare e l’oggetto di tale atto: l’uno si riferisce all’altro con un rapporto intenzionale.

L'ESISTENZIALISMO

Quando l’esistenzialismo nasce, nel Novecento, è un atteggiamento culturale a tal punto di ampia portata da investire, proprio in quanto filosofia dell’esistenza, ogni ambito della cultura del tempo e tende spesso a sfuggire alla trattazione filosofica e, talvolta, ad assumere l’aspetto di una moda letteraria. Senz’altro la fonte principale dell’esistenzialismo è il pensiero di Kierkegaard e il suo interesse per l'io come singolo, ovvero per l'io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l'aveva avvolto Hegel. Del resto, osservava molto acutamente Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. L’indagine esistenzialista, pertanto, viene proiettata sull’esistenza dell’io come singolo e sul significato della vita e non è un caso che spesso tenda a slittare verso forme che esulano dal pensiero filosofico, quali la filosofia o la letteratura: del resto già Aristotele aveva fatto notare che la scienza è, per definizione, sempre scienza dell’universale, cosicchè lo studio del singolo uomo e della sua esistenza non è rigorosamente definibile, ma anzi sfugge ad ogni inquadramento intellettuale, con la conseguenza che per indagare l’esistenza del singolo occorre percorrere strade alternative. E così l'esistenzialismo di Kierkegaard, di Lutero e di Pascal provava la via religiosa, mentre quello del Novecento prova, con Sartre e Camus, quella del teatro e della letteratura, poiché il teatro, la letteratura e la religione consentono di presentare situazioni concrete ed individuali. La categoria fondamentale è, dunque, l’esistenza e non l’essenza, sicchè a contare non è ciò che l’uomo è in sé, ma ciò che l’uomo può fare di sé progettando il proprio destino: non vi è nell’uomo un’essenza che determini deterministicamente ciò che egli sarà; viceversa, l’esistenza è una navigazione nel vuoto: si è gettati nel mondo e si deve cercare di dare un senso ad un’esistenza che, priva di senso, ne è sprovvista. Altri grandi esistenzialisti del passato erano stati Pascal e Lutero, i quali si erano interessati non tanto se Dio esistesse, quanto piuttosto che senso avesse per l’esistenza dell’uomo credere in Dio. Nel Novecento, accanto agli esistenzialisti credenti e a quelli difficili da catalogare, come Heidegger (Vattimo dà di lui un'interpretazione non-religiosa), vi saranno anche esistenzialisti atei che riprenderanno le riflessioni di Kierkegaard, rimproverando però al filosofo danese e, in generale, all'esistenzialismo religioso di aver tradito l'istanza esistenzialistica originaria ricorrendo a Dio: infatti, l'esistenzialismo è tutto incentrato sulla possibilità ed essa, per essere tale, non può agganciarsi a Dio, perchè così facendo si approda al porto sicuro della fede e si tappa l'enorme falla del nulla, tipica della ricerca esistenzialista. Camus, ad esempio, insisterà vivamente sul concetto di assurdo e sull'accettazione da parte dell'uomo dell'assurdità dell'esistenza; l'uomo di Camus saprà dunque vivere fino in fondo la condizione di ineliminabile assurdità dell'esistenza, paragonata ad un’inutile fatica di Sisifo. Tuttavia, contro la critica mossa dall'esistenzialismo ateo, si può spezzare una lancia in favore di Kierkegaard, facendo notare come per lui la fede non rinneghi la matrice esistenzialista: infatti, egli non la concepisce in modo tranquillo e sereno, come un porto in cui trovar riparo; al contrario, la vive in modo drammatico e problematico (l'immagine della fede è per lui Abramo), come l'avevano vissuta Tertulliano, san Paolo, Lutero e Pascal, non in modo tranquillo e sereno come Erasmo e Tommaso. Il pensiero kierkegaardiano e, con esso, l’esistenzialismo rinasce, dopo più di mezzo secolo di oblìo, negli anni della prima guerra mondiale e non è un caso che abbia i suoi momenti d’oro subito dopo le due guerre mondiali, quando gli eventi bellici, con tutta la loro drammaticità, tendono a far nascere un vivissimo senso dell’insensatezza dell’esistenza (già peraltro sottolineato dal Dadaismo in campo artistico). Le due guerre mondiali, però, hanno lasciato un senso diverso nella coscienza della gente: la fine della prima guerra mondiale suggerisce l’idea di un crollo dei sistemi tradizionali tanto nei Paesi vincitori quanto in quelli vinti (atteggiamento che traspare benissimo da “Il tramonto dell’Occidente” di Splenger); con il secondo conflitto mondiale, invece, si assiste a genocidi sconvolgenti, mai verificatisi in passato, ma ciononostante si aprono maggiori spiragli di speranza poiché, se la prima guerra mondiale aveva chiuso tragicamente un’epoca in fin dei conti felice (la “bella époque”), con la seconda è crollato un mondo, ma il mondo in questione è quello dominato dai nazisti. All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, alberga la speranza e la voglia di rivivere nell’animo di tutti e la stessa Resistenza, che aveva valorosamente saputo opporsi alle dittature, non aspirava solo a liberare il mondo dai fascismi, ma anche a creare una società nuova e più vivibile. E così si può dire che tra l’esistenzialismo fiorito all’indomani della prima guerra mondiale e quello sviluppatosi dopo la seconda intercorre una differenza accostabile a quella prospettata da Nietzsche tra nichilismo passivo e nichilismo attivo: come abbiam detto, l’esistenzialismo prevede la mancanza di un’essenza rigorosamente determinata nell’uomo e questo rievoca, per molti versi, l’assenza di essere prospettata da Nietzsche; dallo sgomento che nasce dal sentirsi mancare la terra sotto i piedi si origina un nichilismo passivo, che fa sì che si provi nostalgia per il passato, in cui vi erano valori saldi a cui far riferimento. Al nichilismo passivo, però, subentra quello attivo: cessato lo sgomento scaturito dall’assenza di punti di riferimento, ci si accorge che non resta che crearne di nuovi. Qualcosa di analogo vale anche per l’esistenzialismo novecentesco: è come se nel primo nichilismo, che va dalla prima guerra mondiale alla seconda, prevalesse il nichilismo passivo e pessimista, che intende l’esistenza come smarrimento dell’uomo, come “ amhcania ” ineliminabile; l’uomo è, leopardianamente, gettato nel mondo a condurre un’esistenza priva di senso e la libertà di cui egli gode è vista più come una condanna che non come un privilegio: Sartre dice, a tal proposito, che “ l’uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa” , sottolineando come si sia liberi di tutto fuorchè di scegliere se venire al mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, invece, l’esistenzialismo si colora di ottimismo e tende sempre più a leggere la possibilità come facoltà di progettare liberamente il proprio futuro. A tal proposito può essere interessante l’itinerario filosofico di Sartre fra le due guerre mondiali: negli anni successivi alla prima guerra mondiale egli scrive (nel 1938) il celebre romanzo “La nausea”, con cui esprime quel senso di disagio quasi fisico nei confronti del mondo e della sua insensatezza: in uno dei passaggi forse più famosi del libro, il protagonista, seduto in una panchina nel parco, osserva le radici contorte di un albero che si spingono nella terra senza senso alcuno e ciò gli fa cogliere tutto d’un colpo l’insensatezza dell’esistenza e gli provoca un forte senso di nausea; in un’altra parte del libro, ha un incubo ad occhi aperti: immagina delle trasformazioni anatomiche stravolgenti (un terzo occhio o la lingua che si trasforma in un insetto ripugnante). Con ciò, Sartre vuole sottolineare come siamo tutti abituati a vedere l’uomo in una sola maniera, perché ha una sua essenza che determina ciò che è; ma nel momento in cui perdiamo il senso delle cose, tutto diventa possibile e in questo periodo Sartre legge la possibilità come altamente negativa, quasi come una condanna che implica l’insensatezza del mondo: come a dire che il mondo, quando può diventare ciò che vuole, diventa una mostruosità. Negli anni della seconda guerra mondiale, più precisamente nel 1943, Sartre pubblica invece “L’essere e il nulla”, un trattato filosofico in cui compare un’immagine che chiarisce il nuovo atteggiamento sartreano nei confronti dell’insensatezza dell’esistenza: egli afferma come in un mondo e in un’esistenza privi di senso sia l’uomo a poter conferire un significato ad essi; proprio come parliamo, convenzionalmente, di “mezza luna” ma potremmo tranquillamente definirla “luna” e chiamare invece “doppia luna” quella che abitualmente chiamiamo “luna”, così possiamo dare un significato a tutte le cose del mondo, visto che esse, di per sé, non ce l’hanno. Se Sartre negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, sull’onda dei drammi bellici, non guardava con simpatia alla libertà di dare un senso al mondo, ora che la guerra sta del tutto volgendo al termine dà una svolta ottimistica al suo pensiero. A guerra ultimata, nel 1946, compone un opuscolo (al quale risponderà lo stesso Heidegger) intitolato “L’esistenzialismo è un umanismo”, con cui guarda in modo attivo alla filosofia dell’esistenza: se il mondo è caratterizzato dall’assenza di un significato e di un’essenza predeterminata, allora mi trovo a scegliere liberamente cosa diventare e quando scelgo, nota Sartre, scelgo anche per coloro che verranno al mondo dopo di me, dal momento che si sceglie sempre facendo riferimento a valori consolidati da secoli e da una miriade di persone. Ne consegue che sono quel che decido di essere, ovvero attraverso l’esistenza determino l’essenza mia, ma anche degli altri. Ecco perché se l’umanesimo ha messo, nel Cinquecento, al centro del mondo l’uomo, inteso, secondo la felice espressione sallustiana, “faber fortunae suae”, l’esistenzialismo ora rappresenta il culmine della tradizione umanistica, in quanto è l’uomo a dare un senso alla propria esistenza e al mondo stesso. Naturalmente questa nuova prospettiva sartreana è altamente ottimista, in quanto il filosofo francese è alimentato dalla speranza, tipica del dopoguerra, di ricostruire un nuovo mondo e non a caso questo è il periodo in cui Sartre è impegnatissimo politicamente nel Partito Comunista: affiora nella sua filosofia il concetto di “impegno” esistenziale e politico, che farà sì che Sartre tenti un’ibridazione tra il marxismo e l’esistenzialismo, in virtù del fatto che l’esistenzialismo, in quanto filosofia dell’esistenza, può essere innestato un po’ ovunque. Nel 1947 Heidegger pubblica la “Lettera sull’umanismo”, con la quale capovolge la prospettiva sartreana emersa in “L’esistenzialismo è un umanismo” e interpreta il compito del pensiero come impegno non per l’uomo, ma per l’essere. In questo modo, il pensatore tedesco prende le distanze dall’esistenzialismo, a cui rinfaccia di assegnare il primato a quell’ente che è l’uomo, dimenticandosi dell’essere. Ma l’uomo, dice Heidegger, è solo il “ pastore dell’essere ”, colui al quale è affidato il compito di salvaguardare e custodire nel pensiero la verità dell’essere. L’esistenzialismo risente, come abbiamo visto, dell’influenza della filosofia fenomenologica: in particolare, in Heidegger resta l’idea husserliana che la coscienza sia sempre costitutivamente intenzionale; la coscienza, in altri termini, si riferisce sempre a qualcos’altro, qualsiasi atto umano è un riferirsi a qualcosa, cosicchè pensiamo, facciamo, vogliamo sempre qualcosa. L’atteggiamento di Husserl, però, è iperclassico, porta all’esasperazione la tendenza teoretica riservata da Aristotele alla filosofia, quasi sganciandosi dal mondo (che non a caso veniva da Husserl messo tra parentesi). L’esistenzialismo, però, si trova agli antipodi rispetto alla concezione aristotelica e husserliana della filosofia come “sapere per il sapere”: infatti, la sua indagine verte sull’esistenza e quest’ultima implica l’essere immersi in quel mondo sul quale Husserl sospendeva il giudizio. Dunque Heidegger eredità la nozione husserliana di “intenzionalità”, ma respinge nettamente l’ipotesi che essa resti interna solo all’orizzonte della coscienza: ne consegue che per Heidegger il carattere intenzionale non implica tanto il tendere alle idee, quanto il tendere e il riferirsi al mondo; questo atteggiamento, proprio di Heidegger, rispecchia in realtà buona parte delle posizioni esistenzialistiche, che per lo più vedono come marginale l’aspetto teoretico, tanto caro ad Husserl, perché l’esistenza è, in primo luogo, essere nel mondo.

IL CIRCOLO DI VIENNA E IL NEOPOSITIVISMO

Il Circolo di Vienna (in tedesco “Wiener Kreis”) si propose come obiettivo l’elaborazione di una concezione scientifica del mondo: il primo nucleo del circolo si costituì a partire dal 1923, dopo l’arrivo di Moritz Schlick a Vienna in veste di professore universitario; tra i suoi membri princioali vanno ricordati Herbert Feigl, Friedrich Waismann e vari scienziati, come il matematico Hans Hahn, il fisico Philip Frank, il sociologo Otto Neurath. Nuovo impulso alla vita del Circolo fu poi dato dall’arrivo a Vienna di Rudolf Carnap e dall’iniziativa di discutere insieme il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, che partecipò qualche volta ad alcune sedute del Circolo. Nel 1928 esso assunse il nome di “Associazione Ernst Mach”, mentre nello stesso anno veniva fondata a Berlino una parallela “Società per la filosofia scientifica”, di cui erano membri Hans Reichenbach, Richard von Mises, Carl Gustav Hempel e Hilbert. Tra i due gruppi vebnnero intrecciate relazioni che culminarono nell’organizzazione di una serie di congressi, nella fondazione della rivista “Erkenntnis” (Conoscenza), pubblicata dal 1930 al 1938 sotto la direzione congiunta di Carnap e Reichenbach, e di una collana di volumi, in cui uscirono anche opere di Carnap e di Popper. Le riunioni del Circolo a Vienna continuarono fino al 1936 e ad esse presero parte anche visitatori stranieri come Ayer (da Oxford) e Quine (dagli USA), ma fra il 1932 e il 1938, anno dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler, quasi tutti i suoi membri emigrarono all’estero, in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Qui entrarono in rapporto con filosofi americani, tra i quali Dewey e Charles W. Morris, e insieme diedero vita al progetto di una “Enciclopedia della scienza unificata”. La posizione filosofica di quanti parteciparono alle iniziative del Circolo è influenzata dalla tradizione empiristica, da Mach e dal “Tractatus” di Wittgenstein ed è stata variamente denominata: “neopositivismo” o “positivismo logico” o anche “empirismo critico” o “empirismo critico”. I caratteri generali di essa emergono nel manifesto del Circolo, che fu pubblicato nel 1929 con il titolo “La concezione scientifica del mondo”, dedicato a Schlick e sottoscritto da Hahn, Carnap e Neurath, ma redatto essenzialmente da Neurath. L’obiettivo è reagire contro la svalutazione del sapere scientifico, mostrando che la nuova immagine del mondo, costruita dalla scienza, è in grado di fornire una migliore spiegazione dei dati forniti dall’esperienza. A ciò è possibile provvedere coordinando i risultati raggiunti dalle varie scienze in modo da elaborare la scienza unificata , attraverso la ricerca di un linguaggio quotidiano. Il presupposto è che la scienza è un linguaggio ed è l’unico linguaggio dotato propriamente di significato dal punto di vista della conoscenza. In sintonia con il primo Wittgenstein, le proposizioni scientifiche sono distinte in tautologiche, proprie della matematica e della logica, e in enunciati empirici: questi ultimi sono significanti, soltanto se sono riducibili ad asserzioni elementari riguardanti i dati immediati della sensazione. Le teorie scientifiche si fondano quindi su una base empirica e vengono costruite mediante l’elaborazione di questo materiale grazie agli strumenti forniti dalla logica matematica, che per i neopositivisti è sostanzialmente quella dei “Principia mathematica” di Russell e Whitehead. Il significato di una proposizione consiste, secondo una formula introdotta da Waismann, nel metodo della sua verificazione : Schlick dice che “ la gioia di conoscere è la gioia della verificazione, l’entusiasmo di aver colto nel segno ”. Sul senso da attribuire a questa nozione di verificazione si aprirà un dibattito, soprattutto sulla rivista “Erkenntnis”, che vedrà differenziarsi le varie posizione, mentre rimarrà sostanzialmente uniforme l’accettazione di una delle conseguenze di questa impostazione generale, ovvero la dimostrazione dell’ insignificanza della metafisica tradizionale, mediante l’analisi logica delle sue proposizioni. Questa analisi, infatti, mette in luce l’inverificabilità delle proposizioni della metafisica, le quali pretendono di parlare di entità che vanno al di là di ogni esperienza possibile: tali proposizioni sono dunque prive di significato. Sotto questo profilo, dice Carnap, il linguaggio della metafisica appare soltanto come un’espressione di sentimenti e i metafisici vengono da lui paragonati a “ musicisti senza talento ”.

LA SCUOLA DI FRANCOFORTE

Nel febbraio del 1923 viene aperto ufficialmente a Francoforte, grazie ad una donazione privata, l' "Institut für Sozialforschung" (Istituto per la ricerca sociale), sotto la direzione dello storico marxista Karl Grünberg. Di esso fece parte anche Max Horkheimer (Stoccarda 1895 - Norimberga 1973), che nel 1931 ne diventa a sua volta direttore. Nato nei pressi di Stoccarda da ricca famiglia ebrea, dopo aver lavorato presso l'impresa paterna, si laurea con una tesi su Kant nel 1922 a Francoforte, dove nel 1929 diventa professore di Filosofia sociale. Nel 1932 iniziano le pubblicazioni della rivista dell'Istituto, la "Zeitschrift für Sozialforschung", alla quale collaborano anche altri filosofi del calibro di Adorno, Fromm, Marcuse e sulla quale Horkheimer pubblica diversi articoli, che saranno successivamente raccolti dopo la guerra sotto il titolo di "Teoria critica" (1968). Nel 1933, con l'avvento del nazismo, Horkheimer è espulso dall'università, l'Istituto viene chiuso e trasferisce la propria sede in Svizzera e poi, nel 1934, a New York, mentre la rivista continua le sue pubblicazioni a Parigi, fino al 1940, e successivamente negli Stati Uniti. Horkheimer stesso si trasferisce a New York e dal 1941 in California, acquistando la cittadinanza americana. Durante il soggiorno statunitense, egli pubblica in inglese l' "Eclisse della ragione" (1947) e in tedesco la "Dialettica dell'illuminismo", composta in collaborazione con Adorno. Nel 1950 escono, sempre negli Stati Uniti, i risultati di una ricerca collettiva dell'Istituto, sotto il titolo "Studi sulla personalità autoritaria", ma nel frattempo Horkheimer torna in Germania per insegnare Sociologia e Filosofia all'università di Francoforte, anche se conserva la cittadinanza americana; con lui torna anche l'Istituto, soprannominato dagli studenti "Caffè Max". Nel 1951 è nominato rettore dell'università e nel 1954 si stabilisce sul lago di Lugano, dove conclude la propria esistenza nel 1973. In primo luogo, l'Istituto si propone il ripristino del marxismo , ma tenendo conto dei profondi mutamenti della situazione storico-sociale: soprattutto, dopo la grande crisi economica divampata nel 1929, il capitalismo sembra assumere un nuovo aspetto e trasformarsi, sia nelle democrazie occidentali, sia nelle dittature di Destra, sia nell'Unione Sovietica, in capitalismo di Stato. Ciò implica che non è più possibile parlare di una struttura economica autonoma rispetto alla politica: contrariamente alla teoria di Marx, lo Stato sembra riassumere il primato rispetto alla società civile e impedire, col suo intervento diretto nella sfera economica, l'impoverimento crescente del proletariato. In questa situazione, si assiste ad una graduale perdita di impulso rivoluzionario nella classe operaia, con la conseguente sfiducia, comune agli autori della Scuola di Francoforte, nel fatto che essa possa ancora essere il motore di una trasformazione radicale della società. Ostili alla socialdemocrazia, poiché traditrice degli obiettivi rivoluzionari, ma anche alla burocratizzazione e alla bancarotta, verificatasi anche sul piano teorico, del comunismo sovietico, essi si tengono per lo più lontani dall'attività politica diretta: l'organizzazione totale della società, comune ai paesi occidentali come a quelli orientali, non è spiegabile solo attraverso la coercizione materiale a cui sarebbero sottoposti gli individui. Si tratta, invece, di individuare anche le mediazioni psicologiche e culturali che rendono possibile la costituzione del dominio sociale e, dall'altra, l'accettazione passiva di esso. A questo scopo sono dedicate le ricerche collettive dell'Istituto sul problema dell'autorità. Non scorgendo più all'orizzonte un agente sociale della rivoluzione e ritenendo ormai impossibile su questa base una previsione scientifica del crollo del capitalismo, i pensatori della Scuola di Francoforte ritornano, in qualche modo, ad un'impostazione simile a quella della sinistra hegeliana dopo la scomparsa di Hegel: infatti, essi riconoscono la discrepanza tra la realtà storica e la razionalità e, quindi, il carattere irrazionale della società esistente, rispetto alla quale il compito primario da esercitare è la critica; si tratta pertanto, attraverso un lavoro di critica, di far diventare reale ciò che è razionale. Ecco perché i pensatori della Scuola di Francoforte vogliono elaborare una teoria critica della società , in cui occupa una posizione assolutamente centrale la dialettica , concepita (sulla scia del primo Lukàcs) come metodo per la trasformazione della realtà. A differenza di Lukàcs, però, la teoria critica non viene intesa come semplice espressione della coscienza di classe, senza per questo scivolare nell'illusione opposta che l'intellettuale sia al di sopra della mischia e della lotta di classe. L'intellettuale critico non è un ripetitore delle tendenze conformistiche del proletariato e la dialettica, di cui egli si serve, è orientata ad accertare le contraddizioni esistenti, ma senza la certezza di un superamento di esse in una sintesi finale. E poi, se Marx considerava la scienza, acquisibile mediante il metodo dialettico, diversa sia dall'ideologia, sia dall'utopia, per i pensatori della Scuola di Francoforte la scienza e la tecnica sono anch'esse causa ed espressione, al tempo stesso, del dominio totale della società e quindi forme di ideologia, non nel senso di essere semplici riflessi di interessi di classe, ma in quanto esprimono le contraddizioni della società. In questa prospettiva torna dunque ad aprirsi un nuovo spazio per l' utopia , la quale però consiste, più che nella delineazione di un programma dai contenuti positivi da perseguire e nella definizione dei caratteri della società libera del futuro, nella denuncia di ciò che è falso nel presente e nel rifiuto di esso: e così nel pensiero dialettico assume grandissimo rilievo il momento della negazione.

IL NEO-CRITICISMO TEDESCO

Già nella seconda metà dell'Ottocento si andò sviluppando negli ambienti culturali tedeschi un ritorno a Kant in funzione antipositivistica. A cavallo tra Ottocento e Novecento si andò formando un movimento d'ispirazione kantiana, definito Neocriticismo, rappresentato principalmente dalla Scuola di Marburgo, e dai grandi nomi di Cohen, Natorp, Cassirer. Contemporaneamente al Neocriticismo, e sempre ispirandosi alla filosofia di Kant, fiorì lo Storicismo tedesco, ad opera di Windelband e Rickert, massimi esponenti della Scuola di Baden. Riconducibile tanto alla Scuola di Baden, per l'attenzione alla problema ermeneutico della Storia, quanto alla Scuola di Marburgo, per l'interesse rivolto alla teoria dei valori di marca kantiana, è la filosofia di Dilthey, che, proprio per il progetto di creare una metodica delle "Scienze dello Spirito", rappresenta un passo avanti verso la nascita del pensiero ermeneutico novecentesco, oltre ad essere importante in sé, come modello di riferimento d'ogni matura metodologia delle scienze umane e sociali che non voglia rinunciare alla mediazione filosofica. Il pensiero filosofico tra Ottocento e Novecento è caratterizzato (soprattutto in Germania, ma anche in Francia) da una serrata polemica antipositivistica, portata avanti soprattutto da due correnti filosofiche abbastanza diverse tra loro: lo spiritualismo di Lotze, Eucken, Spir, Hartmann, che adotta il metodo della riflessione interiore e non quello della costruzione dialettica, approdando verso forme di misticismo religioso, pessimismo cosmico, irrazionalismo inconscio; l'altra corrente è il neo-criticismo delle due scuole di Marburgo (Cohen, Natorp e soprattutto Cassirer) e del Baden, nelle due Università di Heidelberg e Friburgo (Windelband e Rickert). In entrambe le correnti il tentativo era quello di recuperare quei valori spirituali trascurati dal positivismo e di ribadire l'esigenza di attribuire alla filosofia un compito diverso da quello di una semplice coordinazione unitaria del sapere scientifico ammessa dal positivismo. Ma delle due correnti quella che diede i risultati più fecondi fu la seconda. Il neo-criticismo rappresenta la sistematica ripresa della filosofia kantiana, nel senso di una riflessione sui fondamenti, metodi e limiti della scienza (in seguito gli ambiti si amplieranno a storia, morale, arte, religione, linguaggio). Mentre per i positivisti l'oggettivo sono i fatti e l'apriori è sinonimo di soggettività/arbitrarietà, per i neo-criticisti l'apriori è il fondamento dell'oggettività scientifica . La scienza, cioè, non sarebbe progredita tramite l'accumulazione pura e semplice dei fatti, ma piuttosto con l'unificazione di questi fatti in ipotesi, leggi, teorie (gli elementi apriori). Compito della filosofia è appunto quello di studiare criticamente gli elementi apriori (filosofia=logica/metodologia scientifica). Il neo-criticismo non è solo contrario all'affermazione del carattere assoluto o metafisico della verità scientifica, ma è anche contrario a ogni tipo di metafisica o di integrazione metafisico-religiosa del sapere scientifico , secondo l'indirizzo dell'idealismo e dello spiritualismo. Il neo-criticismo contesta sia la metafisica della materia (positivismo e naturalismo) sia quello dello spirito (idealismo e spiritualismo). Per i neo-criticisti, Kant si è proposto anzitutto di criticare il sistema scientifico newtoniano (questo viene detto per superare l'interpretazione psicologistica allora dominante del pensiero kantiano). La filosofia critica vuole diventare la scienza delle determinazioni necessarie e universali di valore (della verità, del bene, del bello). La preoccupazione di questi neo-kantiani è quella di ridimensionare l'assoluta oggettività di ogni scienza o filosofia, valorizzando l'apporto dell'individuo concreto (storicamente determinato) alla conoscenza complessiva delle cose (della cui validità teoretica vanno poste le fondamenta gnoseologiche). In due punti il neo-criticismo di Marburgo ha corretto l'impostazione kantiana: ha eliminato il riferimento al noumeno (che lo sviluppo delle scienze esatte aveva reso obsoleto) e ha eliminato la distinzione tra sensibilità (facoltà passiva) e intelletto (facoltà attiva) . L'oggetto dell'attività scientifica è frutto dell'attività produttiva del pensiero (ad esempio, nel calcolo infinitesimale si fa nascere un ente geometrico senza alcun riferimento a dati intuitivi, ma solo attraverso operazioni logiche). Tuttavia, l'oggetto di studio della filosofia (il pensiero) non è l'attività pensante soggettiva, ma il pensato (non è possibile cogliere l'attività della coscienza, tanto è vero che i marburghesi metteranno la psicologia tra le scienze "generalizzanti", al pari della fisica, chimica, biologia...). Il processo conoscitivo non è più l'analisi di un dato iniziale, ma l'analisi del passaggio da un oggetto indeterminato (per esempio un colore) a uno più determinato (per esempio l'onda luminosa di cui parla la fisica), attraverso un processo di sintesi che non giunge mai a compimento. Il processo/metodo è tutto, mentre l'oggetto/fatto è solo in fieri. In pratica, il neo-criticismo accetta le esigenze del positivismo di eliminare un noumeno pensabile ma non conoscibile, rifiutandone nel contempo la pretesa di determinare l'essenza delle cose mediante la scienza: l'essenza sta nel rapporto che le collega. Il neo-criticismo della Scuola di Marburgo cade però nel limite del funzionalismo o relativismo nei nessi relazionali che collegano le cose. Qualunque organizzazione sociale o qualunque enunciato teorico può essere giustificato se se ne trovano i nessi logico-coerenti. Il neo-criticismo si preoccupa soltanto di fissare i criteri di legittimità di una teoria, ma l'unico vero criterio che pone è il rifiuto di considerare possibile la conoscenza vera, esatta, sostanziale della realtà in sé (naturalmente a livello di approssimazioni sempre più vicine alla verità assoluta). Esso ammette unicamente la conoscenza della realtà che ci appare, cioè di quella che in ultima istanza siamo noi stessi a costruire. In tal modo, viene meno la possibilità di contraddire in modo assoluto una determinata teoria sulla base dei fatti. Le teorie per il neo-criticismo si contraddicono da sole quando assolutizzano i fatti, mentre restano coerenti quando mantengono i fatti nella loro relatività (rispetto ad altri fatti). La contraddizione non diventa mai per il neo-criticismo così oggettiva da determinare un ripensamento dei criteri generali di organizzazione della società o della conoscenza. Cassirer dice che "l'uomo non può sottrarsi alle condizioni di esistenza che lui stesso si è creato", cioè l'esistenza può solo essere accettata, non può essere trasformata. "I contrari non si escludono a vicenda ma dipendono l'uno dall'altro". L'uomo insomma, per il neo-criticismo, non può più tornare ad essere un ente di natura, che vive rapporti umani naturali, perché è costretto a pagare il prezzo della sua pretesa manipolativa del reale. L'uomo non può più comprendere la verità delle cose, perché ha di fronte a sé solo le proprie verità. "La" verità non esiste, esistono solo "le" molte verità che l'uomo si dà. Cassirer dice che l'uomo si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal punto da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione. Il rapporto colla natura quindi si è irrimediabilmente perso in questa mediazione culturale artificiale creata dall'uomo. Cassirer esclude categoricamente che da una trasformazione della mediazione culturale si possa tornare a un rapporto più equilibrato dell'uomo con la natura. Gli esponenti più significativi della Scuola del Baden sono Windelband e Rickert. Ciò che accomuna le due scuole è sia il rifiuto della concezione positivistica della conoscenza come "riproduzione della realtà", sia l'esigenza kantiana di considerare la validità della conoscenza indipendentemente dalle condizioni soggettive/psicologiche in cui la conoscenza si verifica. Tuttavia, diversamente dai marburghesi, l'attenzione di questi neo-kantiani non è volta all'indagine/formulazione di un "metodo" che spieghi l'origine del processo conoscitivo e la funzione logica del pensiero in ogni sua espressione, ma alla ricerca di una "norma/criterio" che determini la verità/falsità di un oggetto conoscitivo. Tale criterio è visto nel "valore" (donde "filosofia dei valori"), considerato indipendente dal soggetto che lo formula (Windelband p.es. è stato il primo a trattare la storia della filosofia per problemi, considerando i problemi stessi nel loro sviluppo come relativamente indipendenti dai filosofi che li pongono). WINDELBAND si pone come obiettivo quello di creare una "filosofia critica" che sia scienza delle determinazioni "necessarie e universali" del valore della "verità", del "bene" e del "bello". La filosofia cioè non ha per oggetto dei "giudizi di fatto" -come le scienze naturali- ma dei "giudizi di valore", che hanno validità normativa. Come la legge naturale non è mai un principio di valutazione, così la norma non è mai un principio di spiegazione. Windelband parte da Kant, sottolineando di questi la scoperta che i principi a priori garantiscono la validità della conoscenza, il che ha distrutto definitivamente la concezione greca che credeva esterna all'uomo la realtà che permette di determinare la verità delle cose. Le categorie kantiane -dice Windelband, chiamandole col termine "valori"- sono valori necessari e universali, aventi carattere normativo indipendente dalla loro effettiva realizzazione. A differenza però dai marburghesi, Windelband e Rickert cercano di applicare questa scoperta kantiana (Kant aveva parlato di valore solo nei confronti del "bene") non solo alla gnoseologia o al sapere fisico-matematico, ma anche all'estetica e all'etica, ovvero a tutto il mondo storico, senza contraddizione tra "scienze della natura" e "scienze dello spirito", che Windelband chiama, rispettivamente, "scienze generalizzanti" o "nomotetiche" (cioè legate alle leggi, e sono la biologia, la fisica, la chimica, la matematica, ecc.) e "scienze individualizzanti" o "idiografiche" (cioè legate alla singolarità, come la filosofia e la storia). Windelband e Rickert propongono una spiegazione della storia a partire dall'interpretazione del fatto singolo e individuale, che abbia naturalmente un valore universale. Il valore quindi si configura come un a-priori, un "dover essere" (la rappresentazione "vera" come quella che deve essere pensata, l'azione "buona" come quella che deve essere compiuta, la cosa "bella" come quella che deve piacere), indipendente dall'oggetto, in relazione al soggetto, in grado di determinare la validità di qualsiasi tipo di giudizio e che la filosofia deve portare alla coscienza del soggetto. In polemica con Dilthey, Windelband e Rickert affermano l'unità del sapere umano, ovvero il rifiuto di distinguere (se non a livello metodologico) le scienze della natura da quelle della cultura/spirito. La realtà indagabile è sempre la stessa, anche se cambia il punto di vista (scientifico o storico) dal quale viene considerata. Rickert accentua però la differenza "oggettiva" dei due tipi di scienza, facendo del valore un'entità trascendente, come un essere per sé, trascendente l'attività umana. Il neo-criticismo si è diffuso in tutti i paesi, ma le manifestazioni più significative le ha trovate in Francia e soprattutto in Germania. In Italia l'esponente più importante è stato Antonio Banfi (1886-1957), che ha elaborato il "razionalismo critico". HERMANN COHEN (1842-1918), nel suo "Sistema di filosofia", sviluppò i presupposti metafisici del criticismo kantiano, soprattutto il concetto del noumeno, o "cosa in sé", che avanzava una frattura tra ciò che è in se stesso e ciò che si conosce. Inoltre, la dicotomia tra "estetica" e "analitica", che postulava una distanza non di minore momento tra ciò che si conosce mediante l'intuizione e ciò che si conosce attraverso l'intelletto, limitando successivamente l'oggetto d'intuizione a substrato materiale della conoscenza intellettiva. Nell'interpretazione di Cohen, il pensiero e l'essere sono due concetti coincidenti, tuttavia non nella maniera idealistica, che li unifica nell'Io, ma in quanto essi costituiscono l'oggettività pensabile. Strettamente collegate a quella che Cohen ha definito "logica della conoscenza pura" sono altre due scienze filosofiche teorizzate dal filosofo neokantiano: un'etica della volontà pura e un' estetica del sentimento puro . Dal punto di vista etico, Cohen riprende il kantiano "dover essere" aggiungendo che senza "dover essere" c'è solo desiderio, negatore di ogni volontà autentica. Da Kant egli desume anche il principio etico di scorgere nell'umanità, in sé e negli altri, un fine e non un mezzo, concezione che per Cohen trova un corrispettivo filosofico-politico all'interno della "Weltanschauung" socialista. Nel Socialismo, asserisce il filosofo tedesco, l'uomo è un fine in sé, per cui è un dovere morale rispettarne la libertà personale e la dignità sociale. Tale principio egli vede a fondamento della concezione socialista: per il socialismo, egli dice, l'uomo è fine in sé, e pertanto bisogna rispettarne la libertà e la dignità. Tuttavia Cohen non accetta il socialismo d'ispirazione marxista, in quanto in contraddizione con il kantiano "regno dei fini", cioè verso un valore etico a cui sembra tendere il mondo moderno nella sua evoluzione storica. L'esplicitazione etica del socialismo fu poi delineata ed approfondita anche da Paul Natorp (1854-1924), tra l'altro noto come esperto della filosofia di Platone e dei suoi sviluppi. Tuttavia, se la critica dei valori di Cohen e Natorp rischia di apparire anacronistica nel momento in cui rimane ancorata alla tavola di categorie etico-sociali di stretta ortodossia kantiana, ha una sua importanza decisiva se si considerano gli sviluppi di Cassirer, che fa una brillante ed originale ripresa dell'a priori del filosofo di Köenigsberg, nel senso di una presa di coscienza sull'importanza della realtà simbolica ai fini della gnoseologia, o teoria psichica della conoscenza umana. ERNST CASSIRER (1874-1945), noto come uno dei più importanti storici delle idee, va annoverato tra i principali filosofi del Novecento soprattutto grazie alle brillanti intuizioni esposte in due opere: "Concetto di sostanza e concetto di funzione" e in "Filosofia delle forme simboliche". La scienza, dice il grande filosofo tedesco, non è capace di mostrarci l'immagine di oggettive entità di natura. Le strutture che sottostanno ai contenuti della conoscenza sono "funzioni". In questa filosofia il linguaggio assume una sua peculiare "funzione costitutiva" degli enti della conoscenza. La dimensione linguistica non rappresenta solo una modalità di approccio comunicativo, ma organizza l'esperienza tipicamente umana della conoscenza, è anzi la stessa organizzazione del pensiero a dover fare continuamente i conti con l'attivo uso del linguaggio e delle sue dinamiche. È la dimensione linguistica che fa da tramite tra le nostre impressioni dettate dal momento e il livello dell'oggettività razionale. Questa operazione è mediata dal simbolo che svolge un suo ruolo specifico come un mezzo necessario e imprescindibile del pensiero per realizzarsi come tale. Non è un semplice agente formale che permette di veicolare, comunicandolo, un contenuto di pensiero preformato nella nostra mente, ma è lo strumento che rende possibile determinare concettualmente lo stesso contenuto. Per Cassirer l'atto di determinare concettualmente un contenuto di pensiero va di pari passo con l'atto del suo riconnotarsi in un non meglio precisato simbolo caratteristico. Dal momento che spetta al simbolo di costituire i concetti, esso determina anche l'"oggetto" della realtà spirituale. Quando con Aristotele si afferma che "l'uomo è un animale razionale", si è certamente nel giusto. Ma l'aggettivo "razionale" richiama il sostantivo corrispondente, "ragione", che a Cassirer sembra una parola inadeguata. L'uomo, infatti, si realizza in moltissime forme nella sua vita spirituale, nella sua cultura. La cultura non dà vita soltanto al mondo scientifico, informa di sé una civiltà multiforme, poliedrica e complessa, che crea arti, religioni, istituzioni, etc. Parimenti alla dimensione conoscitiva umana, anche qualsiasi altra forma della sua creazione spirituale è una "forma simbolica". Per il filosofo tedesco l'uomo andrebbe a ragione definito "animale simbolico", in tal modo correggendo l'impostazione filosofica tradizionale, sia di marca empiristica che razionalistica, che poneva principalmente l'accento sulla razionalità umana, almeno da Socrate e Platone in poi. Da questo principio si ricava che la comprensione della storia umana non può essere se non ermeneutica dei simboli, quei simboli che rendono possibile la realizzazione e l'oggettivazione della vita culturale, che costituisce una parte essenziale della più ampia vita umana. La filosofia di Cassirer, che rivaluta il simbolo anche in senso linguistico come garanzia della conoscenza, sembra anticipare il cognitivismo e la filosofia della mente che, in corrispondenza analogia con l'indagine sui sistemi informatici, viene a determinare i processi conoscitivi della mente umana tramite l'uso inconscio dei codici simbolici, in questo riconoscendo una qualche corrispondenza tra la mente e il computer, il cui funzionamento richiede un linguaggio peculiare fondato su una rete di simboli alfanumerici. L'interesse per la teoria della conoscenza, d'altra parte, si lega in Cassirer ad un forte interesse per la storia delle idee e dei fatti umani, che, se non concorre direttamente alla costruzione di una propria filosofia della storia, si intreccia con altre coeve teorie della storia, con due filosofi importanti anche per gli sviluppi successivi che ne daranno gli ermeneuti successivi: Windelband e Rickert.

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